giovedì 23 luglio 2009

Stella (Stella) di Sylvie Verheyde - 2008


Stella corre via felice per le banlieue parigine dopo aver acquistato il suo primo libro. E' un meraviglioso piano sequenza sulla fuga dal vuoto, sul cambiamento di una bambina nata e cresciuta nella solitudine dei sobborghi poveri e guasti, nel disinteresse dei genitori. "Lì ci sono giochi se vuoi puoi giocare, il padre è solo un uomo e gli uomini son tanti, scegli il migliore seguilo e impara" ( Francesco Tricarico). Stella per invertire la rotta, risalire dal pozzo di una vita priva di buoni auspici, sceglie come genitore i libri, un'amica dolce e curiosa, una professoressa affascinante. Sylvie Verheyde ci mostra una Parigi intima ( quasi sempre da dietro finestre fatiscenti) e testimonia con morbidezza e scrupolo questo passaggio autobiografico. La piccola, grande, attrice Léora Barbara aggiunge, dal suo sguardo sperduto, una splendida luce che non giudica e non condanna. Mi chiedo se oggi, in futuro, ci siano e ci saranno tanti piccoli sostegni per i figli dell'assenza, anche per quelli che non hanno gli occhi di Stella.


Voto: 7

Luca Tanchis

giovedì 16 luglio 2009

REVOLUTIONARY ROAD (REVOLUTIONARY ROAD) DI SAM MENDES - 2008

"Tutti sanno cos'è la verità. Nessuno dimentica la verità Frank, si diventa solo più bravi a mentire." dice April (Kate Winslet) a Frank Wheeler (Leonardo Di Caprio), ed è contraddittorio come il senso intimo del film e del romanzo di Yates da cui è tratto, sia invece travisato da Sam Mendes, bravissimo a mentire con il suo cinema conservatore.


La grandezza degli attori permea il dramma e arriva a giustificare l'uso del capolavoro letterario, mentre la maniera ostentata del regista lo imbriglia di quel vacuo che Frank e April vogliono sfuggire. Come in "American Beauty" tutto è perfetto, troppo calibrato. I colori sono i colori primi, la goccia di sangue sul tappeto bianco ha lo stesso rosso primitivo delle rose della teenager di "American Beauty". Mendes non concede nessuno scarto, nessun détournement, allo sguardo dello spettatore, ostaggio di ogni inquadratura. E la musica, come nei film precedenti, invasiva e accompagnatrice allo stremo: musica badante, che consiglia continuamente lo stato d'animo e invece paradossalmente toglie più di una virgola alla fierezza interpretativa di Di Caprio e di Kate Winslet. Eppure il materiale è di prim'ordine, il romanzo bellissimo, siamo in Connecticut nel 1955, Frank e April vanno ad abitare nell'elegante quartiere di Revolutionary Hill. April vuole diventare un'attrice affermata e Frank crede di avere enormi potenzialità, si sentono diversi e migliori del mondo piccolo borghese che li circonda. Il presunto grande talento che non riescono a focalizzare è infine solo quello di riuscire a scorgere il vuoto incolmabile della propria vita e del loro matrimonio, "un vuoto disperato..." come dice April all'alienato John, il matematico figlio dei vicini di casa. April vuole demandare la sua felicità ad uno spostamento geografico, Frank colmare la messa in scena della sua vita borghese di scenografie più ricche, particolari esotici, strumenti lussuosi, vestiti esatti. Si demarca un inedito conflitto tra sessi nell'America degli anni '50, i sogni di gloria pretestuosi di April e quelli di un placido affermarsi di Frank dove forse la verità può essere vista solamente attraverso gli occhi del matematico depresso al trentaseiesimo elettroshock, l'incarnazione delle estrazioni del lotto. Cerchiamo di spiegare e controllare tutto ma è comunque il caos, cosa che Mendes deve ancora rimuginare.


Voto: 6

Luca Tanchis

lunedì 13 luglio 2009

TONY MANERO (TONY MANERO) DI PABLO LARRAIN - 2008

Fare film così belli con due denari equivale ad affermare di avere delle idee che sono già cinema, e le idee di Pablo Larrain non hanno bisogno del vestito buono in fase di produzione e marketing o del divo-cartina al tornasole per illuminare un film debole. Hanno esclusivamente bisogno di una cinepresa e di una distribuzione più generosa e coraggiosa nelle sale. Senza il Torino Film Festival e Nanni Moretti avremmo mai visto quest'opera?
Siamo nel 1978 in Cile. La polizia di Pinochet fa fuori gli oppositori del regime e la "Saturday Fever" di John Travolta e Bee Gees arriva nelle sale di tutto il mondo. Raul Perralta vive per essere il clone di Tony Manero, per raggiungere questo scopo non accetta ostacoli e li elimina in qualsiasi maniera; riguarda il film decine di volte e impara i dialoghi in inglese, si fa fare dalla sarta lo stesso identico vestito bianco di Travolta in maniera talmente precisa da riportare lo stesso numero di bottoni sotto la cintura. Deve essere la reincarnazione di Manero, perchè solo così può esistere. Nient'altro che la televisione e il cinema gli possono trasmettere la Vita. Il sogno dell'apparizione catodica, quello di far battere il proprio cuore nell'etere, diventa l'unico perseguibile anche in Cile. Il modello occidentale deraglia nei paesi poveri, la bonifica di qualsiasi altro sistema di successo e di realizzazione approda nella plebe devastata dalla repressione, dalla povertà materiale e culturale: dal concerto con le pentole vuote ("cacerolazo") alla disco dance. E la dolorosa metafora (Pinochet/Raul fu supportato da Nixon/Tony) fa più male soprattutto ad un occhio così allenato al doping di valori e contenuti come quello italiano. 
Raul è Tony Manero, Raul è Pinochet e Pinochet è "Lamerica". 
Pablo Larrain popola il film di combinazioni e cifre, sgradevoli tesori da scoprire: l'impotenza di Raul o l'inesplicabile fascino che egli emana nel suo piccolo mondo. Aggiunge il velo di una fotografia sbiadita, sdrucita come biancheria lavata e usata troppe volte, che in questa depressione la chiarezza è un miraggio, e segue incessantemente il protagonista in oggettiva, senza nessuna comunione con questo Manero del sottosuolo, senza concedergli la compassione di una soggettiva sul suo piccolo cosmo. Un personaggio-società tra i più delineati degli ultimi anni cinematografici, un uomo sintesi della decadenza, un cane rabbioso senza coscienza storica e sensitiva. 
Un Tony Manero senza l'ombra di redenzione anche nella sconfitta. 
Nel beffardo finale, quando il mondo per cui ha sacrificato identità e valori toppa la valutazione, Raul non lascia trapelare nessuna emozione che faccia presagire uno spiraglio di umanità. Serafico e vuoto  aspetta la prossima trasmissione, il prossimo provino, nella speranza di materializzare un giorno, se stesso e la sua vita.
Voto: 7,5

Luca Tanchis

THE SPIRIT (THE SPIRIT) DI FRANK MILLER - 2008

Sul finire della visione di "The Spirit" mi è tornato in mente l’Amleto di Carmelo Bene che diceva: " Come mi annoio...come mi annoio superiormente...". Dopo il riuscito esperimento di "Sin City", Frank Miller si assume in completa solitudine la direzione dei lavori (in "Sin City" era co-regista e co-sceneggiatore con Robert Rodriguez), prende il fumetto di Will Eisner, riveste New York di bianco, nero e argento e gremisce la storia di donne bellissime (Scarlett Johansson, Eva Mendes, Sarah Paulson), ma non convince per niente. Una macchina produttiva con i denti di uno squalo, tutta molto bella e curata esteticamente, ma che difetta di pane, e il cinema, che nei paraggi di queste produzioni è sempre stato "food for the masses", senza pane è un tradimento. Trama semplicissima che prevede un certo Denny Colt/The Spirit (l'insipido Gabriel Match) che difende la sua amata città da ladri, criminali comuni, e dalla sua nemesi Ocktopus (Samuel L. Jackson che dai tempi di Pulp Fiction non azzecca un film). Successivamente Denny si invaghisce della meravigliosa Sand Saref (una Eva Mendes che in muta nera attillata merita sicuramente qualche fermo immagine) ma ovviamente rimane fedele al suo dovere di supereroe e alla sua vera donna: New York. Forse Miller ha peccato di autostima e lì dove interveniva la mano di un ottimo regista (Rodriguez più una spruzzata di Tarantino in "Sin City") o il salvagente di una grande storia epica (300), il suo apporto risaltava e precisava uno stile luminoso, un marchio artigianale lontano dall'essere sterile maniera come in quest'ultima opera: In "The Spirit" manca proprio lo spirito.
Voto: 4
Luca Tanchis

domenica 5 luglio 2009

WRISTCUTTERS: UNA STORIA D'AMORE (WRISTCUTTERS: A LOVE STORY) DI GORAN DUKIC - 2006

A quasi tre anni dalla presentazione al Sundance Festival (dove faceva compagnia all'ottimo "Una Guida Per Riconoscere i Tuoi Santi" di Dito Montiel) è finalmente stato distribuito in Italia il film del croato Goran Dukic. Una storia semplice, con un inizio e una fine che chiudono il cerchio geometricamente, ma nel mezzo una scrittura grottesca e solida che parla di mondi paralleli abitati solamente da gente morta suicida (wristcutters significa "tagliatori di polsi"), come fosse un racconto con la cornice di Maupassant e la polpa scritta da Bulgakov (in realtà la sceneggiatura è ispirata ad una novella di Etgar Keret, 'Pizzeria Kamikaze'). Dopo il suicidio, in un mondo post mortem, il pizzaiolo Zia (Patrick Fugit) parte alla ricerca della sua ex-findanzata, anch'essa morta suicida, accompagnato dal cantante Eugene (Shea Whigham) e l’autostoppista Mikal (l'incantevole Shannyn Sossamon). Dukic ha un tocco leggero e surreale, inscena un road movie pieno di grazia e ironia nonostante l'argomento trattato, e tutto lo straniante ornamento di metafore non è mai superfluo. Nel mezzo del cammin appare un grande Tom Waits, tutto vestito di bianco, che stupisce a dispensare nuova vita, nel rincorrere cagnolini traditori e a dirci sui miracoli: " Sai come funziona?? Se lo desideri con tutto te stesso, non succede...Se te ne freghi, succede...quindi fregatene". Waits contribuisce, insieme ai Gogol Bordello, anche alla bellissima cernita musicale che in un film come questo ha un incarico essenziale: conferire una scelta di genere, dare alla strada il giusto corteggio. Per chi dopo il suicidio volesse ordinare una pizza da asporto prenda nota della "Pizzeria Kamikaze".

Voto: 7
Luca Tanchis