venerdì 19 febbraio 2010

Seggio Komunale - All'Apice Dell'Istrice (2009)

Gran bel disco quello dei Seggio Komunale, la band capitanata da Iuri Melis (voce e chitarra) e formata da Massimo Mancini (basso), Maurizio Vizilio (batteria) e Daniele Cau (Piano e tastiere).
"All'Apice dell'Istrice" è un lavoro compatto, denso, suonato bruscamente alla grande e mixato lo-fi altrettanto bene (Davide Dessi ai cursori negli studi di Andrea Cutri). Dopo anni d'imprese soniche picaresche, il cerchio si chiude: tutte le influenze (Pulp, Billy Bragg, Oasis, Manic Street Preachers, Stone Roses) depositate in queste scorribande si amalgamano in una fortissima autonomia chiamata Seggio Komunal3. Il marchio di fabbrica è il continuo cambio di scena musicale (alla XTC per intenderci) all'interno dello stesso brano, la melodia si spezza e si ribalta per poi ripartire verso casa con il cuore contento e ossigenato. I testi ispiratissimi di Iuri sono i frammenti di un suo discorso amoroso che con sarcasmo, ma anche con liquida dolcezza, non fanno prigionieri e spazzano via la nostalgia-melassa da baraccone italpop. Due brani in particolare colpiscono per profondità e maturità: lo ska di "Folk-Punk" e la ballata rock "Plasticargentata" che ricorda meravigliosamente un disco affine a questo dei Seggio, "Venuti dalle Madonie a cercar Carbone" dei sottovalutatissimi Denovo. Insomma gran disco a volerlo guardare da "su giù destr sinistr".



Voto: 7
Luca Tanchis

martedì 9 febbraio 2010

Intervista a François Ozon, Magazine "Paris à Nous", 2010


Passando dalla commedia satirica al thriller o dal giallo musicale in costume al fantastico, François Ozon dà il meglio di sé nel drammatico e lo conferma ancora una volta con "Le Refuge". Filmando Isabelle Carré per davvero in stato interessante nel ruolo di una ex "fattona" afflitta e sconsolata, Ozon osa e approccia la gravidanza con l’originalità ed il talento che lo caratterizzano.

Da dove ha preso l’idea per questo film?

Dal fatto che avevo voglia da moltissimo tempo di parlare di gravidanza e di filmare il corpo di una donna incinta, corpo che trovo molto bello, erotico e sensuale. Avevo poi voglia da altrettanto molto tempo di lavorare con Isabelle Carré, sicché quando ho saputo che era incinta mi sono proposto di scrivere qualcosa a proposito della sua maternità, qualcosa che non avesse niente a che vedere con quello che lei stava vivendo, tutto ciò filmando il suo corpo.

Era già stato fatto qualcosa di simile?

Alcune attrici hanno girato incinte ma di due o tre mesi e spesso la loro condizione veniva nascosta. Qui avevo davvero voglia di mostrare la realtà di una gravidanza.


Isabelle Carré ha accettato il ruolo facilmente?


Credo che la mia fortuna sia stata che questo per lei è il primo figlio e quindi non sapeva di cosa poteva trattarsi.. credo che se avesse saputo non avrebbe mai accettato, perché è davvero molto faticoso girare al settimo mese. Tra l’altro molti ciak devono essere ripetuti ed anche girare una scena semplice come alzarsi da una sedia una volta va bene ma se lo fate otto volte di fila vi stancate rapidamente. Abbiamo cercato di fare il possibile affinché tutto fosse comodo per lei. Ci siamo adattati al suo stato.


Isabelle dice che aveva paura di ciò che avrebbe pensato di lei suo figlio nel vedere il film.. 


Sì, aveva paura che si sentisse usato, ma non me ne ha parlato esplicitamente. Ad un certo punto delle riprese abbiamo incontrato Isabelle Huppert a Saint-Jean-de-Luz e lei le ha detto: "Che fortuna che hai! Ho sempre sognato di girare incinta, è fantastico!". Questo le ha un po’ addolcito i sensi di colpa..


E lei? E’ tentato dalla paternità? 

Diciamo che fare dei film è già abbastanza pesante, quindi avere dei figli non è una cosa che per il momento mi ecciti veramente.


Aveva degli scrupoli a far morire Melvil Poupaud dopo appena dieci minuti di film dopo averlo già "ucciso" in "Le temps qui reste"?


Non l’ho ucciso! L’ho fatto morire, non è la stessa cosa! (ride). E’ lui che mi ha detto: "In tutti i tuoi film mi fai crepare, quando resterò in vita?". Ma purtroppo avevo bisogno di un attore conosciuto affinché il personaggio "infestasse" il resto del film.


La mancanza è uno dei temi forti e ricorrenti della sua filmografia, come in "Sous le sable" o "Le temps qui reste". Come lo spiega?

Non lo spiego obbligatoriamente, lo sento. Penso che sia sempre interessante mostrare l’assenza e come dei personaggi ci convivono. Come cerchino e trovino degli espedienti per continuare a vivere. Il personaggio di Charlotte Rampling in "Sous le sable" vede un fantasma; qui quello di Mousse, interpretato da Isabelle, sceglie di portare a termine la sua gravidanza per mantenere in vita quello di Melvil.


Pensa mai al "César"? (Oscar del cinema francese, NDT)

Ah, per niente! Perché ci dovrei pensare? Francamente, penso a tutto fuorché a questo. (ride).

E’ cosciente di essere un regista culto?

Beh no, non ho quest’ impressione. Soprattutto perché le persone di culto sono spesso e volentieri morte. Ed io mi sento vivissimo!


In ogni caso lei è la punta di diamante del nuovo cinema francese..


Non so. Io lavoro. Penso soprattutto che se potessi non fare tutta la promozione che accompagna ogni film, non la farei..


Perché? Non è felice qui con me?


(ride) Sì, sì, sono molto felice di bere una Cola Light da Fouquet’s (il ristorante più esclusivo degli Champs Elysées, NDT). Ma siccome viviamo in una società dove tutto è mediatizzato, i film non bastano più a sé stessi. Ciò richiede un lavoro di "servizio post vendita" che all’inizio non avevo immaginato.


Cosa le dicono quando la riconoscono per la strada?


Non mi riconoscono spesso. Ciò che amo nel fatto di essere un regista è di essere dietro la telecamera, di tirare i fili. Inoltre preferisco restare defilato e conservare una certa riservatezza sulla mia vita privata. Credo che i miei film raccontino già abbastanza cose di me per avere bisogno di aggiungerne altre lanciandomi in confessioni o chissà cos’altro.


Ha dei rimpianti nella sua carriera?


No, nessuno. Perché anche le sconfitte e gli errori fanno parte della storia e ci permettono di capire e progredire. Non ci sono veri rimpianti, il passato è passato.


E’ attirato dalle sirene di Hollywood?


Hanno già cantato, soprattutto dopo l’uscita di "Swimming pool" che è stato un vero successo negli Stati Uniti. Avevo parlato a dei produttori di laggiù di "Angel" e mi avevano risposto: "Ok ma solo con una star e un happy end!". Ho girato con una sconosciuta e non c’è ombra di happy end. Ecco, non ho ceduto alle sirene di Hollywood. Del resto Truffaut diceva: "Gli americani ti rispettano finché resti a casa tua, dal momento in cui metti piede in casa loro ti calpestano." Preferisco quindi restare qui a fare dei piccoli film, in totale libertà, continuando a ricevere proposte dagli Stati Uniti, da gente che mi dice: "Sogniamo che venga a lavorare da noi..". E’ lusinghiero, per l’ego, ma nulla più.

La sua playlist del momento?

"Still walking", un film giapponese di Hirokazu Kore-Eda che mi è piaciuto molto, dove c’è anche una storia di lutto e qualcosa di surrettizio che risale al seno della famiglia. Poi sto leggendo l’ultimo Modiano, "Dans le café de la jeunesse perdue", che parla ugualmente di un’assenza e di una sconosciuta. Mi piace la sua scrittura. E in musica ascolto molto l’ultimo album di Benjamin Biolay.

Una parola in conclusione?


Ma no! A lei di trovarla, ora. Io non concludo, non so concludere, amo i finali aperti, non chiusi. Questa sarà la mia conclusione.


Filmografia
Sitcom - La famiglia è simpatica (Sitcom) (1998)
Amanti criminali (Les amants criminels) (1999)
Sotto la sabbia (Sous le sable) (2000)
Gocce d'acqua su pietre roventi (Gouttes d'eau sur pierres brûlantes) (2000)
8 donne e un mistero (8 Femmes) (20)
Swimming Pool (2003)
CinquePerDue - Frammenti di vita amorosa (5x2 - Cinq fois deux) (2004)
Il tempo che resta (Le temps qui reste) (2005)
Angel - La vita, il romanzo (Angel) (2007)
Ricky - Una storia d'amore e libertà (Ricky) (2009)
Il rifugio (Le refuge) (2009)
Potiche - La bella statuina (Potiche) (2010)

Magazine "Paris à Nous", n°465 del 25 gennaio 2010
Intervista: Fabien Menguy
Traduzione: Carlo Ligas

mercoledì 13 gennaio 2010

Intervista a Charlotte Gainsbourg, TROIS Magazine



Esito positivo
2009, annata erratica per Charlotte Gainsbourg: premiata come interprete femminile a Cannes per il provante Antichrist, malmenata da Romain Duris in Persécution, doppiatrice di una creatura fantastica in Max et les maximonstres, l’attrice ha appena pubblicato IRM, il suo terzo album, realizzato da e con un Beck in stato di grazia. Finalmente liberatasi dalla pesante eredità paterna, conferma le sue evidenti doti di cantante e vi si libra con una rara generosità. Incontro con un’artista affrancata. 

Il suo nuovo album si intitola IRM, in riferimento agli esami medici che ha dovuto subire due anni fa. Perché ha scelto questo titolo? 

Alla fine si è imposto da solo, in maniera molto spontanea. Era quello più rivelatore. Mi piace molto ciò che significa: “Imagerie à Resonnance Magnétique”, è allo stesso tempo molto poetico e molto clinico. Concilia la scrittura immaginifica, umana, terrestre di Beck e il lato più percussivo del disco – tutti questi suoni un po’ robotici dell’apparecchio a risonanza magnetica che abbiamo campionato nel pezzo omonimo. Ho fatto molte visite in una specie di cassone rumoroso: mi sono abituata ai suoni che ne provenivano, sono addirittura arrivata a trovarli onirici, trascendentali. Forse questa reazione era una maniera di proteggermi.. All’inizio della nostra collaborazione ho inviato questi suoni che ho trovato su un sito medico a Beck. A lui l’idea è piaciuta parecchio e ha iniziato ad utilizzarli in maniera musicale. 

Questo inizio in ogni caso dimostra bene ciò che la distingue, nella canzone come al cinema, dove riesce costantemente a fare della sua vulnerabilità apparente una forza, un motore. 

Non ho una prospettiva corretta rispetto a ciò, ma è vero che quando sono arrivata a Los Angeles per registrare il disco ho cercato di portare con me più bagagli possibili. L’incidente (Charlotte ha avuto un incidente di sci nautico nel 2007, ndt) mi era appena successo, ero ancora moralmente molto fragile, questo deve avere avuto delle ripercussioni sull’ album. Beck si è molto ispirato a ciò che sentivo, come se fosse entrato nel mio cervello. 

La registrazione è durata circa due anni, a Los Angeles appunto. In che misura questa città ha contribuito alla realizzazione del disco? 

La prima volta che ci sono stata, a sedici anni, avevo l’impressione di essere su di un’autostrada. Durante la registrazione c’è stato un periodo abbastanza lungo in cui uscivo dalle riprese di Antichrist e mi ritrovavo molto isolata, laggiù. E’ una città allo stesso tempo alienante e creativa. Credo che una buona parte degli artisti che abitano a L. A. peschino nell’insofferenza verso quel luogo un po’ della loro ispirazione, che l’artificialità di quel posto faccia nascere delle opere molto profonde, è un processo strano. Da parte mia, mi sentivo molto turista. A volte la mia famiglia è potuta stare con me, vivevo a casa di Beck, c’era un ambiente molto piacevole e disteso: restare tutto il tempo sotto il sole con quel cielo blu che non si muove mai.. credo che questo abbia colorato l’album. 

Il suo secondo album, 5:55, è stato realizzato in collaborazione con gli Air, un duo che conosce bene ed apprezza Beck. Cosa distingue secondo Lei questi musicisti? 

Gli Air si sono creati un universo a sé, estremamente singolare. L’album che abbiamo fatto insieme era forse un po’ più “prodotto”, molto statico. Eravamo in uno studio, loro suonavano con degli strumenti veri.. ho l’impressione che Beck sia più permeabile, più sperimentale. Pizzica in tutti gli stili, li fa propri, si serve di tutto l’immaginabile e non: Klacsons, giocattoli, corde.. Diciamo che ho avuto l’impressione di entrare nel mondo degli Air, mentre Beck mi è sembrato aver fatto un passo verso di me. Si è lasciato trasportare, a livello di testi e musica. 

In un’intervista ha dichiarato che un album di suo padre, Gainsbourg Percussions, aveva particolarmente ispirato la registrazione di IRM.

Sì, ma non è stata un’influenza consapevole. Mi sentivo cantare con i cori di New York, queste voci chiarissime, decise, che mi hanno molto motivata.. IRM è un album con una notevole presenza di percussioni. Con Beck ogni volta partivamo da un ritmo: la batteria, i tamburi, sono le basi di partenza della maggior parte dei pezzi, sulle quali si sono arrampicati gli altri strumenti. Dal momento in cui questi ritmi prendevano una tinta africana, carnale, tribale, io reagivo spontaneamente. Non avendo un linguaggio molto musicale, mi era indubbiamente più facile aderire a questo genere di ritmi. Beck mi ha fatto ascoltare molto blues, Robert Johnson, cose così.. Io da parte mia gli ho passato qualche colonna sonora, "Le troisième homme", "Smile" di Chaplin, ma non ci ha sviluppato sopra granchè. 

In ognuno dei suoi dischi le sue origini francesi sono distillate, come sospese: in 5:55 le si poteva indovinare solo grazie al riferimento ad una compagnia aerea, qui alcuni titoli sono cantati in francese, tra cui una reprise di un oscuro cantante del Québec.

E’ Beck che mi ha fatto scoprire questa canzone allucinante, "Le chat du café des artistes" di Ferland, così ricca, così divertente.. Siamo rimasti piuttosto fedeli all’originale. Beck mi spingeva a scrivere in francese mentre io tendevo a voltarmi verso il blues, verso ciò che non mi somiglia. Nella canzone "Voyage" mi ha chiesto di tradurre delle parole che aveva in testa e le ha assemblate in modo abbastanza sornione. L’altro titolo in francese, "La Collectionneuse", proviene dal mio amore per un poema di Apollinaire che si prestava bene ai temi dell’album. Cantare in inglese mi risulta più facile. In francese ho un riferimento diretto a mio padre, troppo pesante. Non riesco a scrivere di per me, è come se fossi dentro uno scafandro. Fare un album per me deve restare un atto ludico, un divertimento. 

Dopo un’esposizione alla Cité de la musique, un film in onore di suo padre, realizzato da Joann Sfar, uscirà a breve sul grande schermo. Che sensazione le danno questi omaggi? 

Sono fiera che ci sia così tanto amore per la sua vita e la sua opera ma preferirei non immischiarmene. Ho smesso di lavorare al progetto di un museo a lui dedicato perché non ne avevo le forze. Bisognava che pensassi a me, a preservarmi, a conservare una parte di segreto in ciò che lo concerne, dato che tutti sanno tutto di lui, persino più di me. Io so quello che lui mi ha raccontato, non ho letto nessuna sua biografia, posseggo ciò che lui ha voluto darmi e dirmi. E basta. 

Il mese scorso nelle nostre pagine il suo compagno, Yvan Attal, affermava: “Quando si è attori si ha voglia che un ruolo ci costi qualcosa”. Parlava della propria esperienza in "Rapt" ma anche della sua in "Antichrist" di Lars Von Trier.

A me piace lo sforzo. Ho avuto molto piacere durante le riprese di "Antichrist", un piacere un po’ masochista è vero, di dolore ed eccitazione mescolati. Essere in crisi per due mesi è molto liberatorio, anche se non potrei farlo tutti i giorni. E’ per questo che non amo fare un film appresso all’altro, non saprei più dove e quando riposarmi mentalmente. E’ piacevole sentirsi svuotati dopo aver girato. 

Ha prestato la voce ad un personaggio in "Max et les maximonstres" di Spike Jonze, un esercizio a metà strada tra il cinema e la canzone. 

Non avevo mai fatto del doppiaggio prima di allora. Questo film mi ha proprio sedotta, mi ha riportato certi ricordi d’infanzia, era piuttosto magico. C’è qualcosa di molto intimo nel registrare un album: si trasporta molto di sé nel canto e nei testi, si scava in ciò che si è. Il cinema, al contrario, significa camuffarsi, travestirsi, proteggersi in qualche modo. L’interesse è di portarci le proprie emozioni. 

In "Persécution" di Patrice Chéreau il suo personaggio è maltrattato da quello di Romain Duris. Essere attori è una forma di persecuzione consentita? 

E’ accettare di essere perseguitata da un regista ma anche aver voglia di dare. In "Antichrist" interpretavo sia la vittima che l’aguzzino mentre in "Persécution" soltanto la vittima. Patrice Chéreau ha una maniera molto strana di dirigere, come un terzo attore dietro la telecamera, una sorta di direttore d’orchestra animale.

Trois Couleurs, MK2 Magazine N.77



Intervista: Auréliano Tonet

Traduzione: Carlo Ligas

lunedì 11 gennaio 2010

La Merditude des Choses di Felix Van Groeningen - 2009

Tragicomicamente, la vita. Senza scalini, senza pause o sfumature nei cambi di registro, nessun rallentie nei saliscendi sulle montagne russe del trash più oltraggioso, il trash la cui faccia resta inflessibilmente di bronzo, senza vergogna di sorta, che continua ininterrottamente a dare il peggio di sé, anche quando sembra essere davvero troppo, anche quando ci si aspetterebbe una reazione e invece l’ unica direzione resta una pervicace inflazione. Vertice europeo di un isoscele immaginario che vede la sua base correre aldilà dell’ oceano tra Lebowski e The Simpsons, il terzo lungometraggio di Felix Van Groeningen affonda le mani nella terra fredda e bagnata delle Fiandre, nel substrato di una cultura lontana dagli splendori e dalla prosopopea della capitale d’Europa, in una società drammaticamente appiattita su sé stessa, scoraggiante e scorreggiante, follemente anarchizzata da quello che sembra essere l’ unico, invalicabile ed immortale burattinaio di tutti i destini: l’ alcool.
Tratto da un recente best seller dell’ editoria fiamminga, il film applica la struttura classica del ricordo biografico dello scrittore ancora inedito che rivede il suo passato ed in esso le ragioni del suo presente, risalendo fino alla prima metà degli anno ’80 nella piccolissima provincia belga, schiacciata sotto cieli grigi e pennellata in toni slavati da una telecamera a spalla che mette lo spettatore accanto ai protagonisti ed alle loro bieche consuetudini. Nei suoi ricordi l’ Io narrante Gunther (Valentijn Dhaenens ne è l’interprete adulto, visibilmente un attore molto preparato, con punte di elevato talento palpabile nei numerosi soliloqui di pensiero, nonostante l’osticità della lingua) racconta l’humus della sua educazione-formazione, trascinata con l’anima tra i denti in una famiglia composta dal padre (la madre non ha resistito a lungo) ed i suoi tre zii (tutte interpretazioni molto più che suffucienti, caratteri tagliati con l’ascia, un look degno dei periodi più bùi dell’ heavy metal ma capaci di sciogliersi in lacrime davanti ad una "Pretty woman" live di Roy Orbison), tutti, benchè più che adulti, a vivere nella casa natale con una madre disperatamente capace di reggere l’assurdo menage.
Svezzato a birra schiumante un orgoglio costantemente sbandierato di far parte di loro, di essere uno Strobbe, benchè tale lignaggio non comporti che instabilità finanziaria e psichica, il giovane Gunther, dotato di una sensibile capacità critica, ed una crescente volontà di sfuggire dal "merdaio" circostante, affronterà con naturale disincanto delle prove durissime regalategli dal suo frizzante entourage quali condividere la stanza con uno zio votato a conquiste femminili che consuma nel letto accanto al suo e che non esiterà a sedurre la giovane di cui Gunther si innamora, assistere fieramente a colossali bevute agonistiche con esponenti della sua famiglia, per una volta, sugli allori, o ancora essere respinto dal suo unico amico in quanto discendente di una famiglia di "marginali", o svegliare suo padre crollato la notte in una pozza di vomito. Ed è probabilmente proprio questo il focus dell’ opera premiata dalla Quinzaine a Cannes: l’archetipo della paternità fallita che cerca giustificazioni dappertutto e mai comprenderà le colpe che invece albergano dentro di sé: "Odio due donne: una mi ha messo al mondo, l’altra sta per partorire mio figlio." Così si esprime il Gunther adulto dopo aver invano tentato di sfuggire alla paternità e presentendone l’ insormontabile impegno, mentre i piani continuano delicatamente ad oscillare tra presente e passato fino alla sua piccola rivincita morale nei confronti di un destino fino ad allora votato alla disfatta, come un personaggio di Zola costretto per genetica a restare tra gli ultimi e che rianalizzando e raccontando il suo vissuto lo esorcizza, raggiungendo il suo desiderio di vivere dei suoi racconti, mentre continuano ad affiorare i ricordi, ininterrotti come bollicine in una grossa coppa di birra belga, ancora scura ma, dopo tanto tempo, meno amara.

Voto: 7
Carlo Ligas