mercoledì 8 novembre 2017

Aaron Swartz, Open Access to the hope


Persone che lasciano il segno: Aaron Swartz (8 novembre 1986 - 11 gennaio 2013)

A gennaio abbiamo perso Aaron Swartz, suicidatosi a 26 anni. O meglio, vista l’ampia portata e il profondo spessore del suo impegno: a gennaio tutti noi abbiamo perso Aaron Swartz.

Quando aveva 14 anni, Aaron ci diede l’RSS — il protocollo operativo che distribuisce automaticamente l’informazione su Internet. Due anni dopo, sviluppò l’architettura tecnica per Creative Commons — un sistema di licenze libere nel diritto d’autore per autorizzare la libera condivisione delle opere creative. In seguito contribuì al progetto Open Library per la catalogazione dei libri online. Liberò, in modo legale, i documenti giudiziari raccolti nel database federale a pagamento PACER, portando così alla drastica riduzione dei costi di molti servizi legali. Realizzò una componente tecnica fondamentale per il sito d’informazione Reddit, partecipando alla comproprietà di quell’azienda di grande successo. E, poco prima di morire, stava concludendo la messa a punto di una serie di strumenti capaci di rendere incredibilmente più efficace l’attivismo online.

Eppure Aaron non era soltanto, né soprattutto, un computer geek. Il suo tratto cruciale era l’impegno continuo per quel che credeva fosse giusto. Più di chiunque altro abbia mai conosciuto, Aaron seguiva soltanto il proprio istinto di giustizia. Aveva fatto fortuna quasi per caso, grazie al suo lavoro con Reddit, usandone poi i soldi per le battaglie che riteneva giuste — a prescindere dal contesto. Fino a quando una di queste battaglie non gli è sfuggita di mano.

Due anni prima di suicidarsi, Aaron venne arrestato dalla polizia di Cambridge, per essere entrato abusivamente nel campus del Massachusetts Institute of Technology (MIT) con “l’intenzione di commettere un reato grave”. In uno sgabuzzino del MIT era stato rinvenuto un computer riconducibile a lui che scaricava sistematicamente l’intero contenuto del database JSTOR — un archivio di articoli accademici. Secondo l’opinione della polizia di Cambridge, e poi del MIT e dell’FBI, e infine perfino dei servizi segreti, dev’essere proprio sbagliato scaricare milioni di documenti senza il permesso del sito che li ospita.

Aaron riteneva però che a sbagliare fosse quest’ultimo. Pur se non potremo mai sapere con esattezza le sue motivazioni, nei mesi precedenti all’arresto si era espresso in maniera sempre più esplicita contro l’ingiustizia ai danni del mondo in via di sviluppo nel mantenere sotto chiave le ricerche accademiche dietro il “paywall” dei Paesi ricchi. Qualcosa di ingiusto e di stupido. Nessuno degli autori dei testi che Aaron stava scaricando aveva intenzione di limitarne la distribuzione. E nessuno di loro riceveva compensi maggiori per via di quelle restrizioni.

Piuttosto, il fatto che JSTOR mantenesse il controllo di quei materiali non era altro che la conseguenza di un diritto d’autore fatto per il mondo fisico, di un sistema che non riusciva a star dietro alle novità imposte dal digitale.

JSTOR aveva fatto un buon lavoro ampliando la disponibilità delle ricerche accademiche tramite le biblioteche ed altri abbonamenti a pagamento. Aaron però appariva impaziente: quale poteva mai essere il motivo, chiese a me e ad altri, per bloccare l’accesso diffuso a questa mole di conoscenza? Qualche mese prima del suo arresto, disse agli studenti d’informatica della Università dell’Illinois di Urbana-Champaign che avevano l’“obbligo morale” di usare il loro accesso privilegiato a quella conoscenza per metterla a disposizione di tutti, in ogni parte del mondo. Presumibilmente la sua deviazione nello sgabuzzino del MIT era dovuta a quel medesimo “obbligo morale”.

È importante tenere a mente quanto fosse circoscritta la posizione di Aaron in questo caso. La sua critica, in parole e fatti, non era diretta al diritto d’autore in generale. Non venne accusato di aver scaricato l’archivio dei film della Sony o di aver creato un programma tipo Napster per facilitare l’accesso gratuito alla musica. La sua critica prendeva di mira un aspetto specifico: l’esistenza o meno di qualche buona ragione a livello di copyright per bloccare l’accesso a quei testi accademici. I rispettivi autori non erano d’accordo con una tale decisione: in fondo il “paywall” non portava loro alcun incentivo. Era un ostacolo tutt’altro che necessario e, secondo Aaron, immorale alla diffusione degli ideali dell’Illuminismo.

Eppure il tempo impiegato a predisporre quel computer nello sgabuzzino del MIT era soltanto una deviazione del suo percorso. Anche se Aaron viveva con passione quella causa, non si trattava certo della più importante. Non era neppure la battaglia che gli stava più a cuore quando venne arrestato. Nel gennaio 2011, il suo impegno era focalizzato per lo più sulla riforma politica.

Insieme a David Segal, ex consigliere statale del Rhode Island, aveva lanciato un’organizzazione per promuovere l’attivismo online a cui aveva aderito un milione di persone, Demand Progress, mirata alla giustizia e alla parità sociale. E dopo l’inattesa vittoria che, grazie anche al suo contributo, portò al ritiro dell’ennesima normativa “anti-pirateria” voluta da Hollywood – il SOPA/PIPA, Stop Online Piracy Act e Protect IP Act — sognava di riproporre quella stessa tecnologia da lui ideata per collegare tra loro tutti gli attivisti interessati a rivitalizzare quella democrazia americana che troppi consideravano ormai perduta. A quel punto Aaron fu coinvolto in una vicenda di stampo kafkiano, una battaglia di due anni con un procuratore federale super zelante, deciso a dare una lezione a questo ragazzo per quell’atto illecito, senza però rendersi conto di contribuire così a trasformarlo in un martire.

Sapevo della disperazione che lo affliggeva mentre vedeva dissipare la sua fortuna in spese legali e ribadiva più volte che, all’interno della rete aperta del MIT, il suo comportamento non era affatto criminale. Le autorità si mostrarono però irremovibili. Come spiegò anzi al MIT lo stesso procuratore, furono proprio le proteste pubbliche di Aaron contro il procedimento giudiziario a farlo diventare un “caso istituzionale”. Ciò voleva dire, per come l’intendo io, che una punizione proporzionale al reato commesso era ormai fuori discussione. Aaron fu messo davanti alla minaccia di scegliere tra parecchi anni di carcere o rinunciare ai suoi diritti politici dichiarandosi colpevole di un reato penale. Di fronte a queste due opzioni, ne scelse una terza.

Molti di noi continueranno a chiedersi se avessero potuto fare qualcosa di più per salvare Aaron. È questa la crudele conseguenza di ogni suicidio.

L’autore di un rapporto sul comportamento del MIT durante il caso giudiziario lamentava che quanti tra noi “avevano agito da mentori per Swartz, aiutandolo a raggiungere… la genialità” non erano però riusciti a trasmettergli la “seykhel — bellissimo termine Yiddish per indicare la combinazione tra intelligenza e buon senso”.

Forse è così, ma rimango scettico. Aaron dimostrava una dose infinita di buon senso. Ma aveva anche un’urgente impulso verso la giustizia sociale. Il suo errore è stato quello di credere che il nostro sistema giudiziario avrebbe dimostrato sufficiente saggezza da riconoscere questo suo aspetto, e accordargli il perdono. Oppure che il MIT— dove aveva lavorato il padre e dove studiava il fratello, e con il quale aveva collaborato più volte — avrebbe esteso a quell’atto di hacking etico lo stesso atteggiamento tollerante già applicato tante volte ai suoi studenti.

Forse quelli tra noi che sono stati i suoi mentori avrebbero dovuto spiegargli meglio che queste istituzioni valgono meno di quanto egli credesse.

O magari dovremmo impegnarci nel renderle migliori di quello che lui pensava fossero già.

Articolo originale di Lawrence Lessig pubblicato il 22/12/2013. Traduzione di Bernardo Parrella)

Lawrence Lessig insegna giurisprudenza e leadership presso la Harvard Law School.


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Eredità

Le persone ambiziose vogliono lasciare un’eredità ai posteri, ma di che tipo di lascito si tratta? Il criterio tradizionale è misurato dagli effetti delle nostre azioni. È così che gli avvocati più importanti sono i giudici della Corte Suprema, poiché le loro decisioni hanno effetti sull’intera nazione. E i matematici più affermati sono quelli che fanno scoperte significative, le quali finiscono per essere usate dalle moltitudini successive.

Un quadro piuttosto ragionevole. L’eredità di una persona dipende dall’impatto che produce, e il modo migliore per misurarlo è considerare gli effetti delle sue azioni. Ma ciò significa misurare con il metro sbagliato. La questione non riguarda gli effetti del proprio impegno, bensì come sarebbero le cose non se non avessimo fatto nulla.

Si tratta di situazioni ben diverse tra loro. È normale accettare il fatto che “certe idee sono mature per la loro epoca” e la storia tende a confermarlo.

Quando Newton inventò l’algebra, lo stesso fece Leibniz. La teoria dell’evoluzione delle specie tramite la selezione naturale di Darwin venne proposta anche da Alfred Russel Wallace. E quando Alexander Graham Bell inventò il telefono, così fece Elisha Gray (pare ancor prima di lui).

In questi esempi i fatti sono palesi: qualora Newton, Darwin e Bell non avessero fatto quelle scoperte, il risultato sarebbe stato sostanzialmente lo stesso — avremmo comunque l’algebra, l’evoluzione delle specie e il telefono.

Eppure costoro vengono salutati come eroi importanti e il loro lascito è immortale.
Se dovesse interessarci soltanto quest’aspetto, forse ciò sarebbe sufficiente.

(Pur trattandosi di un gioco alquanto pericoloso, perché il futuro potrebbe risvegliarsi in qualsiasi momento e rendersi conto che quell’adulazione è fuori luogo.) Qualora volessimo però capire effettivamente la portata del nostro impatto, anziché limitarci a registrarne il modo in cui questo viene percepito, allora occorre una riflessione più attenta.

Una volta ho incontrato un noto accademico, il quale aveva pubblicato svariati testi ampiamente riconosciuti come dei classici perfino al di fuori della sua disciplina, e mi offrì alcuni consigli per fare carriera in campo scientifico. (Mi sovviene anzi che ciò vale per due persone, a conferma che trattasi di un fenomeno di più ampia portata). Attualmente l’ambito x è assai “caldo”, mi disse, potresti davvero farti un nome dandoti da fare in quel campo. L’idea di fondo era che presto ne sarebbero nate scoperte importanti e, qualora mi fossi buttato in quel settore, avrei potuto essere io a farle.

Secondo il mio metro personale, ne conseguirebbe un’eredità assai scadente. (Per quel che vale, non credo che nessuno dei suddetti rientri in questa categoria; ovvero, la loro reputazione è meritata anche in base a questi standard). Ancor peggio, dovremmo sapere come stanno le cose. Si presume che Darwin e Newton non abbiano avviato le loro indagini perché ritenevano che quel campo fosse “caldo”. Mettendo in pratica le loro idee, ritennero di produrre un impatto significativo, pur se ciò non si rivelò corretto. Ma se qualcuno decide di entrare in un certo campo scientifico semplicemente perché ritiene che presto ne scaturirà una scoperta importante, non potrà mai sperimentare una simile delusione. Al contrario, sarà cosciente del fatto che il suo lavoro produrrà scarso impatto, e dovrà operare in base a quest’impressione.

Lo stesso vale per altre professioni che erroneamente riteniamo importanti.
Prendiamo per esempio i giudici della Corte Suprema. Tradizionalmente lo si ritiene un impegno maestoso da cui derivano decisioni di estrema importanza.

A me sembra invece che il loro impatto sia alquanto ridotto. L’impatto maggiore deriva piuttosto dalle posizioni politiche del Presidente che sceglie quei giudici. In mancanza di un certo giudice, ne avrebbe trovato un altro da nominare in quel ruolo. L’unico modo per avere un impatto concreto come giudice della Corte Suprema sarebbe quello di cambiare le proprie posizioni politiche dopo essere stato nominato, e l’unico modo per prepararsi a una simile eventualità sarebbe quello di trascorrere la maggior parte della carriera facendo cose che si ritiene essere sbagliate nella speranza che un giorno si venga scelti come giudice della Corte Suprema. Qualcosa ben difficile da digerire.

Quali sono allora i lavori che lasciano un’eredità degna di questo nome Non è facile trovarne, poiché per loro stessa natura richiedono di fare cose diverse da quelle degli altri, e quindi si tratta di cose che non sono venute in mente a nessun altro. Una buona fonte è comunque cercare di fare qualcosa per cambiare il sistema, anziché per assecondarlo. Per esempio, il sistema universitario incoraggia a diventare professori per poi compiere delle ricerche in determinati campi (e quindi ci provano in molti); scoraggia invece la gente a cercare di cambiare la natura dell’università in quanto tale. 

Ovviamente fare cose come provare a cambiare l’università è ben più arduo che diventare semplicemente l’ennesimo professore. Ma per chi è genuinamente interessato a lasciare un certo tipo di eredità, non sembrano essere molte le scelte a disposizione.

(Post originale: Legacy, dal suo blog Raw Thought, 01/06/2006. Traduzione di Bernardo Parrella)

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La vita nel mondo dell’immoralità diffusa: l’etica dell’esser vivo

Pensavo di essere una brava persona. Di certo non avevo ho nessun essere umano, per esempio. Poi però Peter Singer mi ha spiegato che gli animali hanno una coscienza e per cibarsene dobbiamo ucciderli, fatto moralmente non troppo diverso dal far fuori qualcuno. Così decisi di diventare vegetariano.

Di nuovo, mi consideravo una brava persona. Ma poi Arianna Huffington mi disse che guidando un auto disperdevo fumi tossici nell’aria e finanziavo dittatori stranieri. Così sono passato alla bicicletta.

Ma poi ho scoperto che il sellino era stato cucito in fabbriche che sfruttano la manodopera dei bambini, mentre il telaio era fatto con metalli estratti devastando la terra. A ben vedere, ogni volta che compro qualcosa è probabile che, in un modo o nell’altro, quel denaro finisca per opprimere qualcuno o per distruggere il pianeta. E se capita che guadagni dei soldi, una parte va al governo che se ne serve per far saltare in aria la gente in Afghanistan o in Iraq.

Pensai così di poter vivere solo con quanto si trova nei cassonetti della spazzatura, come fa qualche mio amico. In tal modo non sarei stato responsabile di favorirne la produzione. Ma poi ho capito che c’è chi non esita a comprare quel che non trova nei cassonetti e se avessi preso qualcosa prima di altri, questi poi sarebbero comunque andati a comprarsela.

La soluzione dunque sembrava evidente: dovevo abbandonare le comodità moderne per andare a vivere in una caverna, nutrendomi di semi e bacche.

Probabilmente avrei emesso un po’ di CO2 e utilizzato ancora i frutti della terra, ma forse solo a livelli sostenibili.

Forse non siete d’accordo sul fatto che sia moralmente sbagliato uccidere gli animali o far saltare in aria la gente in Afghanistan. Ma sicuramente si può pensare che possa essere sbagliato, o almeno che qualcuno possa ritenerlo tale. E credo sia altrettanto chiaro che mangiare un hamburger o pagare le tasse contribuisce a queste cose – pur se in misura ridotta, o magari solo potenzialmente.

Anche se non vi sembra così, la vita quotidiana offre un milione di modi più diretti. Personalmente, penso che sia sbagliato sedermi al tavolo di un locale per abbuffarmi allegramente mentre qualcuno trasporta ancora cibo e qualcun altro lavora come uno schiavo in cucina. Ogni volta che ordino qualcosa da mangiare contribuisco a questa catena di trasporti e schiavitù. (Forse costoro ne ricevono denaro in cambio, ma probabilmente preferirebbero riceverlo direttamente da me).

Ancora, forse penserete che non c’è nulla di male, ma spero vogliate almeno ammetterne la possibilità. E naturalmente è colpa mia.

Laggiù nella grotta, pensavo di essere in salvo. Ma poi ho letto l’ultimo libro di Peter Singer. Fa notare che bastano appena 25 centesimi [di dollaro] per salvare la vita di un bambino (per esempio, con 27 centesimi si possono acquistare i sali per la reidratazione orale che salvano un bambino dalla diarrea mortale). Ma forse stavo comunque uccidendo qualcuno.

Per i motivi esposti sopra, non avevo giustificazioni morali per far soldi (anche se potrebbe valere la pena di versare un contributo per bombardare i bambini in Afghanistan onde aiutare a salvare bambini in Mozambico). Però anziché vivere in una caverna potevo fare volontariato in Africa Ovviamente, se scegliessi quest’opzione, ci sarebbero migliaia di altre cose che non potrei fare. Come posso decidere quale mia azione salverà più vite? Anche se prendessi tempo per calcolarlo, sarebbe tempo speso per me stesso piuttosto che per salvare delle vite.

Mi sembra impossibile essere nel giusto. Non solo ogni cosa che faccio sembra causare gravi danni, ma lo stesso vale anche per quel che non faccio. La ragione comune dà per scontato che la moralità sia difficile ma realizzabile: non mentire, non ingannare, non rubare. Appare comunque impossibile condurre una vita moralmente corretta.

Se però l’eticità perfetta è irraggiungibile, sicuramente devo comportarmi come meglio posso. (Dovere implica potere, dopo tutto). Peter Singer è un buon utilitarista, quindi forse dovrei cercare di massimizzare il bene che faccio per il mondo. Ma anche questo sembra uno standard incredibilmente oneroso. Dovrei fare a meno di mangiare non solo carne bensì tutti i prodotti di origine animale.

Dovrei non solo smettere di comprare cibo industriale ma di fare acquisti del tutto. Dovrei prendere dai cassonetti solo quel che è improbabile serva ad altri. E quindi dovrei vivere in un posto dove non disturbo nessuno.

Naturalmente tutte queste preoccupazioni e questo stress m’impediscono di fare del bene nel mondo. Riesco a malapena a fare un passo senza pensare a chi possa nuocere. Così decido di non preoccuparmi per il male che potrei arrecare per concentrarmi soltanto sul fare del bene – al diavolo le regole.

Ma ciò non vale solo per le regole ispirate da Peter Singer. Aspettare in coda alla cassa mi tiene lontano dal mio lavoro di salva-vite (e pagare mi sottrarrà dei soldi salva-vite) – allora è meglio rubare. Mentire, imbrogliare, ogni crimine può essere giustificato allo stesso modo.

Sembra un paradosso: nella mia per fare del bene ho giustificato il fare ogni sorta di male. Nessuno mi ha posto domande quando sono uscito per ordinare una succosa bistecca, ma quando ho rubato una bibita gassata tutti hanno sussultato. Esiste forse un senso nel seguire le loro regole o sono soltanto un ulteriore esempio dell’immoralità dilagante del mondo? C’è qualche filosofo che ha preso in considerazione questa faccenda?


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La Depressione

Sicuramente ci sono stati momenti in cui sei stato triste. Forse una persona amata ti ha abbandonato o un progetto è andato in frantumi. Il tuo volto diventa malinconico. Forse piangi. Ti senti inutile. Ti chiedi se vale la pena fare qualcosa. Tutto quello che pensi sembra squallido - le cose che hai fatto, le cose che speri di fare, le persone che ti circondano. Volete stare a letto e tenere le luci spente. L'umore depresso è così, solo che non viene per nessuna ragione particolare e non va via con una cura precisa. 
Andare fuori a prendere l'aria fresca o coccolarsi con la persona amata non ti fa sentire meglio, solo più arrabbiato di non riuscire a sentire la gioia che tutti sembrano sentire. Tutto diventa contrassegnato dalla tristezza.
Il meglio che potete fare è dire a se stessi che il vostro è un pensiero irrazionale, che è semplicemente un disturbo dell'umore, che dovresti continuare con la tua vita. Ma a volte è peggio. Ti senti come se venature di dolore stanno attraversino la tua testa, tu colpisci il tuo corpo, cerchi una fuga, ma non trovi niente e nessuno. E questa è una delle forme più moderate. 
Come afferma George Scialabba, 'la depressione acuta non dà la sensazione di essere malati, piuttosto sembra di essere torturati ... il dolore non è localizzato; corre lungo tutti i nervi, un fuoco incosciente. ... Anche se uno arriva a stare meglio, non potrà mai credere che finirà, o che qualcun altro abbia mai sentito qualcosa di simile '.
L'economista Richard Layard, dopo aver sostenuto che l'obiettivo della politica pubblica doveva essere quello di massimizzare la felicità, cominciò a scoprire quale fosse l'impedimento più grande alla felicità. La sua conclusione: la depressione. La depressione provoca quasi la metà di tutte le disabilità, interessa una persona su sei e spiega un'infelicità più attuale della povertà. E (importante per la politica pubblica) la terapia cognitivo-comportamentale ha un tasso di successo a breve termine del 50%. 
Purtroppo, la depressione (come altre malattie mentali, in particolare la dipendenza) non è considerata 'reale' sufficiente per meritare l'investimento e la consapevolezza di condizioni cliniche come il cancro al seno (1 su 8) o l'AIDS (1 su 150). 
E c'è, naturalmente, la vergogna.
Quindi spero che mi perdoniate per non essere più attivo. 
Ehi, comunque potrebbe essere peggio. Almeno ho un'assicurazione sanitaria adeguata.

(Post originale: Sick, dal suo blog Raw Thought, 27/11/2007. Traduzione di Luca Tanchis)



The Internet's Own Boy: The Story of Aaron Swartz è un film documentario statunitense del 2014, scritto, diretto e prodotto da Brian Knappenberger.

Sito dedicato alla sua memoria da Bernardo Parrella e Andrea Zanni, in continuo aggiornamento: aaronswartztributo.tumblr.com

Bio:
Aaron Swartz
(Chicago, 8 novembre 1986 – New York, 11 gennaio 2013) è stato un programmatore, scrittore e attivista statunitense, coautore della prima specifica del RSS e delle licenze Creative Commons. Ha cofondato Reddit e il gruppo di attivismo online DemandProgress. Faceva anche parte dell'Ethics Center Lab dell'Università di Harvard. Il 19 luglio 2011 era stato arrestato per aver scaricato 4,8 milioni di articoli scientifici dal database accademico JSTOR. Liberato dietro cauzione, era a New York in attesa di processo, con il rischio di vedersi infliggere una pena fino a 35 anni di carcere, quando si è tolto la vita l'11 gennaio 2013, impiccandosi nel suo appartamento di Brooklyn.