«Saigon, 1960, Le Cercle Sportif è un famosissimo club, piscina e palestra di judo, sempre affollato: proprietari terrieri francesi, generali vietnamiti, prostitute indocinesi - e bambini americani come noi. La scuola è lì dietro all’aeroporto ma non c’è aria condizionata e a mezzogiorno e mezzo siamo già tutti fuori: tutti in piscina. Come faccio a scordarlo?
C’è questo ragazzo lì sulla pedana, si gira e fa a me che sto al bordo: Tuo padre è una spia. Io sbianco: Che stai dicendo? E quello: Lavora per la Cia. Poi pluff: e si tuffa giù. Quella sera prendo mio padre tutto emozionato: Ma sei una specie di James Bond, è vero? Mi hanno detto che lavori per la Cia! Lui si china verso di me: Proviamo a mantenere un segreto?». Il figlio dell’Uomo che Nessuno Conobbe sfoglia l’imbarazzante album di famiglia e si racconta la storia dietro a ogni foto: interrogando la Storia. «In Italia abitavamo accanto alla casa di Alcide De Gaspari: coincidenze? In Vietnam abitavamo accanto al presidente Ngo Dinh Diem: coincidenze?». Non ci sono coincidenze nella vita del figlio dell’Uomo che Nessuno Conobbe, The Man Nobody Knew, come recita il titolo del film inchiesta che Carl Colby ha dedicato a suo padre William, la spia più famosa del mondo, il mitico Capo della Cia. William Colby è l’uomo che in Italia tagliò le gambe al Partito comunista impedendo la conquista del governo e organizza la rete clandestina Gladio. William Colby è l’uomo che in Vietnam diede vita a quell’Operazione Phoenix accusata di pianificare morte e distruzione.
William Colby è l’uomo che negli Usa si rifiutò poi di obbedire alla Casa Bianca di Richard Nixon: fino a quella morte archiviata tra mille sospetti come incidente sul fiume dietro casa, in Maryland, il corpo ritrovato dopo giorni, il mistero dell’ultimo delitto o del suicidio.
Ma William Colby, per il figlio Carl, è soprattutto l’uomo che neppure lui è riuscito mai a conoscere davvero: nemmeno dopo avergli dedicato questo tormentatissimo film che adesso arriva nell’Italia in cui crebbe bambino. «Ho dovuto rimettere in ordine tutti i tasselli, ritrovare i protagonisti, in decine e decine di testimoni». A cominciare dall’ultima persona che un regista si sognerebbe di spogliare davanti alla macchina da presa. «In fondo mia madre è la prima vittima: lei stessa scoprì la vera identità per caso. Per anni credette alla maschera che mio padre si era costruito: irreprensibile funzionario dei Dipartimento degli Esteri in missione per il mondo». Davanti all’obbiettivo di Carl sfilano i testimoni degli ultimi cinquant’anni di segreti Usa e non solo.
Da Donald Rumsfeld, l’allora capo di staff di Nixon che lo fece fuori, a Seymour Hersh, il grande reporter che per il New York Times svelò le bugie del Vietnam. Dall’ex boss del Sismi Corrado Cantatore al mitico Bob Woodward, il cronista dello scandalo Watergate.
Ma la Storia con la maiuscola per Carl è solo la cornice che inquadra un’altra personalissima storia. «Il punto di svolta è il 1963, la notte che uccisero il presidente del Vietnam con il fratello. Siamo in Usa da un anno, attraversiamo un ponte in auto quando la radio dà la notizia. Mia madre è sconvolta: com’è potuto accadere? Quella famigliola in auto lì negli States era stata intima di che adesso marciva in una pozza di sangue a Saigon: mia sorella giocava con le nipoti del presidente. Mio padre cerca di dire qualcosa: non sono d’accordo, non volevo. Mia madre lo incalza, è la prima e unica volta: e allora perché non ti dimetti. No, non mi dimetto, non scappo, mai scappato,voglio cambiare cose dall’interno, io. È in quel momento che comincio a chiedermi chi è davvero quel signore che dice di essere mio padre: che ruolo ha, com’è possibile che non sia d’accordo con quel macello, lui è il capo della divisione Estremo Oriente, lui è stato il capo lì a Saigon. E’ certo che lui sapeva che stava arrivando il colpo di stato: no, non sono gli americani a uccidere i Diem ma sono gli americani ad avere preparato le circostanze.
«È in quel momento che scopro che il gioco si è fatto improvvisamente duro: che i tempi dell’Italia sono ormai lontani». Negli occhi di Carl l’Italia è rimasto il Belpaese di lui bambino. « Sì, certo, Gladio, ma a Roma mai saputo di storie di violenze: ok, una notte l’Unità non esce perché qualcuno sabota la tipografia, ma non muore nessuno». Il figlio dell’Uomo Che Nessuno Conobbe fatica a far pace con quel padre che non è come gli altri diplomatici: che non era stato come gli altri soldati. «La sapete la storia, subito dopo la guerra gli americani lasciano l’Europa il più in fretta possibile, tutto un saltare sul primo aereo, un bel bacio nel mezzo di Times Square ed è finita». Non per William Colby. «Sono gli ultimi giorni, papà è in questo gruppo paramilitare, Norvegia, fa saltare ponti, strade, interrompe i collegamenti di truppe tedesche, sono lì nella baia di Bergen, c’è questo enorme incrociatore nazista, ma la guerra sta finendo e il comandante dice ok, fermi tutti, prima di colpire dobbiamo sentire gli alleati a Berlino. Telegrafano, e quelli dicono di fermarsi. Allora mio padre si china verso il comandante, che era un inglese: Va bene, ma adesso che è fatta possiamo dedicarci alla guerra vera, voi inglesi e noi americani contro il nemico vero: i russi».
Un incubo, per Colby, i rossi. «Ma non era tanto per l’ideologia del comunismo, era l’aspetto autoritario, il comunismo come il fascismo e il nazismo. Papà era cattolico ma i Colby erano cattolici strani, lo zelo dei convertiti, mio nonno Elbridge episcopale, suo padre un prof di chimica che morì giovane, la moglie dovette arrabattarsi e trovò aiuto nei cattolici infiammati dalle dottrine sociali del cardinal Newman. Invece dalla parte di mia nonna questa famiglia di pionieri, commerciavano in spezie e tè con gli indiani, il mio bisnonno faceva affari con Toro Seduto lassù in North Dakota, incredibile. Papà cerca di andare a West Point ma non lo prendono, troppo basso, finisce a Princeton e sono gli anni Venti, è l’era di Francis Scott Fitzgerald, l’America di Woodrow Wilson che scopre lo spirito internazionalista.
Papà vuole partire addirittura per la Spagna a combattere contro i franchisti ma è troppo giovane, a diciassette anni si ritrova in Francia quando comincia la guerra.
E’ la sua avventura». Carl ha preso tutta un’altra strada, ma il cinema era una passione anche di papà. «Un giorno gli chiedo i film preferiti. E lui: primo Lawrence d’Arabia - e va bene, l’eroe romantico che si trasforma in qualcun altro, l’inglese Peter O’ Tool che diventa il ribelle beduino. Secondo:Il ponte sul fiume Kwai , e già qui è più complicato, perché il suo eroe è William Holden, Shears, l’americano che si spaccia per comandante, riesce a fuggire, ma poi lui stesso si ricaccia nei guai per i compagni e viene ucciso. E poi soprattutto il terzo: l’Orson Welles de Il terzo uomo. Gli chiedo: Papà, ma come fai? Quel personaggio, Harry Lime, vende morfina adulterata al mercato nero, ci sono bambini che muoiono, come fai a stare dalla sua? E lui, recitando a memoria la battuta memorabile che Welles improvvisa lì sulla giostra di Vienna: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassini, massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo Da Vinci e il Rinascimento.
In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia - e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Ecco, mio padre era Harry Lime». L’Uomo che Nessuno Conobbe era il Terzo Uomo.
Oriana Fallaci intervista William Colby
da 'Intervista con la storia', ed. Bur, 1990
Washington, marzo 1976
Più che di una intervista si trattò di una rissa, esasperata ed esasperante, angosciosa e cattiva, invano vestita coi toni civili della discussione. Oltre il gioco delle domande e delle risposte, il pretesto del giornalismo, la realtà rendeva entrambi consapevoli dei nostri ruoli opposti e nemici. Lui rappresentava il potere, la piovra invisibile e onnipresente che tutto domina e strozza. Io, la sua vittima. Lui credeva al diritto di spiare, interferire, corrompere, rovesciar governi, organizzare complotti, uccidere, tenere sotto controllo perfino me: ad esempio registrando le mie telefonate. Io credevo al diritto d’essere lasciata in pace e amministrarmi da sola la libertà che mi spetta. Così il rancore con cui l’avevo aggredito dicendogli subito che il mio paese non è una sua colonia, una sua repubblica delle banane, presto lo contagiò. E non fu più possibile trovare un punto d’intesa, di tolleranza reciproca. Per ore, come due insetti impegnati a bucarsi, ferirsi, straziarsi, ci gettammo in faccia rimproveri accuse e crudeltà. (Prevenzioni ideologiche, lui le chiamava.) E lo spettacolo aveva qualcosa di assurdo, ai limiti di una sottile pazzia. Avvelenata dalla passione e dalla rabbia, la mia voce a volte tremava. La sua invece restava inalterata, controllata, sicura. L’unico segno di ostilità veniva dagli occhi celesti, fermi quanto gli occhi di un cieco, che a tratti si accendevano di silenziosa ferocia senza che le sue labbra cessassero di sorridere, senza che le sue mani cessassero di versare con dolcezza il caffè. A un certo punto mi chiesi a chi assomigliasse quest’uomo di ghiaccio che mi faceva soffrire. E la risposta fu facile. Assomigliava a un prete dell’Inquisizione, o un funzionario del Partito comunista sovietico. Che poi è la stessa cosa. Una volta avevo visto sui giornali la fotografia di Suslov. E William Colby aveva lo stesso sguardo, lo stesso naso, la stessa bocca di Suslov. Aveva anche lo stesso corpo lungo, asciutto, elegante. La stessa compostezza spietata. Sbagliai a dirgli, da ultimo, che mi ricordava Cunhal. Con Cunhal aveva in comune solo il fanatismo e la mancanza di quella meravigliosa virtù che ha nome dubbio. (Ogni sua parola era tesa a dimostrare il suo odio cieco incrollabile, non solo per i comunisti ma per chiunque si definisse di sinistra.)
William Colby: per ventott’anni funzionario eminente della CIA, per due anni e mezzo suo direttore. Il suo vero ritratto è nel racconto che egli fa di se stesso. Eccolo. «Come si diventa capo della CIA? Per caso, by chance. E perché si entra nella CIA? Per avventura intellettuale. E per patriottismo. Mio padre era ufficiale dell’esercito. Aveva un alto senso del dovere. L’ho ereditato insieme al gusto di viaggiare e all’amore per l’America. La famiglia di mio padre venne qui nel 1600, dall’Inghilterra. La famiglia di mia madre ci venne duecento anni dopo, dall’Irlanda. Sono stato concepito nel Panama, sono nato nel Minnesota, sono cresciuto per alcuni anni in Cina: a Tien Tsin. A diciotto anni sono andato in Francia a imparare il francese. So il francese, il norvegese, il tedesco, l’italiano, il vietnamita: anche se li ho dimenticati un po’. Ho la laurea in legge e pensavo di fare l’avvocato. Perché divenni invece una spia? Non per divertimento, è sicuro. Non ho mai letto un libro su James Bond. Leggo solo testi di politica, storia, filosofia, marxismo, leninismo. La faccenda andò così. Durante la seconda guerra mondiale ero ufficiale in Oklahoma. Allenavo i soldati. Ma non volevo seguire la guerra da lontano, dall’Oklahoma. Così entrai volontario nei paracadutisti. Avevo ventidue anni. Un giorno venne uno dell’OSS. Cercava gente da paracadutare in Europa, per aiutare la Resistenza. Non avevo nulla di meglio da fare. Accettai. Mi paracadutarono in Francia e in Norvegia. Lì combattei coi partigiani. Operazioni di sabotaggio eccetera. Finita la guerra, l’OSS fu dissolto e perciò mi misi a fare l’avvocato. Ma scoppiò la guerra in Corea e rientrai nel servizio segreto, nella CIA. Dopo la Corea fui alcuni anni in Italia. Poi a Washington e in varie parti del mondo. Due volte in Vietnam. Al tempo di Diem e nel 1969-1970, quand’ero a capo del programma Phoenix.» Naturalmente non disse che il programma Phoenix sterminò, spesso con l’assassinio, oltre ventimila vietcong. E, quando glielo ricordai, sostenne che ventimila non sono molti: in battaglia muore più gente. Non disse che nessuna delle tragedie avvenute negli ultimi anni gli era estranea: che era implicato in quella del Cile, in quella di Cipro, in quella dei Curdi. Tanto per citarne due o tre. Però ammise d’essere stato lui il più forte sostenitore dei finanziamenti ai democristiani e ai socialdemocratici italiani. E questo era molto importante visto che ero andata da lui soprattutto per chiedergli della corruzione esercitata dalla CIA nel mio paese.
L’intervista-rissa avvenne nella modesta villetta in cui abitava, presso Washington, insieme alla moglie e ai due figli minori. (I due maggiori erano sposati. Il più vecchio aveva trentaquattr’anni e faceva l’avvocato.) Fui con lui due volte, per una lunga mattina di venerdì e un intero pomeriggio di domenica. Né la prima né la seconda volta si lasciò andare a un gesto di sgarberia o di impazienza, né la prima né la seconda volta accennò a farmi fretta. Fu sempre cortese, elegante, controllato: perfetto. Lo stesso comportamento che aveva tenuto dinanzi al senatore Church e al deputato Pike che lo interrogavano per i comitati di inchiesta parlamentare. Lo scandalo nato in quella circostanza intorno ai delitti della CIA e le dimissioni cui era stato costretto non gli avevano spaccato i nervi: figuriamoci se avrei potuto spaccarglieli io. Mantenne il suo sangue freddo anche quando l’intervista venne pubblicata, in quasi tutto il mondo, sollevando un rumore pari a quello che avevo provocato con le interviste a Kissinger e a Cunhal. Infatti sia alla televisione che alla stampa dichiarò che il testo scritto dimostrava come la battaglia fosse stata gloriosamente vinta da lui, penosamente persa da me, e perché non andavo a intervistare il capo del KGB? Poi, per dimostrarmi quanto fosse liberale e chiarire che la mia insolenza non lo toccava, prese anche a scrivermi letterine di indulgente simpatia e bonario rimprovero per il mio «anarchismo» e il mio «sinistrismo»: riconoscendo però che ero una giornalista accurata ed onesta. In una diceva: «Possiamo trovarci in disaccordo, e infatti noi due ci troviamo molto in disaccordo, ma ritengo benefico per le società libere che ci si possa litigare e scambiare idee senza paura l’uno dell’altro». Non gli risposi mai chiedendogli cosa intendeva per società libere e scambio di idee senza paura. Certo non avevo e non ho paura di lui o della sua CIA ma devo confessare che, vedendo la sua firma, avvertivo ogni volta una specie di brivido.
Io mi rendo conto che la CIA ha sempre il vantaggio di farsi intervistare e il KGB no: l’osservazione era giusta. Però è difficile dimenticare il senso di minaccia che si prova a sentirsi e sapersi controllati da essa: come io lo sono da anni. E non so se Colby ne è al corrente, visto che la cosa accadde quando egli era ormai un privato cittadino: ma sembra che la CIA non sia del tutto estranea all’uccisione di Alessandro Panagulis. E, per quanto ciò possa ingiustamente ferire il signor Colby, devo dire che tale pensiero fu il primo che mi venne alla mente quando, per il Natale del 1976, ricevetti un suo gentile cartoncino di auguri. Con la Madonna ammantata d’azzurro e teneramente abbracciata al Bambin Gesù.
ORIANA FALLACI. Quei nomi, signor Colby. I nomi dei miserabili che in Italia hanno preso soldi dalla CIA. L’Italia non è una repubblica delle banane della United Fruits, signor Colby, e non è giusto che il sospetto gravi su un’intera classe politica. Non crede che Pertini, il presidente della nostra Camera, abbia diritto di conoscere quei nomi?
WILLIAM COLBY. No, perché la nostra House of Representatives ha detto col voto che i nomi devono restare segreti e perché la CIA deve proteggere i suoi soci, deve proteggere chi lavora con lei. Naturalmente la decisione di dare o no quei nomi spetta al governo degli Stati Uniti, e io non parlo per il governo. Parlo per la CIA. Ma il mio giudizio è no, la mia raccomandazione è no. Niente nomi. È il minimo ch’io possa fare per rispettare l’accordo con la gente che lavorava con me. Al suo Parlamento possono fare tutte le inchieste che vogliono: non esiste una polizia per le indagini? Chi si sente sospettato non ha che da dire «non è vero, non ho ricevuto il denaro». Per me va benissimo. Io non posso sacrificare alcuni per evitare il sospetto su altri. Io ho promesso di tenere un segreto e lo terrò perché, se rompo la promessa, non potrò più rivolgermi a gente nuova. Sarebbe facile andare per esclusione, rispondere «no» a sei nomi e «no comment» al settimo. Lei avrebbe quello che cerca. Perché non cerca la stessa cosa coi russi? Perché non chiede al governo sovietico i nomi dei comunisti che prendono i soldi di Mosca in Italia? I sovietici fanno esattamente ciò che facciamo noi. Hanno i nostri identici problemi.
Parleremo dopo dei russi. Ora parliamo della CIA, signor Colby. Se io, cittadina straniera, venissi qui a finanziare un partito americano e ventuno dei vostri uomini politici, inoltre alcuni dei vostri giornalisti, cosa...
Lei commetterebbe una cosa illegale e, se venissi a saperlo, la denuncerei all’FBI perché la arrestasse.
Bene. Dunque io dovrei denunciare alla polizia italiana lei, il suo ambasciatore, i suoi agenti, e farvi arrestare.
Non dico questo.
Come no? Se è illegale che io corrompa, diciamo, un signor Pike o un signor Church, non è altrettanto illegale che lei corrompa, diciamo, un signor Miceli?
Io non dico che lei corromperebbe. Dico che agirebbe contro la mia legge.
Ma anche lei ha agito contro la mia, signor Colby! E sa cosa aggiungo? V’è solo un tipo più disgustoso del corrotto: il corruttore.
Noi della CIA non corrompiamo. Se avete un problema di corruzione, nella vostra società, esso esisteva molto prima che la CIA arrivasse. Corrompere significa dare denaro a chi fa cose per noi, e noi non diamo denaro per questo. Diamo denaro a chi non ha abbastanza denaro per fare quello che vuole. Fondamentalmente noi sosteniamo i regimi democratici e, fra tutti i paesi che dovrebbero capirlo, c’è l’Italia. È stato l’aiuto americano che per trent’anni ha impedito all’Italia di cadere in un comunismo autoritario. E ci siamo riusciti sostenendo i partiti del centro democratico, sempre.
I vostri «clienti», come lei li definisce nel rapporto Pike. Signor Colby, sul dizionario inglese-italiano la parola «client» è proprio tradotta «cliente». Ma cosa significa «cliente» per lei?
Bè,... ecco... Com’è che un avvocato chiama... Cosa fa un avvocato col suo cliente? Un avvocato aiuta il cliente... Sì, clienti dell’avvocato.
Dunque lei si considera l’avvocato dei democristiani e dei socialdemocratici in Italia.
Giusto. Cioè... No. Non voglio commentare nessuna situazione particolare.
Perché? Mi aveva forse risposto con una bugia?
Io non dico bugie. E soffro quando mi accusano di dire bugie. Non le dico proprio. A volte taccio qualcosa, a volte mi rifiuto di dare un’informazione, tengo il segreto. Ma niente bugie: neanche se volessi. La Camera non me lo permetterebbe, e neanche il Senato, neanche la stampa. Il capo dell’Intelligence americana non è come il capo dell’Intelligence di altri paesi dove gli è consentito negare cose vere. Qui l’Intelligence agisce sotto il controllo della legge, non al di fuori della legge. E, per cavarsela, bisogna dire «no comment». Ma, sui nostri finanziamenti ai partiti democratici, voglio porle una domanda io: sarebbe stato giusto o no se l’America avesse aiutato i partiti democratici contro Hitler?
Le rispondo subito, signor Colby: in Italia non esiste alcun Hitler. E quegli ottocentomila dollari che l’ambasciatore Graham Martin volle dare al generale Miceli, con la benedizione di Kissinger, non finirono affatto in mani democratiche. Finirono in quelle dei seguaci di Hitler.
Non discuterò alcuna operazione specifica della CIA ma le dirò che ho un grande rispetto per l’ambasciatore Martin. Siamo stati insieme in molte parti del mondo e l’ho sempre giudicato un uomo forte, un uomo che prendeva sempre le posizioni giuste e le responsabilità giuste nell’interesse degli Stati Uniti. Inoltre ritengo che in questo genere di attività la CIA possa avere un punto di vista e il nostro governo possa averne un altro. Non è la CIA che decide, è il presidente che decide. Non dimentichi che in ciascuna di queste operazioni la CIA è al servizio del governo, segue le direttive del governo. A volte le direttive sono accettabili, a volte no. Ma, in ogni caso, la CIA le segue con rigore. Almeno fino a un anno fa, cioè fino a quando è passata la nuova legge, il presidente poteva chiamare il direttore della CIA e dirgli: «Fai questo e non dirlo a nessuno».
Dunque furono proprio Nixon e Kissinger a voler dare quei soldi a Miceli: la CIA era davvero contraria. Se li vede, li ringrazi per le bombe che i fascisti fabbricano con quei soldi.
Non posso parlare di questo. Però so che i neofascisti hanno solo l’8 per cento dei voti e che, sebbene esistano elementi molto estremisti fra loro, non rischiate certo un’altra marcia su Roma. So che il pericolo per voi è rappresentato dai comunisti. E so che, dalla fine della guerra, noi della CIA non abbiamo fatto altro che aiutare le varie forme democratiche contro la minaccia comunista. E questo ha continuato per venticinque, anzi trent’anni.
Col risultato che i comunisti ora sono alle soglie del governo e ad ogni elezione guadagnano voti. Ma le sembra di averli spesi bene quei soldi? Le sembra che la sua Intelligence sia stata intelligente?
Di solito non spendiamo i nostri soldi in sciocchezze. Certe cose non si giudicano da un fattore e basta. In questo caso, dal 33 per cento che hanno ottenuto i comunisti nelle ultime elezioni. E forse gli interventi americani in Italia dopo la seconda guerra mondiale non sono stati perfetti, però sono stati utili. Positivi. Parlo anche della NATO e del Piano Marshall. Quando io ero a Roma, nel 1953, la gente viaggiava in Vespa. Ora viaggia in automobile. Oggi vivete meglio di come sareste vissuti se i comunisti avessero vinto nel 1948 e anche nel 1960. L’italiano medio vive meglio del polacco medio, dunque la politica americana non è stata un errore in Italia. Abbiamo fatto un buon lavoro. Quando dite di cavarvela male, ripetete le stesse cose del 1955. Anche allora gridavate che il governo era pessimo e tutto crollava. In Italia vedete sempre le cose in modo catastrofico, vi sentite sempre sull’orlo del precipizio. Eppure la catastrofe, nel 1955, non è avvenuta. E non avverrà neanche ora. Perché vi sono buoni italiani.
Certo non i suoi «clienti», signor Colby.
Io parlo della gente normale.
Qual era l’uomo politico che le piaceva di più quand’era in Italia?
De Gasperi, direi. Ma non posso far nomi. Non devo. Del resto non conoscevo molte persone importanti... Ero un giovane funzionario e il mio lavoro consisteva piuttosto nel raccogliere informazioni e stare in contatto coi gruppi politici giacché parlavo italiano. Posso dirle solo che, a quel tempo, io ero per l’apertura a sinistra. Sì, un’apertura ai socialisti. Li rispettavo. Li rispetto ancora perché i socialisti sono occidentali, sono europei, credono davvero nella libertà e nella democrazia. Negli anni Cinquanta ritenevo che avessero commesso un grande errore ad allearsi coi comunisti ma ritenevo anche che, alla lunga, non avrebbero mantenuto quell’alleanza. E così ero per una apertura verso di loro, sì. Ma, a quel tempo, questo non era il fattore decisivo della politica americana in Italia.
Già. C’era Claire Boothe Luce come ambasciatore. Fino a che punto, come CIA, lei operava e opera in collaborazione con l’ambasciata USA?
Operavo molto con l’ambasciata, ovvio. Ero l’addetto politico: political attaché. Si opera sempre con le ambasciate. La maggior parte delle informazioni le abbiamo attraverso le nostre ambasciate. E la signora Luce faceva un buon lavoro. Un ottimo lavoro. Sono ancora amico della signora Luce. Donna interessante, capace.
Soprattutto di interferire nelle faccende del mio paese, neanche fosse stato una sua colonia. Però non è solo attraverso la vostra ambasciata che voi operate in Italia: sappiamo tutti che il vero pied-à-terre della CIA in Italia è il SID. E le chiedo: con quale diritto lei si permette di spiarmi in casa mia usando il servizio segreto del mio paese? Con quale diritto controlla ad esempio il mio telefono?
Perché così io so quel che succede nel mondo. E il controllo del telefono, guardi... io ho avuto il telefono controllato tante volte, in tanti paesi, ne sono certo. E non me ne è mai importato. Anche se fosse controllato ora, cosa che escludo, non me ne importerebbe nulla. Almeno sul piano emotivo. Non ci vedo nulla di male a tentar di capire cosa succede nel mondo, cosa pensa la gente e cosa fa. Non si tratta mica di spiare la privacy altrui: si tratta di sapere se lei ha una pistola puntata contro di me, o una qualsiasi altra arma per farmi del male. Insomma, lei mi sta chiedendo: una nazione ha diritto o no di usare la sua Intelligence in un’altra nazione, attraverso attività clandestine? Bè, in ogni paese c’è una legge che risponde no. E quasi in ogni paese lo si fa. Perché moralmente si ha il diritto di tentar di scoprire cosa accade, e così proteggerci. È illegale ma se ne ha il diritto.
Guardiamo se ho capito bene. Lei considera illegale ma legittimo agire anche attraverso il servizio segreto di un altro paese. Ad esempio il mio.
Dipende. A volte un’altra Intelligence ci aiuta. Dipende dalla politica del paese. A volte due paesi hanno un interesse reciproco, ad esempio sono molto vicini ai loro alleati e molto preoccupati di una penetrazione. Così lavoriamo insieme.
Come dicevo. È vero o no che la migliore operazione della CIA col SID fu la fuga da Mosca di Svetlana Stalin?
Non posso dirlo. Soprattutto in questo periodo di investigazioni non devo parlare dei nostri soci e dei nostri rapporti coi servizi segreti stranieri. Se lo faccio, se chiunque di noi lo fa, non si fidano più della nostra Intelligence. Un servizio di Intelligence non deve dire nulla sui suoi soci. Lei non immagina quanto sia stata danneggiata la CIA da quel che è successo. Immensamente. In tutto il mondo. C’è gente che ora ci dice: «Ma come faccio a stare con voi? Posso davvero affidarvi la mia vita? Oppure racconterete tutto al Senato e al Congresso?». Molti ci hanno voltato le spalle. Molti che operavano con noi ci hanno detto no, basta, non continuo. Perfino certi servizi segreti stranieri ci hanno detto no, basta, vi davamo tanto materiale segreto e d’ora innanzi non vi daremo più nulla. Abbiamo perduto una quantità di collaborazione, una quantità di agenti...
Solo agenti o anche clienti?
Anche clienti. Alcuni ci hanno detto: «Non dateci più nulla, per carità, sennò poi lo raccontate». Gente nuova e gente di antica data. Si sono sentiti traditi. Noi della CIA ci siamo battuti molto per tenere i loro nomi segreti, e direi che abbiamo vinto. Ma la pubblicità intorno a questa faccenda ci ha fatto lo stesso un gran male. E queste sono cose che al KGB non succedono. In Italia avete un mucchio di agenti del KGB. Molti. Anche italiani, naturalmente. Il KGB fa uno sforzo molto grosso in Italia, a parte il fatto che può contare sul Partito comunista italiano. Uno sforzo molto energico. Però nessuno chiede al KGB di rivelare i nomi dei suoi agenti, dei suoi clienti, o le sue attività. Nessuno gli chiede di comportarsi in modo democratico e liberale. Al KGB non si rimproverano colpe, del KGB non si rivela nulla: né il giusto né lo sbagliato. Chi accusa il KGB di interferire con le faccende private del suo paese?
Lei si sbaglia, signor Colby. La santa verità è che non vogliamo né voi né loro. Ne abbiamo abbastanza di voi e di loro.
Bene, bene. Ma allora perché non parlate dei soldi che i comunisti italiani prendono dal commercio con l’Europa dell’Est? Tutto il materiale che va e viene attraverso il commercio con l’Unione Sovietica e i paesi satelliti passa da agenzie che danno una percentuale ai comunisti italiani. È un buon sistema. Complicato ma buono. Ci hanno messo trent’anni per perfezionarlo. Che ne direbbe se l’America avesse con l’Italia un commercio governativo e desse la percentuale a un partito?
Non ci pensa la CIA a fare questo? Non ci pensano gli ambasciatori come Martin? Non ci pensano le ditte come la Lockheed, la Gulf, la Esso?
È straordinario il suo modo di razionalizzare e indirettamente concludere che gli altri sono bravi ragazzi, creature buone pulite squisite. I sovietici danno una percentuale dei loro commerci con l’Italia a certe persone che poi la passano al PCI, e lei dice: è la stessa cosa. Sì, è la stessa cosa che fecero in Polonia affinché il PC polacco andasse al governo e poi al potere. Si incomincia sempre così: si aiuta il partito comunista coi soldi, il partito va al governo, poi va al potere, e ci resta. Ma guai se non ci resta come vuole l’Unione Sovietica! Arriva una delegazione da Mosca, si mette intorno a un tavolo col comitato centrale, e gli spiega che è «meglio comportarsi bene». Vorrebbe che l’Italia finisse così? E supponiamo che la corruzione in Italia sia da una parte e basta, supponiamo che i comunisti in Italia siano bravi ragazzi puliti: per questo li lascerebbe andare al governo? Per questo lei correrebbe un simile rischio? Nomini un paese che sia stato comunista e che ora non lo sia più. Uno solo! Uno dove il PC sia andato al potere e poi si sia ritirato secondo le regole del gioco democratico, lasciando a un altro partito il diritto di governare. Lo nomini! Uno! Uno solo!
Signor Colby: cosa ci fareste, voi americani, se i comunisti vincessero le elezioni in Italia?
Nomini un paese! Uno solo!
Signor Colby, ci fareste un golpe come in Cile?
Un paese! Un paese solo! Romania? Cecoslovacchia? Ungheria? Polonia?
Mi risponda, signor Colby: un altro Cile?
E se poi non ci fossero altre elezioni? Se poi accadesse come accadde con Hitler e Mussolini? Ma non capisce che i comunisti sono stati tutti questi anni al gioco democratico perché gli conveniva? Non capisce che, finché erano in minoranza, il sistema democratico gli serviva? Ma lei crede davvero che quando saranno al governo continueranno a essere democratici? Quella non è gente cui si possa dire «siccome-siete-bravi-ragazzi-vi-lasciamo-comandare-per-un-po’». Il loro centralismo democratico non ha nulla a che fare con la democrazia. E i vostri guai potete risolverli in modo migliore che lasciandogli vincere le elezioni. Lo ricordi. O non vincerete le elezioni mai più.
Lei potrebbe anche aver ragione. Però le ricordo che a gettare i paesi nelle braccia dei comunisti siete proprio voi americani: comprando, corrompendo, proteggendo i fascisti in tutto il mondo. L’America è la più grande fabbrica di comunisti del mondo, signor Colby.
Questo è un insulto dettato da prevenzioni ideologiche e io lo respingo.
Respinga, respinga. Però mi dica: secondo le informazioni che lei ha sempre avuto come capo della CIA, vede nessuna differenza tra il PC di Cunhal e i PC di Carrillo, Marchais, Berlinguer?
Il PCI è lo stesso che era ai tempi di Gramsci e di Togliatti, cioè un partito che cerca di lanciare un ponte tra il sistema sovietico e quello occidentale tentando di vivere un po’ nell’uno e un po’ nell’altro campo. C’è un’ambivalenza nel PCI. E i comunisti francesi, come i comunisti spagnoli, non fanno che imitarlo. Il PCI ha sempre preteso di essere molto rivoluzionario per tenere il passo totalitario, e allo stesso tempo ha sempre preteso di essere molto italiano per riempire il vuoto col resto dell’Italia. Lei in realtà vuol chiedermi se io credo o no a certi uomini del PCI quando dicono d’essere per il pluralismo eccetera. Le rispondo: non conosco quegli individui ma la questione non è avere fiducia o no negli individui. La questione sta nei loro imperativi politici. Attualmente, con un’Europa occidentale piuttosto unita e forte e protetta dagli interessi americani, l’imperativo politico per i comunisti è far parte dell’Europa occidentale. Domani, se l’Europa occidentale ha problemi economici o se c’è un cambio di leadership nell’Unione Sovietica, il loro imperativo politico può cambiare. Ed essi possono diventare più autoritari e più leali ai sovietici.
Recentemente il PCI e il PCE e il PCF hanno attaccato con una certa chiarezza l’Unione Sovietica.
Oh, questo è facile. Lo fecero anche in Cecoslovacchia nel 1968. In compenso hanno appoggiato l’URSS in molte occasioni e continuano a mantenere ottimi rapporti con Mosca. La loro politica dice che non dovrebbe esserci né la NATO né il Patto di Varsavia. La cosa più semplice, intanto, è eliminare la NATO. Liberarsi del Patto di Varsavia è duro. Loro mirano a ridurre il contributo dell’Italia alla NATO dicendo, bè, del Patto di Varsavia ci occuperemo dopo. Ma quale sarebbe il grado di collaborazione tra militari italiani e militari americani, governo italiano e governo americano, il giorno in cui aveste un primo ministro comunista? Crede davvero che ci sarebbe una collaborazione nell’interesse della NATO? Io credo che sorgerebbero molte difficoltà.
Forse. Ma insisto nella domanda cui lei non vuole rispondere: cosa ci farebbero gli americani se i comunisti andassero al governo in Italia?
Non lo so. Questo riguarda la politica degli Stati Uniti. Non lo so.
Sì che lo sa, signor Colby. Un altro Cile?
Non necessariamente. Non so... È una domanda ipotetica, non posso rispondervi. Dipende da troppi elementi. Potrebbe non succedere nulla, potrebbe succedere qualcosa, potrebbe succedere qualche sbaglio.
Uno sbaglio come il Cile? Coraggio, signor Colby. Crede che sarebbe legittimo per gli Stati Uniti intervenire in Italia con un Pinochet se i comunisti andassero al governo?
Non credo di poter rispondere a questa domanda. E il vostro Pinochet non è in America. È in Italia.
Lo so, ma ha bisogno di voi. Senza di voi non combina nulla. Signor Colby, io cerco di farle ammettere che l’Italia è uno Stato indipendente, non una repubblica delle banane, non una vostra colonia! Non potete far sempre i poliziotti del mondo. Chiaro?
Chiaro ma sbagliato. [In italiano nel testo.] Lasci che spieghi. Dopo la prima guerra mondiale l’America visse un fenomeno di rigetto. Dicemmo che la guerra era stata sbagliata, mal combattuta, e avemmo un periodo di innocenza. Riducemmo il nostro esercito a qualcosa come 150.000 uomini, volemmo una diplomazia aperta, e il segretario di Stato dissolse l’Intelligence sostenendo che i gentiluomini non leggono la posta altrui. Ci accingemmo insomma a vivere in un mondo di gentiluomini e annunciammo di non volerci coinvolgere più negli affari stranieri. Sorsero problemi in Europa e non intervenimmo. Sorsero problemi in Manciuria e non intervenimmo. Venne la guerra in Spagna e ci dichiarammo neutrali. Passammo perfino una legge sulla nostra neutralità. Ma non funzionò. E ci caddero addosso i problemi economici, e vennero leader autoritari che credettero di poter dominare i loro vicini, e scoppiò la seconda guerra mondiale e dovemmo entrarci. Dopo la seconda guerra mondiale ricominciammo daccapo: nel 1945 dissolvemmo l’esercito, e dissolvemmo l’OSS, e dicemmo Pace. Però ebbe inizio la guerra fredda. Diventò subito chiaro che Stalin non avrebbe seguito la strada che avevamo tracciata. Il comunismo russo divenne una minaccia in Grecia, in Turchia, in Iran. E così imparammo la lezione. Rimettemmo insieme il nostro servizio segreto, lo chiamammo CIA, contenemmo l’espansione autoritaria dell’Unione Sovietica con la NATO e il Piano Marshall e la CIA. Liberali e conservatori insieme: entrambi convinti, stavolta, di dover aiutare all’estero. Io ero uno di quei liberali. Ero stato addirittura radicale da ragazzo e...
Perbacco. Come ha fatto a cambiare così?
Clemenceau dice che chi non è radicale da giovane non ha cuore, e chi non è conservatore da vecchio non ha testa. Ma mi lasci concludere. La NATO funzionò. Il contenimento dell’espansionismo sovietico funzionò. Il piano di sovversione dei partiti comunisti fu neutralizzato. E questo non fu gettarci dalla parte dei fascisti, non fu la destra contro la sinistra. Fu la ricerca di una soluzione democratica. E fu la politica americana che la CIA abbracciò e da allora seguì: decidendo che avremmo combattuto per la libertà a ogni costo. Certo... bè, sì: nel corso di questa battaglia a ogni costo capitarono e capitano situazioni con leader locali piuttosto autoritari. O più autoritari di quanto la gente vorrebbe.
Da Franco a Caetano, da Diem a Thieu, da Papadopulos a Pinochet. Senza contare tutti i dittatori fascisti dell’America Latina. I torturatori brasiliani ad esempio. E così, in nome della libertà, diventaste i sostenitori di tutti coloro che dall’altra parte uccidono la libertà.
Come nella seconda guerra mondiale quando, contro la maggiore minaccia di Hitler, sostenemmo la Russia di Stalin. Sì, proprio allo stesso modo in cui allora lavorammo con Stalin ora capita che lavoriamo con... insomma, talvolta dobbiamo lavorare con qualcun altro. La espansione comunista, dagli anni Cinquanta in poi, prese il posto della minaccia nazista, e noi... Bè, sostenendo qualche leader autoritario contro la minaccia comunista si lascia sempre aperta l’opzione che il paese di quel leader autoritario diventi democratico in futuro. Coi comunisti, invece, il futuro non offre speranze. Così non vedo motivo di scandalo in certe nostre alleanze. Alle alleanze si arriva sempre per fronteggiare una minaccia più grossa. E, per noi americani, la minaccia più grossa resta il comunismo. Il mio governo riconosce Pinochet come il governo legittimo del Cile, è vero. Ma io non accetto che duecento milioni di russi vivano sotto il comunismo sovietico? E poi Pinochet non vuole conquistare il mondo. Chi si preoccupa di Pinochet?
Glielo dico io, Mr. Colby. Anzitutto se ne preoccupano i cileni che da oltre due anni vengono imprigionati e perseguitati e torturati e uccisi da lui. Poi se ne preoccupano quelli che alla libertà ci credono davvero e non a parole come lei. Infine se ne preoccupano i paesi che, come il mio, temono di diventare un secondo Cile. Grazie a voi americani.
Lei sbaglia proprio a scegliere il Cile come esempio. Se legge attentamente il rapporto senatoriale sul Cile, pubblicato malgrado le mie obiezioni, vede che dal 1964 in poi noi ci limitammo ad aiutare il centro democratico contro un Allende che si diceva associato con Castro e coi comunisti. La CIA non ebbe parte nel rovesciamento di Allende nel 1973. Il comitato senatoriale non trovò una prova della nostra collaborazione, dopo il 1970.
Davvero? E il finanziamento degli scioperi? E gli interventi della ITT?
Bè, un po’ di denaro fu dato: un contributo infinitesimale. Lo demmo attraverso altra gente, cioè a un gruppo che poi lo passò a un altro gruppo. Roba da niente. Legga i miei dinieghi dinanzi al senatore Church quando dico: «Con una eccezione che durò sei settimane nel 1970».
Io direi piuttosto che incominciò nel 1970: l’11 novembre, quando Nixon e Kissinger chiamarono Richard Helms, allora capo della CIA, e gli ordinarono di rovesciare Allende organizzando un golpe.
Durò solo sei settimane... E non riuscimmo... Il resto del nostro programma in Cile fu di sostegno alle forze del centro democratico contro la minaccia della sinistra. Non rientrava nella nostra politica rovesciare Allende nel 1973. Noi aspettavamo le elezioni del 1976 sperando che le forze democratiche vincessero nel 1976. Certo non aiutammo Allende, però siamo innocenti del golpe del 1973. Quel golpe fu causato dallo stesso Allende che stava distruggendo la società e l’economia cilena, che si comportava in modo antidemocratico, che sopprimeva la stampa di opposizione, che agiva in modo anticostituzionale come dissero sia il Parlamento che la Corte suprema che...
Ma che diavolo sta inventando, signor Colby?!? Ma come si permette di falsificare la storia così? Ma se la stampa di opposizione tormentò Allende fino all’ultimo momento!
Che Allende fosse democratico è una sua opinione personale. Lo dichiarava lui stesso di voler sopprimere l’opposizione, la borghesia. Sopprimere! Era un estremista, il suo Allende, un oppressore. Io lo so. Io ho buone informazioni.
Se tutte le sue informazioni assomigliano a questa, signor Colby, capisco perché la CIA si rende così spesso ridicola. Ma io voglio sapere questo da lei che si batte in nome della democrazia: avendo vinto democraticamente le elezioni, Allende aveva o no il diritto di governare il suo paese?
Bè, ecco...
Non esiti, signor Colby. Mi risponda.
Mussolini non vinse le elezioni? Hitler non divenne cancelliere della Germania grazie alle elezioni?
Lei non può essere così in malafede, signor Colby. Lei non può paragonare Allende con Hitler e Mussolini. Questo è fanatismo.
Io non sono fanatico. Io credo in una democrazia liberale occidentale.
In che modo? Ammazzando? Mi racconti dell’assassinio del generale Schneider, il capo di Stato maggiore di Allende.
Noi della CIA avemmo pochissimo a che fare con l’assassinio del generale Schneider. Pochissimo... È scritto nel rapporto senatoriale sul Cile: apparentemente il gruppo che tentò di rapirlo non era lo stesso che riceveva le armi dalla CIA. È la solita storia di quelle sei settimane. Oh, il suo modo di vedere la CIA è davvero paranoico. Lei si comporta come la stampa americana quando si eccita per la Pistola Nera, quella con le frecce, di cui parla il senatore Church. Un’arma che non fu mai usata, mai. Ah, siete voi della stampa che gettate il fango sulla CIA, che falsate, distorcete. Naturalmente, nel corso delle nostre attività all’estero, qualcuno è rimasto ucciso... Naturalmente... Nostri agenti e anche persone dall’altra parte della barricata... Ma niente assassinii. Conosco chi lavora per me e posso assicurarle che si tratta di buoni americani, di veri patrioti che lottano per proteggere il proprio paese... per il diritto di difendere la libertà...
Perché quel diritto non ve lo prendete con Pinochet?
Ogni nazione deve fare le sue scelte e poi queste sono faccende che riguardano il mio governo. Lei non lo capisce perché parte da un atteggiamento ideologico. Io non sono ideologico, sono nazionalista e pragmatista. E da buon pragmatista le dico che tocca agli Stati Uniti decidere dove vogliono aiutare e dove no. Era nostro diritto sostenere gli oppositori di Allende, così come è nostro diritto aiutare in Europa chi si oppone all’avanzata comunista. La CIA fa questo da trent’anni ripeto e lo fa bene. E l’Italia è l’esempio migliore, ripeto.
Mi dica, signor Colby: in nome di quel pragmatismo è mai capitato che la CIA suggerisse al suo governo un dialogo coi comunisti italiani ed europei?
Un dialogo? Non vedo come possa esserci un dialogo tra noi e loro. E poi le loro posizioni sono note: conosciamo la loro politica, i loro programmi. La buona fede di un individuo non ci interessa: un uomo in buona fede può sempre essere rimpiazzato da un altro. Quanto alle loro promesse... Anche Gromiko faceva promesse. Anche Molotov. Anche Vishinski. Promesse solenni. Dunque fu la CIA a raccomandare che non fosse concesso il visto a Segre e a Napolitano, quando furono invitati dal Council on Foreign Affairs.
Non mi sembra utile indicare ai comunisti che siamo pronti per il loro compromesso storico. Peggio ancora, per un compromesso storico tra il PCI e gli Stati Uniti. No, non accetto quella roba. Non accetto gente che, una volta al potere, ridurrebbe la sua amicizia per gli Stati Uniti. Non ho simpatia alcuna per gente di quel tipo.
E il viaggio di Almirante a Washington?
Questa è una domanda per il Dipartimento di Stato, non per me. Io non lo conosco questo Almirante. So soltanto che è un fascista al di fuori del centro democratico. E i fascisti non mi piacciono. La CIA non c’entra proprio col suo viaggio in America. Io non ne sapevo nulla.
Ma come?! Con tutte le spie che avete nei partiti italiani vi vien a mancare un’informazione così? Perché ne avete di spie, no? Anche nel PCI.
Naturalmente abbiamo tutto l’interesse di conoscere i loro piani futuri e segreti. Naturalmente vogliamo sapere in che direzione vanno e se sono sinceri quando dicono di voler restare nella NATO. Anche il KGB ha i suoi agenti per questo. Però otteniamo le nostre informazioni anche in molti altri modi: leggendole, ad esempio. Prenda questa razionalizzazione del compromesso storico. A leggerla bene si capisce che, al di sotto dei discorsi tattici, si nasconde una dichiarazione strategica. Sicché, in due anni, tutti quei discorsi tattici possono essere sostituiti da una visione stalinista della storia. Non dimentichi che Stalin poté fare un accordo con Hitler e poi romperlo. Io credo nel leggere ciò che la gente dice di voler fare. Forse lo farà. Se avessimo letto con più attenzione Mein Kampf di Hitler...
Signor Colby, lei mi sta presentando la CIA come un’associazione di boy scouts che passano la maggior parte del loro tempo in biblioteca. Per cominciare, voi siete delle spie...
Un momento. Sì, nei tempi andati l’Intelligence era solo spionaggio. Mata Hari e via dicendo. Oggi invece l’Intelligence è un processo intellettuale che consiste principalmente nell’accumulare informazioni le quali vengono centralizzate e studiate da specialisti. Informazioni ottenute dalla radio, dalla stampa, dai, libri, dai discorsi. Per questo ci chiamiamo Central Intelligence Agency. Oltre a questo c’è l’elettronica, ci sono i computers, c’è la tecnologia insomma. E negli ultimi quindici anni la tecnologia ha talmente cambiato l’Intelligence che non c’è più bisogno di Mata Hari che ruba il segreto per darlo al generale. Voglio dire: prima ci chiedevamo quanti missili avessero i sovietici. Ora li contiamo, sappiamo quanto sono grandi, quanto vanno lontano... Naturalmente il lavoro clandestino c’è ancora, soprattutto nei paesi chiusi. Ma la vecchia Intelligence come segreto totale è finita. E la parola spia non rende l’idea, proprio perché l’Intelligence non significa soltanto spionaggio. Significa analisi, tecnologia. Una faccenda molto più grossa, molto più affascinante del lavoro alla Mata Hari. Ed è questo che rende la CIA il servizio segreto migliore del mondo.
Meglio del KGB?
Oh, il KGB è un’altra cosa. La maggior parte del lavoro del KGB si svolge nell’Unione Sovietica dove esso è l’FBI, la CIA, la polizia di Stato, i carabinieri, tutto. Naturalmente, c’è poi il resto. Qui negli Stati Uniti, al tempo delle spie atomiche, fecero alcune buone operazioni. Davvero eccellenti. Come quando reclutarono una ragazza della sezione controspionaggio del nostro Dipartimento di Giustizia, e lei rivelò tutto ciò che sapevamo sulle loro spie. Ottima operazione, ottima. E quando sistemarono un trasmettitore nel tacco della scarpa di un nostro diplomatico? Anche quello fu un colpo eccellente. Eccellente. Sa, questa è gente che lavora per il suo governo, e il fatto che io non sia d’accordo con la loro filosofia non significa che non li ritenga capaci di fare un buon lavoro. Naturalmente, bisogna distinguere tra la loro abilità e il loro scopo. Se la prima può essere ottima, il secondo può essere pessimo. Comunque le dirò che, attualmente, anche il KGB sta copiando i sistemi della CIA. Anche i russi incominciano a vedere l’Intelligence come un processo intellettuale, uno studio sofisticato, una analisi.
Signor Colby, la CIA è anche qualcosa di peggio. È una forza politica segreta che organizza complotti e colpi di Stato. È uno strumento che punisce chiunque sia contro gli interessi o la politica degli Stati Uniti. È...
Ciò a cui lei si riferisce riguarda solo il 5 per cento del nostro bilancio. Solo il cinque per cento va alle nostre attività politiche e paramilitari. Attività segrete, ovvio, e necessarie nel mondo in cui viviamo. Siamo realisti: un po’ di aiuto ad alcuni paesi, ad alcuni amici, può evitare lo svilupparsi di una crisi seria e magari la terza guerra mondiale. Negli anni Cinquanta quelle attività costituivano il trenta per cento del nostro bilancio. Negli anni Ottanta, se il mondo continua a svilupparsi in direzione totalitaria come sembra, possiamo tornare al trenta per cento. O anche di più. Ma, ora come ora, è solo il 5 per cento. E su quello avete sollevato questo illegittimo polverone. Illegittimo, sì. Non è meglio difenderci finanziando qualcuno anziché facendo la guerra?
Sì, ma qui non si tratta di finanziare e basta. Si tratta, ad esempio, di assassinare i leader stranieri. Parlo dei vostri veleni e delle vostre fiale batteriologiche per ammazzare Castro, Lumumba...
Nel 1973, prima che esplodesse questa faccenda, io detti ordini precisi contro i progetti di assassinio. Ho respinto numerose proposte di assassinio in numerose occasioni durante la mia carriera e soprattutto quando sono diventato capo della CIA. Ho sempre detto che l’assassinio era una cosa sbagliata. Però molti le risponderanno che se Hitler fosse stato assassinato nel 1938, oggi il mondo andrebbe meglio.
E dài con Hitler! Castro non è Hitler.
Castro permise all’Unione Sovietica di installare missili nucleari a Cuba, così mettendo sotto la minaccia nucleare tutte le città americane a sud-est del Mississippi.
E ciò la autorizzava ad ammazzare Castro?
Le garantisco che nell’Italia del Rinascimento molta gente discuteva, dentro e fuori la Chiesa, sui pro e i contro del tirannicidio. Anzi la discussione era incominciata alcuni secoli prima, coi greci e i romani. Come morì Giulio Cesare? Come morivano i principi dei vari Stati italiani? L’assassinio era un’arma politica e, come tale, non è stato davvero inventato in America ieri mattina. Per favore, non venga a farmi del moralismo. Non si alzi in piedi, come italiana, per darmi lezioni di morale su quest’argomento.
Lezioni di morale forse no. Sebbene, personalmente e nel 1976, io ne abbia tutto il diritto. Lezioni di storia, sì. Le ricordo infatti che Cesare fu ucciso da un romano e non da un americano. E Pericle innalzava monumenti ai greci che uccidevano un tiranno greco, non agli americani che ammazzavano i cubani.
Però Vercingetorige fu ammazzato da Cesare, e Attilio Regolo dai cartaginesi, e una quantità di capi stranieri da Lucrezia Borgia. Io non cerco giustificazioni. Io dico che s’è sempre fatto e che è difficile per un paese dare lezioni morali a un altro paese.
Siete voi che dite d’essere più morali degli altri. Siete voi che vi presentate come l’arcangelo Gabriele. Democrazia, libertà, e via dicendo. Ora si ripara sotto le gonne di Lucrezia Borgia?
Forse la nostra morale non è perfetta ma è meglio di quella degli altri. In tutto il mondo la politica americana è guardata come un faro di libertà e le vostre calunnie sulla CIA hanno il solo scopo di ingiuriare l’America. Ho lavorato ventott’anni alla CIA e sono in grado di affermare che in ventott’anni, sono state ben poche le cose che non avremmo dovuto fare. Per esempio, aprire la posta. Sì, ci fu un periodo degli anni Cinquanta in cui aprivamo la posta in partenza e in arrivo dall’Unione Sovietica. V’era un motivo: l’America pullulava di spie sovietiche. Tuttavia non avremmo dovuto e...
Ma chi parla di posta! Qui si parla di assassinii, signor Colby!
La CIA non ha mai assassinato nessuno. Neanche Diem. Accusarci di assassinio è ingiusto. Vi furono casi in cui andammo e tentammo, è vero. Ma non riuscimmo mai. Non realizzammo mai i nostri piani.
Anche se lei dicesse la verità, signor Colby, non le sembra vergognoso che la CIA facesse progetti per ammazzare gli avversari come faceva Al Capone?
La gente fa queste cose in tutto il mondo, che sia saggio o no. Progetti di uccidere capi di Stato esistono in tutto il mondo. Io lo so. Lo so... E confermo che sono sempre stato contro l’idea di ammazzare in quel modo. Ne ho fatto una regola, nel 1973. Ho personalmente licenziato alcuni direttori della CIA perché mi proponevano cose simili. Gli ho detto: «Lei non lo farà!». Chiarito questo, le cito un motto di Jefferson: «L’albero della libertà deve essere innaffiato ogni vent’anni dal sangue dei tiranni».
Insomma, quando-ci-va-ci-vuole. È religioso, lei, Mr. Colby?
Sì, molto. Sono un cattolico osservante e rigoroso.
Di quelli che vanno alla messa ogni domenica mattina?
Sì, certo. Anche stamani sono andato.
Di quelli che credono al Paradiso e all’Inferno?
Sì, certo. Io credo in tutto quello che la Chiesa dice. Perché?
Così. Mi racconti della mafia. Dell’uso che la CIA fa della mafia.
Un caso! Un caso solo! Nel 1960! Per Castro! Quando Castro prese il potere a Cuba considerammo l’opportunità di lavorare con persone che a Cuba avevano ancora certi amici. Persone della mafia, voglio dire. Amici della mafia. E li contattammo e, secondo il nostro progetto, essi dovevano tentare di uccidere Castro. Ma fu molto... Bè, non funzionò. Allen Dulles e McCone erano direttori della CIA a quel tempo.
E McCone disse di non saperne nulla.
Bobby Kennedy però lo sapeva. Quindi lo sapeva anche John, il presidente. Sa cosa penso? Chi rimane più screditato da queste rivelazioni non è nemmeno la CIA, sono i presidenti degli Stati Uniti.
Le rivelazioni dimostrano che la CIA non è mai stata un elefante selvaggio, uno Stato dentro lo Stato, un governo al di fuori del governo, ma ha sempre lavorato come parte della politica americana. E ora che il paese sta attraversando un processo di revisionismo, la CIA è un po’ il capro espiatorio di quel revisionismo... La prova che i presidenti volessero certe azioni specifiche non è molto evidente, in alcuni casi non è neppure chiaro se il presidente lo sapesse o no. Ma i fatti indicano, semplicemente, che la CIA operava entro i limiti di una politica che sembrava autorizzarla a fare certe cose.
Infatti da Eisenhower a Nixon non se ne salva uno. E sotto Johnson quale birbanteria combinaste? Ah, sì: il golpe di Papadopulos.
La CIA non appoggiò, ripeto non appoggiò, il golpe dei colonnelli in Grecia. I colonnelli... certo non li respingemmo. Ma nemmeno li sostenemmo. Diciamo insomma che lavorammo con loro. Dopo che Papadopulos ebbe assunto il potere, tenemmo una liaison con lui per lo scambio di informazioni. E anche con Joannidis la CIA aveva la stessa liaison per lo stesso scopo. Il resto è mito. E avere buoni rapporti con qualche leader autoritario non significa mica sostenerlo. Ah, lei non vuol proprio accettare l’immagine di una CIA diversa da quella che la sua fantasia ha costruito. Lei mi ricorda la storia dei ciechi e dell’elefante. Sa quale? Arriva un elefante e i quattro ciechi gli si avvicinano. Uno gli tocca la proboscide e dice: «È una lancia». Uno gli tocca una zampa e dice: «È un albero». Uno gli tocca la coda e dice: «È un serpente». Uno gli tocca un fianco e dice: «È un muro». E nessuno di loro si accorge che, nell’insieme, è un elefante. Certo una parte della colpa è nostra. L’Intelligence dovrebbe essere segreto totale. Quando Schlesinger divenne direttore della CIA, disse: «Perché sull’autostrada non c’è un cartello che indica l’edificio della CIA?». Gli rispondemmo: «C’era ma quando Kennedy divenne presidente ci ordinò di toglierlo giudicando ridicolo che un servizio segreto fosse indicato con un cartello sull’autostrada». E Schlesinger rispose: «Rimettetelo». Così lo rimettemmo e... Ma la democrazia non dipende forse dal segreto? Il voto non è forse segreto?
Eppure lei è proprio quello che ha infranto il segreto. Si pente mai di aver rivelato tante cose ai comitati di investigazione? Poteva rifiutarsi?
Certo non mi pento di aver detto la verità. Non ho mai avuto dubbi o esitazioni sul fatto di dover rispondere alle loro domande con la verità. Quanto a rifiutarmi di testimoniare, non avrei potuto neanche se avessi voluto. La legge mi ingiungeva di parlare. Non avevo scelta. Non mi aspettavo nemmeno che le mie rivelazioni restassero segrete. Però non credevo che certi casi venissero così sensazionalizzati. Il fatto è che non è comodo vivere in una società aperta come quella americana. Consideri il caso di Richard Welsh, l’agente della CIA ammazzato ad Atene. Sa come sono andate le cose? Un anno fa un funzionario chiamato John March scrisse un articolo, qui a Washington, sostenendo di sapere come si fa a identificare nelle varie ambasciate chi lavora per la CIA. E lo dimostrò. Avremmo potuto impedirlo? No. Avremmo potuto impedire che i vari nomi fossero pubblicati? No. La nostra legislazione è debole in quel senso. Perché il rapporto Pike non fosse pubblicato è stato necessario l’intervento del Parlamento. E perché il Parlamento giungesse a tanto è stato necessario che Welsh morisse. Una perdita enorme per noi della CIA. Enorme. Era un agente estremamente abile.
Era stato anche in Cile?
Non so, era stato in vari paesi dell’America Latina.
Parliamo un po’ del rapporto Pike. Anche nel rapporto Church la CIA fa una pessima figura. Ma in quello di Pike, siamo sinceri, passa proprio da cretina. Non si sa se ridere o piangere, ecco.
Il rapporto Pike è assolutamente parziale, totalmente prevenuto, e scritto con l’intenzione di screditare la CIA. Il rapporto Church, cioè quello sugli assassinii e sul Cile, è abbastanza giusto. Quello Pike è... è... Non c’è nemmeno tutto quello che ho detto! Lui afferma che lo spionaggio della CIA è così cattivo che, se l’America fosse attaccata, non lo saprebbe in tempo. È una dichiarazione falsa. E insensata. E irresponsabile. Tutto ciò che Pike afferma in quel senso non viene nemmeno dalle sue investigazioni: viene dalle nostre stesse critiche. Lui non ha fatto che prendere le nostre carte e copiarle. Ma non le carte che parlano dei nostri successi: quelle che parlano dei nostri insuccessi! Prenda l’esempio del Medio Oriente. Nella primavera del 1973 noi dicemmo al nostro governo che, ammeno di un intervento politico, con probabilità ci sarebbe stata una guerra nel Medio Oriente. E demmo tutte le informazioni a sostegno di questa tesi. La sera del 5 ottobre valutammo le cose in altro modo: «Alcuni segni indicano che la guerra non ci sarà. In complesso riteniamo dunque che la guerra non ci sarà». D’accordo, questo secondo dispaccio fu un errore. Però, mesi prima, avevamo detto che forse la guerra ci sarebbe stata, e alla CIA non leggiamo mica il futuro dentro una palla di cristallo, no? Non lo sappiamo mica al cento per cento tutto quello che accadrà domani, no?
Signor Colby, per una Intelligence che si vanta d’essere la migliore del mondo, l’errore mi sembra grossino. Quasi grosso come quello che commetteste in Cecoslovacchia quando per due settimane «perdeste» l’esercito sovietico e fu l’ambasciatore sovietico a dire a Johnson cosa stava accadendo. Quanto al Portogallo... Non sapevate nulla neanche sul Portogallo.
Sapevamo qualcosa, checché ne dica il signor Pike. Sapevamo che c’erano dissensi nell’esercito, che c’era disagio. E lo dicemmo al nostro governo. Il Portogallo, guardi... Come per la guerra tra gli arabi e Israele, uno può conoscere il quadro nel suo insieme e poi fare piccoli errori. Il Portogallo non lo seguivamo nei dettagli perché a quel tempo non era importante.
Però, dopo, lo avete seguito bene. No?
Eh, sì. Certo. Ora sappiamo tutto quel che succede, eccome. Uno non dà molta importanza a ciò che succede nell’Antartide oggi. Ma, se nell’Antartide scoppia una guerra, le cose cambiano.
Voglio dire, tutte quelle sommosse nel nord del Portogallo quando i cattolici si ribellarono a Cunhal. Uno zampino di CIA... eh?
La gente come lei vede la CIA sotto ogni divano. La vede perfino nei concorsi per l’elezione del più bel cane dell’anno. Ma quello, ripeto, riguarda solo il cinque per cento delle attività della CIA. Non abbiamo il tempo di trovarci in ogni villaggio del mondo. Il Portogallo... cosa vuole che le dica del Portogallo? È ragionevole dedurre che, dopo, abbiamo lavorato molto duramente su ciò che stava succedendo.
Un aiutino qua, un aiutino là...
No comment. Né sull’Italia, né sul Portogallo, né su alcun paese specifico.
Suvvia, signor Colby. Non vorrà farci credere che l’Italia è il solo paese dove la CIA ha speso miliardi. Perché non mi parla, ad esempio, della Germania?
Certi paragoni non sono possibili. Ogni paese è un caso a parte. Noi ci preoccupiamo e ci siamo sempre preoccupati di tutti i paesi europei. L’Europa è molto importante per gli Stati Uniti. Tutta. E non direi proprio che l’Italia sia il paese dove abbiamo dovuto lavorare di più. Quanto alla Germania... ha abbastanza soldi per conto suo. Io posso dirle soltanto che il posto dove noi della CIA abbiamo avuto maggiore successo nel mondo è, indiscutibilmente, l’Europa occidentale. Un programma davvero riuscito.
Signor Colby, chi ha voluto che lei lasciasse la direzione della CIA? Kissinger?
No. Kissinger è sempre stato un grande sostenitore dell’Intelligence. Tra me e lui vi sono stati momenti di accordo e di disaccordo, però non siamo affatto nemici. Di Kissinger non posso che dire un gran bene: ritengo che sia stato un eccellente segretario di Stato e che meriti un Premio Nobel per la Pace. Un altro. Sì. Per il Medio Oriente. Io sono fuori della CIA perché il presidente mi fece sapere che intendeva offrirmi un altro lavoro e... Il presidente può avere molte ragioni per cambiare il capo della CIA. È un suo privilegio e... Mi offrì un altro lavoro ma io lo rifiutai. Gli dissi che avrei servito meglio la CIA scrivendo un libro su ciò che la CIA è veramente e... Del resto, quando ebbero inizio le investigazioni senatoriali, io fui il primo a dire che al mio posto ci sarebbe voluto una faccia nuova. Le assicuro che non v’è in me nessuna amarezza.
Lo vedo. Niente scuote il suo gelo, la sua imperturbabilità.
Non sono un emotivo, lo ammetto. Però alcune cose mi feriscono. Come quando fui nominato capo della CIA e un gruppo innominato riempì Washington di manifesti che mi definivano assassino. La cosa mi ferì. Molto. Proprio come quando lei dice che la CIA è una associazione di assassini. Per settimane i miei figli dovettero vivere con quei manifesti e...
Capita mai che i suoi figli le diano di «sporco reazionario»?
Reazionario... no. Conservatore semmai. Ci sono discussioni in famiglia. I miei figli erano contro la guerra in Vietnam, si figuri e... Non smentisco d’essere un conservatore. Votai per Nixon. E ancora oggi ritengo che, in politica internazionale, egli abbia fatto un lavoro splendido. Pensi alla Cina, a...
... al Cile, a Cipro, al finanziamento dei democristiani e dei socialdemocratici in Italia. Signor Colby, sono esausta. Solo quando intervistai Cunhal soffrii quanto ho sofferto con lei.
Mi dica, mi dica: che tipo è Cunhal?
Gliel’ho detto: in fondo, un tipo come lei.
Cosa?!?
Sì, un prete come lei. Oh, non capirà mai, signor Colby, quanto vi assomigliate voi due. Se fosse nato dall’altra parte della barricata, lei sarebbe uno stalinista perfetto.
Respingo con sdegno questa affermazione. Però, forse... No, no. E non sono un prete. Tutt’al più sono un puritano. Nessun’altra domanda?
Una sola. Posso leggere il rapporto che la CIA ha su di me?
Secondo la legge americana, lei può scrivere una lettera alla CIA e chiedere di leggere qualsiasi cosa abbiamo su di lei. Le costerà qualcosa, spese di francobolli eccetera, ma le faranno vedere tutto. Ammenoché non esista qualche ragione per tenere segreto il rapporto. Antropov, il capo del KGB, può fare lo stesso. Non è ridicolo?
No, è sconcertante. Ma tutto ciò che mi ha detto era sconcertante,
signor Colby. E molto, molto triste.
Una sola. Posso leggere il rapporto che la CIA ha su di me?
Secondo la legge americana, lei può scrivere una lettera alla CIA e chiedere di leggere qualsiasi cosa abbiamo su di lei. Le costerà qualcosa, spese di francobolli eccetera, ma le faranno vedere tutto. Ammenoché non esista qualche ragione per tenere segreto il rapporto. Antropov, il capo del KGB, può fare lo stesso. Non è ridicolo?
No, è sconcertante. Ma tutto ciò che mi ha detto era sconcertante,
signor Colby. E molto, molto triste.
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