martedì 10 maggio 2011

Jonathan Franzen, The Art of Fiction : Intervista all'autore di Libertà


Dopo i Lambert, protagonisti di “Le Correzioni”, il grande romanzo che 10 anni fa ha fatto urlare al miracolo la critica interna­zionale ed è anche stato molto letto (qualco­sa di non diverso da quello che succede quando esce un disco dei R.E.M.: piace a tutti), Jonathan Franzen se ne torna con una nuova saga fami­liare, “Libertà”, in uscita questo mese da Einaudi con la tradu­zione di Silvia Pareschi. Ancora una storia di ampio respiro e perfetto approfondimento psicologico. Che negli Usa ha fatto guadagnare all'autore la copertina di Time (a uno scrittore non succedeva dal 2000 e si chiamava Stephen King).

Malgrado il silenzio, la musica ha un ruolo fondamentale nei suoi libri.

«Provo una grande invidia per chi fa musica, più che per ogni altra forma d'arte.  Il modo in cui una canzone è capace di farti sballare, di farti entrare in contatto con la tua parte più profonda e intel­lettuale (...). Ogni mio libro è legato a una serie di canzoni. 

C'è sempre una dose di rock&roll nell'insieme, ma in Le correzioni la colonna sonora principale era, probabilmente, Petrushka, il balletto di Stravinsky che non solo corrisponde perfetta­mente al senso che cercavo di dare nel libro, ma anche alla sua struttura, alle differenti relazioni tra le singole parti e il totale. 
In più, cercavo di arri­vare a qualcosa in stile Music for 18 Musicians di Steve Reich per le stratificazioni metaforiche e le interconnessioni».

Mentre ne Le correzioni ci sono moltissimi riferimenti al cervello, in Libertà il linguag­gio della chimica del cervello e della sua archi­tettura è quasi del tutto inesistente.

«Beh, ogni volta si devono affrontare nuove sfide. Libertà è stato pensato e scritto in una deci­na d'anni, in un periodo in cui la lingua era come sotto attacco. Una cosa mai vista. La propaganda usata dall'amministrazione Bush e l'appropriazio­ne di varie parole — fra cui libertà, ad esempio—con lo scopo di ottenere cinicamente un vantaggio immediato era una cosa talmente evidente che era impossibile da negare. Erano anche, però, gli anni di YouTube, della possibilità per tutte le persone del mondo di avere un cellulare, di Facebook e di Twitter, insomma vivevamo in un nuovo mondo d'af­fari e divertimento alla portata di tutti.

Perciò ho deciso, per il mio romanzo, di agire su due fronti contrapposti. E così, da un lato ho preso uno di quei paroloni alla moda, come libertà appunto, e ho cer­cato di ridargli il suo giusto e corretto valore, men­tre dall'altro ho raddoppiato gli sforzi per scrivere un libro con abbastanza forza da trascinarti in un mondo dove puoi pensare liberamente e in manie­ra differente da quella a cui sei obbligato quando ti trovi sotto un continuo attacco mediatico, bom­bardato da migliaia d'informazioni e distratto da mille cose. 
L’impulso a difendere il romanzo, la mia pic­cola zona libera, è sempre più importante, ma i nemi­ci cambiano continuamente».

Per Libertà pensava a un romanzo politico?

«Sì. Ho speso tanti anni a cercare qualcosa d'in­teressante nella letteratura politica americana, qualche idea che non fosse stata sviluppata fino in fondo. In più, non ce la facevo proprio a supera­re la mia rabbia partigiana e approdare alla placi­da zona del dialogo politicamente corretto in cui sono scritti i bei romanzi. Stavo facendo lo stes­so errore di sempre: cercare di scrivere un libro in senso cronologico, dall'inizio alla fine. Ogni volta invece mi ritrovo a dover imparare il metodo più difficile, che è quello di partire dal protagonista».

Quando ha iniziato a capire che il libro stava prendendo forma?

«Solo verso la fine della lavorazione. Ancora pochi mesi prima di consegnarlo all'editore avevo in mente qualcosa di com­pletamente differente, un romanzo composto da materiale non strettamen­te narrativo, da documen­ti. La frase che continuo a ripetermi mentre sto scri­vendo, è: "Non so di cosa parla il libro! Non ho una storia!". E questa specie di ritornello si zittisce solo quando scrivo gli ultimi due capitoli. A metà del 2007, dopo circa cinque anni di stasi creativa, d'im­provviso mi sono ritrova­to con tutti gli elementi necessari per scrivere qualcosa d'interessante e ho parlato al mio editore di una storia con un trian­golo amoroso. Lui mi ha detto: "Non mi sembra male. Potrebbe essere un divertente racconto breve. Ti farò un contratto". Stabilimmo i tempi di consegna del manoscritto, circa io mesi dopo: pensavo ancora a un libro di carattere politico e volevo che uscisse prima delle elezioni del 2008. Per cercare di preparare i primi capitoli me ne andai a Berlino a respirare la buona e vecchia aria lette­raria tedesca, cercando di sfruttare il più possibi­le l'isolamento e la pressione che esercitava su di me la data tassativa di consegna. Ma non riuscivo ancora a definire i personaggi. E così ritornai in America e per tutta quell'estate provai, mi sforzai. Ma non ce la facevo a definire niente. Ero a un tale livello di disperazione che decisi di prendermi un anno sabbatico».


E lo ha fatto?

«Beh, quasi. Ho speso cinque interi mesi a scri­vere un lungo reportage per il New Yorker sull'in­quinamento in Cina (...). Solo quando mi resi conto che questo pezzo faceva fatica a trovare una audience o ad avere un qualche impatto di un cerco rilievo, ho capito che avrei fatto molto di più per il mondo se mi fossi ritirato nella mia stanza a occu­parmi della sola cosa per cui sono stato mandato su questa Terra».

Come ha capito che le cose stavano procedendo per il meglio?

«La parola che definisce al meglio la situazione è "adeguatezza". Per Libertà ho usato come lettore prin­cipale e consulente la mia amica Elizabeth Robinson, che stava scrivendo il suo romanzo. Uno dei suoi suggerimenti è stato: "Devi solo rendere il tuo libro adeguato (...)". Quando ero ragazzo, lo scopo più importante della mia vita era diventare un `buon scrit­tore". Adesso posso dire d'aver affinato le mie capa­cità, sebbene questo non significhi che io abbia sem­pre scritto cose egregie. Anzi, a dirla proprio tutta quando ho iniziato a scrivere Libertà, ad esempio, non prestavo grande attenzione allo stile.., insom­ma, non ero preoccupato più di tanto. Come sem­pre buttavo giù capitoli su capitoli e intanto mi dice­vo: "Questo non sembra il modo di scrivere che ho adottato negli ultimi 20 anni, è diverso, più traspa­rente". Non vedevo, però, in alcuna delle pagine che si stavano formando, i caratteristici segni che mi ave­vano dato la forza per completare Le correzioni: lì le frasi si componevano da sole per esplodere come fuochi d'artificio. Si trattava di belle frasi e io potevo dissipare tutti i miei dubbi semplicemente rileg­gendole o mostrando i primi capitoli del libro a Dave Means (scrittore, considera­to uno dei nuovi maestri del racconto breve, ndr), da cui mi aspettavo un'appro­vazione totale: ciò che avevo scritto aveva una tale forza che mi lasciava completa­mente soddisfatto. Per Libertà, è stato completa­mente diverso, il mio pensie­ro era: "Accidenti, ho appe­na scritto tantissime pagine senza usare metafore sulle folli giornate vissute da un normale studente ame­ricano, e non so se siano veramente buone!". 

Avevo bisogno, come mai prima, di approvazione. Ero per­fettamente consapevole di avere realizzato qualco­sa di bello e, nello stesso tempo, di completamente diverso da quello fatto sino ad allora, perché avevo retto un linguaggio che fosse un accesso diretto, sem­plice, sia alle storie che ai personaggi. Nonostante ciò, mi sentivo sperso».


Si dice che i suoi ultimi libri, più che roman­zi del XXI secolo, sembrino appartenere al XIX secolo.

«Quelli dell'Accademia Svedese, che assegnano il Premio Nobel, hanno confessato di non avere molto interesse nella letteratura contemporanea americana. Sostengono che è troppo chiusa su sé stessa, non si apre al mondo, guarda troppo il pro­prio ombelico. Osservando come il mondo si è ame­ricanizzato, credo che quella non sia una critica giu­sta: probabilmente noi americani riusciamo a rac­contare il mondo semplicemente parlando di noi, che è di più di ciò che riuscirebbe a fare uno scrit­tore svedese descrivendo un suo viaggio in Africa- Ma anche se loro avessero ragione, non credo che la nostra "chiusura" sia una cosa negativa. Mi col­pisce il parallelo con la Russia del XIX secolo. Stiamo parlando di un mondo piccolo, bravo a respingere qualsiasi tipo di potere straniero, che è riuscito a mantenere un'identità separata per seco­li_ Forse quella è la vera insularità. L'Idea di vivere in un ambito autosufficiente, anche se non corri­sponde al mondo intero, favorisce alcuni svilup­pi letterari. Tutti quei vecchi russi cercavano di com­prendere cosa sarebbe diventato il loro Paese e quel­la domanda non era del tutto senza senso, perché la Russia, dopotutto, era una nazione molto gran­de e non solo geograficamente. Se un abitante del Liechtenstein s'interroga sul futuro del proprio Paese, a chi importa veramente? Invece l'America e la Russia sembrano avere la giusta dimensione per dar vita a romanzi di largo respiro, come è stato, in un certo periodo, per l'Inghilterra, grazie al suo impero. Non per nulla, l'età d'oro del romanzo ingle­se coincide con quella della sua massima espansio­ne coloniale. Però, anche lì, non si tratta del mondo intero, ma di un microcosmo, per quanto abbastanza vasto. Il vero cosmopolitismo non è compatibile con il romanzo, perché gli scrittori hanno bisogno del dettaglio. Contemporaneamente, noi scrittori abbiamo bisogno di spazi in cui muo­verci liberamente e, per fortuna, qui in America ci sono entrambi. Detto questo, non mi sento di appartenere particolarmente al XIX secolo. 

Tutte le questioni che sono diventate problematiche in epoca moderna devono per forza essere centrali in ogni libro».

In più non sembra che il romanzo rivesta per lei ancora una grande importanza.

«Non mi piace la ricerca forzata della novità fine a se stessa. Ma, allo stesso tempo, non posso fare niente se non sento che sto creando qualcosa di nuovo. Leggere, oggi, è considerata un'attività piuttosto insolita, ci sono così tante alternative per divertirsi, e anche più facilmente accessibili, che sono molto attento, soprattutto come lettore, a capire se un autore cerca di sperimentare e pro­vare a dire qualcosa di nuovo o vuole solo rivol­tare la frittata. Naturalmente, ci sono sempre nuovi argomenti che ti possono portare lontano o venirti in soccorso quando hai problemi di stile, formali. Credo sia proprio l'importanza del conte­nuto che personalità come Harold Bloom (critico letterario statunitense, ndr), ad esempio, sottosti­mano nell'analisi di un romanzo. Bloom dà il meglio di sé nello studio della poesia, perché è linguaggio puro. Ma il suo approccio perde senso quando lo applica alla narrativa, della quale appunto consi­dera solo la lingua. Lo stile è importante, assolu­tamente, ma la storia della letteratura non è esclu­sivamente ricerca stilistica. Faulkner ha avuto una grande influenza sulla letteratura, e così Joyce, Hemigway, Carter, Lish e DeLillo Ma l'aspetto strutturale è solo uno degli elementi che conflui­scono in quel gran calderone che è la forma nar­rativa».

Che ruolo hanno avuto gli autori moderni nel suo sviluppo artistico?


«Continuo ad apprendere tantissimo da Proust e dal suo perfetto modo di raccontare, dalla sua con­sapevolezza di quanto sia importante, per uno scrit­tore, non rimanere legato a una precisa scansione temporale, potendo allungare così a dismisura la storia, e dalla sua capacità di interpretare perfet­tamente quel senso di lento sprofondamento che è la nostra vita. Le cose non sono mai quelle che appaiono a prima vista, spesso sono proprio l'op­posto. E poi Conrad. La preveggenza ne L'agente segreto, l'intensità e la violenza psicologica di Vittoria, l'incisiva critica al colonialismo in Nostromo. Libri meravigliosi nei contenuti e nello stile. Nella prima parte di Nostromo, Conrad costruisce uno sfondo che poi abbandona per fare un salto in un altro luogo e in un altro tempo, trascinandoti completamente. Lui è molto bravo nello sviluppare una scena che nemmeno si aspet­tava, ma a quel punto, quasi miracolosamente, si dice: "Ma qui c'è una storia e non è quella che avevo in mente". Ti toglie il fiato, amo questa cosa, la amo».

Una volta lei diede una descrizione dell'Ulisse di Joyce definendolo una cattedrale.


«Forse il mio "momento Joyce" deve ancora arri­vare. Mi piace molto Ritratto di un artista, ancor di più Gente di Dublino. Non posso, però, fare a meno di pensare che Joyce, dopo aver scritto quei libri, cercasse una consacrazione, una specie di sta­tus. È come se si fosse inventato lui stesso la cate­goria nella quale sarebbe stato inserito il suo lavo­ro. Da questa riflessione è nata l'immagine della cat­tedrale: creo qualcosa di così assoluto e solido che sarà ammirato e studiato a lungo nel tempo. In Joyce c'è una specie di freddo cinismo gesuitico, e i gesui­ti, non bisogna dimenticarlo, sono sempre stati gran­di manipolatori ed elitari. Io, invece, sono un vec­chio egualitario del Midwest e quel tipo di perso­nalità non mi piace. Trovo più affinità con artisti come Beckett, che è sicuramente più difficile da leg­gere di Joyce, ma non è questo il punto. Beckett cerca di dare voce al suo profondo orrore personale e in ciò trova una nota di divertimento e universalità. Lui è sempre attento al linguaggio, ma la sua ricer­ca non è esclusivamente al servizio di qualcosa di pensato, ma anche di sentito. E questo atteggiamen­to mi è molto più familiare». (...)

È importante il giudizio dei critici?

«... tranne qualche rara eccezione, ho smesso di leg­gere le recensioni dei miei libri dopo l'articolo di James Wood per Le correzioni. Lui è un lettore molto acuto, abbiamo gli stessi nemici ed entusia­smi. Ma il suo era un pezzo cavilloso, lagnoso e let­teralmente censorio, con dei malintenzionali riman­di al mio saggio pubblicato su Harper's Bazaar. La delusione derivata da quella lettura e una quindi­cina di minuti passati insensatamente nel 2001 a fare una ricerca su Google con il mio nome mi hanno curato dal bisogno di leggere di me stesso».

E il successo di Libertà le ha fatto cambiare idea?

«No».






Intervista di Stephen J. Burn, tratta da The Paris Review No. 195 Winter 2010

sabato 7 maggio 2011

Soul Kitchen, di Fatih Akin - 2009

"Cibo per l’anima”. Questo prometteva in quello che doveva (?), poteva (?) essere il passaggio cardine del lungometraggio che segna una svolta (temporanea, si spera) verso la commedia leggera da parte del talento già affermato dell’autore de “La sposa turca”. Nei novantanove minuti della sceneggiatura scritta in collaborazione con il protagonista Adam Bousdoukos, è dato di assistere all’ inarrestabile serie di piccoli e grandi sconvolgimenti che mandano in rotoli la vita (in vero già non proprio ideale..) di Zinos, gestore di un ristorante non propriamente da guida Michelin, in una Amburgo ad acquarello, un tardo giovane di non celate origini greche, dall’aria pateticamente Morrisoniana, discopatico cronico con un’improponibile suoneria nel cellulare, che nel corso di una cena matriarcale con la famiglia della fidanzata Nadine (Pheline Roggan, buona interprete, bellezza algida, distinta e nobile) fa l’incontro che potrebbe segnare il salto di qualità della sua attività: Shayn Weiss, lo chef d’altissima scuola e dal carattere marcato da una punta di permalosità, che abbandona la sua cucina per piantare un coltellaccio sul tavolo di un cliente colpevole di aver richiesto una scaldata al suo gaspacho. Shayn (Birol Uenel) è forse l’unica folgorazione (presto disillusa) del film di Fatih Akin: un’interpretazione di parecchie spanne superiore al resto della compagnia, un personaggio scolpito, tagliente come le sue lame che scorticano chirurgicamente filetti di pesce, che ha tutte le caratteristiche per essere il più classico Deus ex machina, piombato sulla narrazione per mettersela in spalla e sollevarla dal torpore incipiente, salvo (purtroppo) vederlo prematuramente ed ingiustificatamente scomparire (peccato mortale!) nel groviglio delirante dei canovacci spesso inconcludenti che seguiranno.

Lo sbarco dell’ingombrante personalità di Shayn al “Soul Kitchen” (“Se vuole la pizza, può andare al supermercato” Shayn rivolto ad un cliente abituale) cambia diametralmente le atmosfere del locale, senza, in un primo momento, giovarne agli introiti, affondando Zinos in uno stato pre-depressivo, già minato dalla partenza della fidanzata per Shangai e dall’improvviso ed imprevisto arrivo del fratello Illias, Moritz Bleibtreu, superbo (all’epoca) interprete di “The experiment”, qui in un ruolo appena defilato ma tutto sommato riuscito, che Zinos è costretto ad assumere al ristorante per permettergli la libertà vigilata, giocatore di poker e cavalli, dj improvvisato per amore, dai metodi da gangster usato che legherà con la cameriera Lucia, splendida, tutta schnaps e weltangschaung, che abita il quartiere bohème di Amburgo e cita Goethe “i colori sono il dolore della luce” mentre tracanna quantità irragionevoli di policromatici drinks.
Questo, se non degenerasse diventandone il solo strumento narrativo, sembra essere l’unico spessore della pellicola: una carrellata di ben riusciti ritratti, in assoluto molto vicini alle bizzarrie della realtà (imprenditori prostitutari, marinai sproloquianti, truci ispettrici peccatrici) ma che malauguratamente offuscano (o volutamente coprono?) una trama asfittica che sublima in harakiri grotteschi quale il funerale della nonna, o la cena a base di un’afrodisiaca corteccia dell’Honduras, con crudo amplesso consumato su di un pilastro del locale, mentre i Kazantsakis brothers si lanciano in un sirtaki, leggeri come il pesce fritto che servivano, o ancora bottoni di fantozziana memoria che schizzano come proiettili.


Non bastano a risollevarne il tono il cammeo di Udo Kier, nella parte di un affarista silente come uno squalo, compulsivo mangiatore di mentine, ne’ una buona fotografia con gradevolissime alternanze di luci tra gli interni e le interminabili sere buie del Nord Europa, ne’ una complessa colonna sonora, Zorba-Disco-Funky, consona al mélange di culture corrente nel film.
Solo l’arte culinaria, meno protagonista di quanto ci si potesse aspettare, resta intatta nel suo universale aspetto di necessità, in quello più moderno di ricerca del piacere ed in quello sociale di patrimonio culturale che, a “conto fatto”, permetterà a Zinos, dopo aver sfiorato lo sfacelo, di rimettersi in piedi.

A Zinos, non al film.


Voto: 5,5
Carlo Ligas

venerdì 6 maggio 2011

I ritratti di Wang Bing

Wang Bing è uno dei più grandi registi cinesi della nuova generazione, dopo essersi laureato nel 1996 alla Film Accademy di Pechino, realizza una serie televisiva in 18 puntate, Campus Affairs, e il documentario Common People’s Homestead. Ma il vero successo arriva nel 2003 quando vince il Festival internazionale di Marsiglia con il film 'Tie Xi Qu: West of the Tracks':


Successivamente vince anche il Festival internazionale del documentario di Yamagata nel 2007 con 'He Fengming'. Nel 2010 con The Ditch (Il fossato), il suo primo titolo di finzione, sorprende alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia: Alla fine degli anni cinquanta, il governo cinese condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza sociale e famigliare. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi, lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari, circa tremila “intellettuali” di estrazione basso o medio borghese dalla provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e delle terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove dormivano. Il fossato racconta il loro destino: un resoconto coraggioso di un’umanità spinta ai limiti più estremi. 


   


LO SGUARDO

Non mi pongo il problema di analizzare se i soggetti che filmo siano buoni o cattivi: ho fiducia nell’umanità e non credo di avere il diritto di giudicare. La mia videocamera cerca solo di essere il più rispettosa possibile nel ritrarli e di riprendere la realtà in maniera equanime. Anche perché quello che sono in grado di raccontare della loro esistenza è un segmento talmente piccolo che difficilmente può servire a comprendere tutta la complessità dell’individuo o a dirmi che tipo di persona ho davanti, se nella vita si sia comportata in maniera giusta o sbagliata. Credo inoltre che la differenza tra il Bene e il Male sia spesso impossibile da cogliere con precisione. La mia videocamera è uno strumento neutro, apre la sua lente sulla gente e raccoglie tutto quello che ha da dare.

PAESAGGI INTERIORI

È semplice raccontare come un evento conduca a un altro, ma un vero film non dovrebbe essere fatto di un susseguirsi di avvenimenti. È molto più complesso mostrare i movimenti interiori di un individuo che, certo, possono anche esprimersi attraverso accadimenti concreti. A prescindere dalla cultura di appartenenza, ciascuno può comprendere ciò che si agita nel cuore di una persona. Non esistono barriere: tutti gli esseri umani avvertono emozioni comparabili. La maniera in cui vengono espresse può differire, ma la sostanza è la stessa. Non sono sensibile verso ciò che succede all’esterno, mi interessano i moti dell’animo che gli altri fanno nascere in noi. È per questo che le mie opere hanno bisogno di tempo e sono così lunghe, lente. Ogni persona ci insegna qualcosa e, un po’ alla volta, perdiamo consapevolezza della distanza che separa la pellicola dalla realtà.


(Parte di un intervista tratta dalla rivista "Duellanti", novembre 2010, di Daniela Persico)

lunedì 2 maggio 2011

Moebius: Garage contemporaneo

«Sì, mi piace molto teorizzare su tutto quel che accade nel mondo», dice. «Ma non sono mai riuscito a estrarre da questo caos, da questa massa d'informazioni, qualcosa da privilegiare. E il mio lavoro è più un tentativo di sintesi di quel che immagazzino sul mondo circostante. Abbiamo l'illusione della nostra presenza in Tunisia, ad Haiti...e passiamo il tempo a colmare questa illusione del reale mediante il nostro immaginario. Sappiamo di non essere lì, di non essere le vittime di quelle tragedie, ma ugualmente ci proviamo, grazie a tutto il materiale che immagazziniamo, con il cinema, la letteratura, la televisione. Immagazziniamo enormi riserve di realtà in scatola, pronte per essere dirottate nella zona sensazioni. Siamo nella fantascienza, nella misura in cui, da qualche decennio ormai, non si vive più esclusivamente su scala locale: viviamo, senza forse averne sempre consapevolezza, in quanto "terrestri". Questa espansione della coscienza ha una sua contropartita: ovvero che le sensazioni si sono un po' diluite. Non si ha la stessa densità quando si corre in un territorio così vasto rispetto a quando si é concentrati sul proprio villaggio, sul proprio quartiere. Di fatto, più ci si estende e più si diventa porosi e inconsistenti». Dissoluzione, ancora. «Esatto. Il lavoro estetico, oggi, è vittima proprio di questo: gli artisti per la maggior parte si cimentano in opere "distese". Ma se sei un artista e ti vuoi far conoscere, devi lavorare per il "pianeta", per un'arte delocalizzata. Come tutti coloro che fanno dell'arte commerciale, io mi sento un po' strano in questo contesto, perché l'artista commerciale non esiste in quanto persona, ma in quanto savoir-faire. Dev'essere estremamente flessibile, adattarsi a un pubblico: non ha la possibilità nè la capacita di essere universale in maniera deliberata. Lo può divenire, ma come un paesano che non è mai uscito dal suo villaggio. E che dunque ricrea della densità localizzandosi».



(Frammento di un intervista tratta da Rolling Stone, Marzo 2011)

Leonard Cohen - Devanagari




AMORE

L’idea tipica del buddismo che vi sia una scala di marmo e d’oro che conduce alla conoscenza è seducente, ma mi sembra più vera l’idea che debba esserci qualche lacerazione per poter imparare qualcosa. Fino a quando il nostro cuore non si rompe, non sapremo mai nulla veramente dell’amore. Fino a quando il nostro universo obiettivo non collassa, non sapremo mai nulla riguardo al mondo. Non so se il mondo abbia cospirato contro l’amore, io ho cospirato contro l’amore.
I baci di alcune donne sono nati ciechi.
Amare una donna è come vivere il mio diario ideale.

AMICIZIA
L’amicizia tra un uomo e una donna che non sia basata sul sesso è ipocrisia o masochismo.Solo dopo avere visto il volto di una donna trasfigurato nell’orgasmo raggiunto insieme posso dire di averla conosciuta veramente. Il resto è pura finzione.

DONNE
Ho raggiunto la massima confusione tra Dio e le donne. Ma si sa, quando si incontra una persona toccata dalla Grazia, essa ci appare come se fosse innamorata, anche se non sappiamo di che cosa... Non ha funzionato bene tra gli uomini e le donne, ma nessuno può penetrare il bisogno... nessuno può sopportare il dolore della separazione... tutti provano a cambiare i patti con l’amore, perché tutti ne abbiamo così tanto bisogno.
Ho sempre desiderato molte donne e non potevo averle. Così ho iniziate a scrivere alcune cose per le donne che volevo. Incominciavano a mostrarsi intorno a me e presto le persone iniziarono a chiamare quello che scrivevo poesie. Quando non funzionava con le donne, mi rivolgevo a Dio.

FEDERICO GARCIA LORCA
All’età di sedici anni sono “inciampato” in un libro di Federico Garcia Lorca. Lo avevo adocchiato in un negozio di libri di seconda mano: in quella lucente “Gerusalemme del Nord” che è Montreal, Quebec. Presi in mano quel “libro del destino”, e lessi: Voglio vederti passare sotto gli archi di Elvira per vedere le tue cosce e iniziare a piangere.Quelle parole sconvolsero la mia vita e compresi che in mia esistenza sarebbe stata uno sforzo continuo per scrivere, un giorno, almeno una volta nella vita, una frase come quella. Righe di fuoco mi bruciavano dinanzi agli occhi e nel cuore, e continuai a leggere. La mia esistenza non è stata più la stessa da allora... questo poeta ha “rovinato” la mia vita: era diventato il mio mondo, era diventato il mio orizzonte, era diventato il mio universo e cosi ho iniziato a chiamarlo “fratello”. I libri di Lorca mi hanno insegnato che la poesia può essere pura e profonda e — al tempo stesso — popolare.Lorca mi ha insegnato che tutta la grande poesia è un suono che viene dal profondo, è stato lui a spingermi a commettere quel grande atto contro natura che è stato il mio coinvolgimento nella poesia. A lui sono stato capace di dare in cambio solo il nome di mia figlia. Incontrare l’opera di Lorca è stato come trovare per strada un lingotto d’oro. Un’inestimabile fortuna fatta di gioia, poesia e felicità.

MUSICA
La musica è come il pane: è uno dei nutrimenti fondamentali che abbiamo ed è di varietà assai differenti tra loro. Una canzone è utile se “tocca” qualcuno. Solo l’utilità va misurata. “Musica facile” non è una definizione caritatevole. Da un certo punto di vista se vieni toccato in qualche maniera, la canzone che lo fa non può essere facile. Le nostre stesse emozioni possono venire considerate “facili” ma sono anche le uniche che abbiamo.
Sono sempre stato descritto come uno che sapeva fare solo tre accordi, mentre ne conoscevo almeno cinque. Semplicità e purezza sono i due requisiti base che voglio nella mia musica, la luce in fondo al tunnel. Si dice sempre che io metto parole in musica, ma non è vero. Io scrivo canzoni, ed è una cosa molto diversa. Dice il Talmud che c’è del vino buono in ogni generazione. Ogni volta che ascolto la radio, se ho la pazienza dì aspettare, prima o poi trovo qualcosa di buono. Non devo nemmeno sforzarmi di accenderla: mia figlia Lorca la ascolta tutto il giorno e la sua musica passa attraverso i muri ed entra nella mia stanza.

PREGHIERA
Una preghiera è qualcosa di continuo. E’ come quando i figli di Israele ricevettero dal cielo la manna: gliene fu data abbastanza ogni giorno, ma non potevano conservarla o metterla da parte, perché altrimenti sarebbe marcita. Le nostre vite assomigliano a questa situazione. Devi rinnovare la preghiera ogni giorno, perché il suo anelito non può essere altro che quotidiano. Non puoi metterla da parte o pregare di più un giorno per un altro. Deve essere un afflato quotidiano. 

PROGETTI
Non faccio mai progetti a lunga scadenza…il diavolo ride sempre quando facciamo dei piani.