venerdì 19 giugno 2009

APPALOOSA (APPALOOSA) DI ED HARRIS - 2008

Bel film la seconda regia di Ed Harris. Un western classico, asciutto e figlio dichiarato della tradizione di Ford e Hawks. Non dispiace per niente questo anacronistico e rischioso recupero del genere. Dal meraviglioso "Gli Spietati" di Clint Eastwood ci sono state leggere variazioni sul tema: l'ottimo "Terra Di Confine" di Kevin Costner (dal quale Appaloosa sembra aver mutuato il virile rapporto tra maschi) e lo splendido "L'Assassinio Di Jasse James Per Mano Del Codardo Robert Ford" che girando a 360 gradi sul genere ci regalava un "iper-western" modernissimo e astratto. La trama del film di Harris girato completamente in New Mexico è uno standard: ad Appaloosa, una cittadina di cercatori d'oro del diciannovesimo secolo, lo sceriffo Virgil Cole (Ed Harris) è chiamato a far rispettare la legge, con l'aiuto del suo vice ed amico Everett Hitch (Viggo Mortensen) dovrà difendere la cittadina dagli abusi del rancher omicida Randall Bragg (Jeremy Irons). La loro solida amicizia verrà messa a dura prova dall'arrivo in città della bella e volubile Allie French (Renée Zellweger).
Eppure "Appaloosa", pur mantenendo una perfetta aderenza con il dejà vu di cavalcate, duelli e locomotive a vapore, ci regala il superbo distacco umoristico di due provetti pistoleri, Virgil e l'Everett del superlativo Viggo Mortensen, che ricercano parole sofisticate e letterarie mentre difendono la legge a pistolettate, e l'ammiccare moderno della campionessa di sorrisini e faccettine Renée Zellweger.
Il regista 
Ed Harris convince appieno quanto l'attore, con inquadrature che indagano nel silenzio, con l'assenza di musica piaciona e con la cura maniacale di costumi e scenografia che delineano un intenso omaggio al western e ai suoi valori.
Voto: 7
Luca Tanchis

GRAN TORINO, DI CLINT EASTWOOD - 2008

Walt Kowalsky rimane solo dopo la morte della moglie e, attorno alla sua casa, nella periferia depressa di Detroit, vede un mondo che gli si sgretola attorno, "un mondo imperfetto", e soprattutto diverso. Musi gialli, gang di neri, nipotini sboccati e maleducati. Walt è un vecchio di origine polacca in pensione, rude, xenofobo e scorbutico all'ennesima potenza. Uno che sputa per terra dopo averti detto "sons of a bitch". Uno che ha fatto la guerra in Corea e si porta dietro medaglie e incubi, un'anima guasta. Uno che ha lavorato una vita nelle fabbriche Ford e si tiene in garage una Gran Torino del '72 immacolata e incontaminata dalla strada. Pura. E' il personaggio meno permeabile alla tenerezza che Clint si sia mai cucito addosso. Ma poi si apre la prima finestra di un film straordinariamente etico: cioè che si può cambiare a qualsiasi età. Kowalsky capisce che non tutto il diverso è brutto, detestabile. Inizia un percorso di avvicinamento a Thao (il giovane indifeso vicino di casa) e la sua famiglia hmong (un gruppo etnico asiatico che vive nelle regioni montagnose della Cina del sud), e al contempo di distacco da tutti i vendicatori armati interpretati dal regista californiano, da "Gli Spietati" a "Debito Di Sangue". Il testamento di un eroe scritto nell'ultimo estremo sacrificio, nella rinuncia alla violenza e alla vendetta, che si può leggere come un messaggio alla più recente storia americana.


Etico ma anche straordinariamente classico. Con pochi, suggestivi e geometrici sguardi disegna un mondo e traccia il percorso di una redenzione verso l"altro". Abitato da quella potenza essenziale e nitida delle ultime sue opere, del suo grande cinema umanista, ostinato e pieno di compassione. Dunque "pietas" ma anche tanta splendida ironia nei dialoghi e abbaglia, come in "Million Dollar Baby", lo scontro verbale tra Clint e il parroco di turno. Una infinita partita tra l'incapacità della religione tradizionale di infiltrarsi e modulare le leggi che regolano l'anima moderna, circondata da mille sirene e mille seduzioni, e il bisogno di una spiritualità che non trascenda dal cristianesimo più umano, da un vangelo perfettibile. Stupenda la chiusura sulla Gran Torino che solca un viale alberato pieno di sole mentre Jamie Cullum canta il primo verso della struggente canzone omonima. L'eredità di Walt, una purezza e un riscatto, viaggiano nelle mani di Thao.


Luca Tanchis
Voto: 8

martedì 9 giugno 2009

VALZER CON BASHIR (Waltz With Bashir) di ARI FOLMAN - 2008


"Valzer Con Bashir", del semi esordiente regista israeliano Ari Folman, è un film/non-film (girato dal vero e disegnato sulla pellicola) meraviglioso, capace di coinvolgere e mettere a disagio utilizzando una tecnica che sembrava pigramente confinata ai cartoons e ai videogames. E’ la storia di un buco nero, di una protettiva e terribile memoria da riconquistare. Una catarsi che somiglia ad un lungo incubo. Folman stesso afferma di essere stato costretto ad utilizzare questa tecnica chiamata “Rotoshop” per mancanza di materiale originale, ma viene il sospetto che sia stata invece una scelta “millesimata” ai fini puramente artistici. Infatti nel gioco dei contrasti, vedere un bambino palestinese lanciare razzi e morire in un bucolico frutteto, disegnato con matite colorate, resta scolpito nella mente più dell’opulente fiumana di reali immagini belliche che invade il nostro quotidiano. Proprio come in “Apocalypse Now”, dove l'atto di surfare era l’elemento disturbante, che dirottava “normali” scene di battaglia in un trip psichedelico da non ripetere, l' orrore da scongiurare.


Il regista nato ad Haifa, con alle spalle solo una decina di spot pubblicitari per le forze armate israeliane e qualche documentario, segue la strada tracciata dal texano Richard Linklater in “A Scanner Darkly” e “Waking Life”, per regalarci un ibrido sia di tecnica (filmato e disegno) che di contenuti ( rigore documentale e dimensione onirica), ma pieno di poesia e impotenza. La storia è completamente autobiografica. L’Io narrante è lo stesso Ari Folman, che a quarant’anni si congeda dall’esercito israeliano e, vent'anni dopo l'eccidio di Sabra e Shatila del 1982 di cui fu testimone oculare come soldato, ritrova lentamente la memoria dell'accaduto.
Potere del vero artista, rende universale un'esperienza personale: " che la guerra è fatta di giovani soldati che non vanno da nessuna parte, sparano a degli sconosciuti, sono colpiti da sconosciuti e poi tornano a casa e provano a dimenticare. A volte ci riescono. Più spesso non ce la fanno". This is not a love song. Menzione a parte per le stupende musiche originali scritte da Max Richter che donano una disperata forza evocativa a tutta la pellicola.


voto: 8
Luca Tanchis

martedì 2 giugno 2009

RACCONTO DI NATALE (Un Conte De Noel) di ARNAUD DESPLECHIN - 2008


Il cinema bello, pulito, pacato è un inganno. Piacevole ma bugiardo. Il cinema di Arnaud Desplachin è invece un assedio, frontale e subdolo, alle spalle, ma spudorato. Pensi di guardare solo un film e invece ovunque ti volti ti devi arrendere lentamente all'Arte. Frammenti di letteratura, filosofia, musica colta e hip-hop, citazioni poetiche, scheggie di teatro e funzionali omaggi ai maestri. Un assalto organico, una sceneggiatura che si fa film e prosa nel momento stesso che si srotola sullo schermo. Senza perdere un millimetro di magia. Desplechin è il nipotino talentuoso di Truffaut, Bergman e Resnais. Soprattutto di Truffaut, dal quale assimila una maniera di girare così classica ma al contempo rivoluzionaria, la liscia fusione di generi: commedia e dramma che producono un'agra deriva imprevedibile. La trama, come da titolo, racconta di un Natale. Abel e Junon Vuillard riuniscono tutta la famiglia nella loro casa a Roubaix. La figlia maggiore, Elizabeth, madre di un adolescente problematico, da anni ha troncato ogni rapporto con l’inaffidabile fratello Henri, mentre il terzo fratello, Ivan, è sposato e padre di due bambini. Uno di loro potrebbe salvare la vita a Junon, affetta da una grave forma di leucemia che solo un trapianto di midollo è in grado di guarire. Attori straordinari e un fuoriclasse scapigliato come Mathieu Almaric, l'Henri che innerva questo canto di Natale di una famiglia alto-borghese come una variabile impazzita, un malinconico buffone a corte; un personaggio così vivo che, come ne “La Rosa Purpurea Del Cairo”, squarcia la tela e balza (cade) su un marciapiede e sulla vita, certamente quasi mai perfetta, linda e serena.
"Più si sanguina, più si dà. Queste cose, i dettagli, le storie e quant'altro, sono la pelle di cui i serpenti si spogliano, lasciandola a chiunque da guardare."
Dissolvenza circle-out in chiusura, sulle parole di "A Midsummer Night's Dream", le ombre svaniscono.


voto: 9
Luca Tanchis