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giovedì 30 maggio 2013

J.E. Confidential: Un'intervista a James Ellroy


James Ellroy , il "Demon Dog" autoproclamato della narrativa americana, è di buon umore quando ci incontriamo di mattina, a New York. «Mi sembra di essermi tolto di dosso il peso di una vita intera», spiega, seduto in una stanza d’albergo. «Ho 61 anni e mi sento come un ragazzino. Tutto ciò che ho sempre desiderato era scrivere delle cazzo di storie meravigliose, avere un paio di cani e scopare donne. Esiste qualcosa d’altro? D’accordo, magari un buon hamburger, ma...». Ellroy è un maestro del cabaret. Nel corso di qualche minuto è capace di deviare bruscamente atteggiamento, dallo spaccone esagerato («Sono il Beethoven del poliziesco») al chiacchierone stiloso («Non riesco a stare in pubblico senza caffeina»), passando per il pervertito impenitente («Sono un maniaco sessuale!») fino al virtuoso devoto alla Bibbia («Sono figlio di un sacerdote scozzese, e credo nel fare sacrifici e nella responsabilità personale nei confronti di Dio»). Conosciuto soprattutto per il suo classico del noir moderno L.A. Confidential, Ellroy è in uscita da Mondadori con “Il sangue è randagio”, l’ultimo romanzo della sua Underworld Usa Trilogy. Il libro completa la sua visione tetra e inquietante dei cancri al cuore dell’impero americano, a metà del secolo scorso (dalla Baia dei porci al Vietnam, fino a J. Edgar Hoover e Howard Hughes), grazie a complotti interconnessi e imprese criminali di agenti dell’Fbi farabutti, sbirri assassini, gangster e killer su commissione. 
L’ossessione di Ellroy per il lato oscuro dell’America risale ai ben documentati traumi della sua infanzia: l’omicidio brutale e irrisolto di sua madre, e la morte pochi anni dopo di quel fannullone del padre. Divenuto adolescente (famose all’epoca le sue incursioni nelle abitazioni femminili per rubare la biancheria intima...), in seguito Ellroy si è unito all’esercito e poi lo ha abbandonato, trascorrendo il decennio successivo in un costante stato di dipendenza da speed e alcol, venendo incarcerato per piccoli furti e vivendo spesso da vagabondo per le strade di Los Angeles. Dopo essersi ripulito nel 1977, mentre si guadagnava da vivere facendo il caddy sui campi da golf, si è rivelato autore di bestseller come “Dalia nera” e “Il grande nulla”, grazie a uno stile brutale che un critico ha descritto come “hard-boiled lasciato sul fuoco fino a bruciare la pentola’. 
Eppure, man mano che la sua fama aumentava, la vita privata di Ellroy s’incupiva. Due matrimoni si sono sbriciolati e lui si è gettato nel suo lavoro, finendo — nel 2001, durante il tour di presentazione di "Sei pezzi da mille" — per prendersi un esaurimento nervoso. «Puntavo eccessivamente in alto, lavoravo troppo», racconta. «E’ venuta su della merda impazzita tenuta repressa troppo a lungo, e mi è finita dritta in faccia». Ora, otto anni dopo, ha terminato il romanzo autobiografico intitolato “La vendetta di Hilliker” (in uscita ad aprile per Bompiani) e si sta godendo la pubblicazione di “Il sangue è randagio”. I protagonisti, che Ellroy chiama “spezza-gambe destrorsi”, ricercano il proprio riscatto nella figura di Joan, un’attivista di sinistra, facendolo assomigliare a tanti altri suoi romanzi: tre uomini ossessionati da un’unica donna, nel corso di un solo libro, voluminoso e insanguinato.



La trilogia Underworld Usa va dal 1958 al 1972, gli anni in cui più hai vissuto nella marginalità, in cui eri tossico e vagabondo. C’è un motivo per cui desideravi scrivere di quel periodo?

«La trilogia deriva dall’aver letto, nel 1988, “Libra” di Don DeLillo. Lì il racconto utilizza quasi sempre il punto di vista di Lee Harvey Oswald: DeLillo lo rende il più grande solitario della storia americana. E’ stata anche la prima volta in cui ho visto, in letteratura, un cretino stupido e malleabile rappresentato con questa empatia e complessità. Mi dissi: «Merda, questo fottuto libro è così bello, che ora non posso più scrivere dell’assassinio di Kennedy». Ma poi ho capito che potevo realizzare una trilogia con tutte le profezie nate dall’omicidio di JFK e creare una narrazione che utilizzasse un’infrastruttura fatta di eventi storici. Dopo la quadrilogia di Los Angeles non intendevo scrivere nulla di poliziesco. Volevo esplorare un tema che definisco “l’incubo privato della politica pubblica”».

Qual è l’incubo privato? 

«I momenti fondamentali della storia americana dal 1958 al 1963 sono ben noti: l’emergere dei movimenti per i diritti civili, l’ascesa di JFK, le stronzate repressive di J. Edgar Hoover, la mafia americana, la crisi dei missili di Cuba. Poi il decennio di rivoluzione nella cultura giovanile, il perdurare dell’incubo del Vietnam, altre bombe, ulteriori folli puttanate della Cia, assassini politici. Lo sappiamo. 
Quella è la politica pubblica. Ma chi è che, là fuori, raccolse nomi, intercettò telefoni, spezzò gambe, estorse, fece i soldi, e non soffrì per la morale perlomeno contorta della situazione? Chi è arrivato al 
punto di non poterne più, e che cosa spinge a desiderare di cambiare? Questo è l’incubo privato. Questo è “Il sangue è randagio”».

E' una trilogia molto oscura. Scriverla ti ha mandato a puttane?

«Sì, completamente. Ho abitato le anime di questi spezza-gambe. Sono stato con loro moralmente e spiritualmente. Ma “Il sangue è randagio” parla della necessità di rivoluzione e cambiamento. Questo libro conduce verso qualcosa di diverso, rispetto ai primi due».

Approfondisce ulteriormente le conseguenze morali di violenza e corruzione?

«Esatto. Rappresenta il momento in cui quelli che sono passati attraverso la merda dal 1958 al 1968 incominciano a parlare di ciò che ha significato quel periodo. Io quello schifo l’ho vissuto. Mi accorgevo di esserci immerso ma a) fino al 1977 ero troppo stonato, e b) ero un totale emarginato. Non sono mai stato uno da rock&roll: ho sempre preferito la musica classica. Non sono mai stato un pacifista; ero un reazionario pronto a mandarti affanculo».

Pensi che sia ingenuo credere che Lee Harvey Oswald abbia agito da solo?

«Credere che non stesse capitando qualcosa d’altro sarebbe un trionfo della logica spaziale e del pensiero empirico sull’immaginazione. Analizzo la teoria dell’unico cecchino e penso: “Secondo me non ha senso sotto alcun aspetto morale, storico o metafisico, per cui semplicemente la rifiuto”. Ed è una storia migliore per come la vedo io, cazzo. Per cui non discuterò dell’unico cecchino, me ne fotto. E allora? Vaffanculo. Chi comanda? Quello che ha la storia più bella da raccontare. E, indovinate un po’?: sono io».

Uno dei tuoi personaggi, il giovane conservatore Don Crutchfield, è così deliberatamente in disaccordo con il proprio tempo da sembrare un tuo alter ego romanzato...

«Sono io, un tipo grande e grosso, con i capelli a spazzola e i pantaloni a sigaretta nel mezzo della Summer of Love, che si domanda perché non riesce a scopare. “Beh, magari se la smettessi di farti le pippe e ascoltassi il rock&roll invece che Beethoven, avresti qualche probabilità in più”. Nel libro, Crutchfield non sa cosa fare per Natale. E’ vergine, ha 23 anni ed è solo. E’ un guardone con due possibilità: andare alla messa di mezzanotte alla chiesa luterana, oppure mettersi a sbirciare le nere nella South Central di Los Angeles. Quello sono io».

Hai ancora quelle tendenze di destra?

«Lo dico per scazzare con la gente. Pensavo che Bush fosse un verme, il presidente americano più disastroso degli ultimi tempi. Ho votato per Obama. Assomiglia a Jack Kennedy, hanno entrambi le orecchie grandi e un sorriso contagioso. Ma Obama è un tipo più profondo. Kennedy era uomo dal grandi appetiti. Voleva la fica, gli hamburger, l’alcol. Si drogava moltissimo».

Allora perché sembra ancora che ti identifichi con gli scagnozzi di destra che crei?

«Sono un cristiano e i miei libri sono storie di redenzione. Ti mostro le conseguenze che le azioni raccapriccianti hanno sul karma individuale. Il più delle volte desidero che, arrivati alla fine, i lettori amino i miei personaggi perché sono riusciti a trascendere. Hanno trovato qualcosa di più grande, profondo e sicuro da un punto di vista morale rispetto a loro stessi».

Hai scritto che Dashiell Hammett aveva catturato perfettamente la concezione americana che il lavoro possa distruggere una persona. E questo che capita ai tuoi personaggi?

«Il cuore dell’arte di Hammett è la figura maschile nella società americana, quella del lavoratore, che si dirige verso il proprio impiego con determinazione incrollabile ed è riluttante a guardare oltre. I miei ragazzi sono così. Sono talmente competenti, cazzo, anche se le loro vite stanno crollando a picco. Sono logorati, ma vengono guidati dal loro innato senso di responsabilità americano. C’è un sottofondo di tenerezza che li indirizza, mentre continuano a svolgere i propri lavori in questo modo tanto spietato».

Il modo in cui dipingi le intercettazioni telefoniche di J. Edgar Hoover è estremamente attuale, soprattutto considerando ciò che è accaduto durante l’amministrazione Bush.

«Non è che cerco di incarnare lo spirito dei tempi. E che voglio fare il finto tonto, è davvero così. Lascia che ti parli della mia vita. Ho 61 anni. Mi tengo molto in esercizio, non bevo, non uso droghe, non dormo troppo bene. I miei interessi sono molto ristretti. Ho un grande appartamento, una gran macchina sportiva. Ho smesso di agitarmi nel tentativo di sposarmi. La regola “Sposa le donne e mettile incinte” con me non ha funzionato. La mia esistenza è diventata matriarcale. Chiacchiero al telefono con Helen Knode, la mia ex moglie, con le mie amiche e colleghe. Non ho mai usato un computer. Non ti sto prendendo per il culo, sono tagliato fuori dal mondo».
                               

La tua vita è stata disastrosa per molto tempo. Hai mai pensato di non farcela?

«Cercavo sempre di andarmene e ho avuto un periodo nero. Ma, coglione com’ero, ho sempre avuto fede. E amavo ridere. Potevo sempre mettermi in un angolo, grattarmi le palle, farmi una sega, tentare qualche impresa da deficiente, tipo preparare la cena o lavare i piatti. Avevo bisogno di trovare la mia strada nel mondo, perché mio padre era completamente pazzo. Questa cosa non mi ha mai fatto arrabbiare. Non ho pensato nemmeno una volta cose del tipo: “Non ho una famiglia”. E l’ho sempre desiderata, però».

Questo è sorprendente. Considerando i tuoi libri, è più facile credere che vedi il mondo come un luogo inesorabilmente oscuro.

«No, no, non sono un misantropo. Sono ottimista. Cavolo, penso che gli esseri umani possano evolversi, col tempo. Mi piace la gente, a distanza (ride). Gli individui hanno la meglio sulla loro psiche e possono liberarsi da orribili modi di essere, mentre il mondo intorno a loro va a puttane. Io ho scelto di fare così».

Nel tuo libro di memorie, “La vendetta di Hilliker”, esprimi il tuo rimorso per aver venduto libri sfruttando l’omicidio di tua madre.

«Ero giovane e insensibile. Ma ora mi rendo conto che io e mia madre non siamo una storia d’omicidio. Siamo una storia d’amore. E quella fondamentale che devo raccontare riguarda le donne. So che se avessi applicato consapevolmente il mio talento e le mie capacità mentali al personaggio di mia madre, sarei stato più ricettivo verso le donne in generale».

Nell’autobiografia descrivi anche la tua insaziabile libido per le donne. Ma, sotto altri aspetti, sei molto puritano.

«Certo, le desidero; ma al tempo stesso sono tenero ed esigente. Non credo che il sesso sia squallido in quanto tale: considero depravazione la mercificazione della sessualità e la sua volgarizzazione. Hanno denudato e reso banale qualcosa di sacro e solenne. Abbiamo bisogno di investire nuovamente nel sesso, farlo meno, aspettare l’ottavo appuntamento prima di metterci a fottere e succhiare».

In “Il sangue è randagio” sembri ossessionato da Joan, l’attivista ebrea di sinistra.

«Ho scritto questo libro per una donna di cui ero innamorato, che si chiamava Joan. E’ stata la prima volta in assoluto. Ho iniziato involontariamente a seguire le donne che le somigliavano. Andavo loro dietro per un po’, poi realizzavo che non erano lei».

Ma continuavi a seguirle?

«Te l’ho detto, alla fine realizzavo che non erano lei e riprendevo la mia strada. Un cazzo di tic mentale».

Guardi ancora le donne di nascosto?

«Già. Sì, lo faccio. Nei giorni festivi resto a casa. Vivo in un palazzo déco al confine di Hollywood. Una volta, stavo spiando questa rossa culona: girava gli hamburger, la sua camicetta si alzava e lei non la tirava giù. Si era piegata parecchio, potevo vedere la spallina del reggiseno. Poi un amico mi ha chiamato dicendo: “Che stai facendo, Ellroy? Vieni fuori, dai, stiamo cucinando”. Gli ho risposto: “Non voglio mangiare nulla, sto spiando la vicina. Lasciami in pace, cazzo”».

Ti fa sentire in colpa?

«No».
                
Con la madre Geneva nel 1958, lo stesso anno in cui fu assassinata.

E questo non ti sembra bizzarro?

«Sono tagliato per starmene in stanze buie a parlare al telefono con le donne, e lavorare. Un mio amico ha chiamato di recente per dirmi: “Ehi, abbiamo un biglietto in più per i Fleetwood Mac”. 
Che cazzo? Piuttosto sto a guardare le mosche che scopano in Alabama. Vivo in un vuoto, in modo da poter tornare indietro il più spesso possibile nelle tasche della storia americana».

Cosa ti ha portato all’esaurimento nervoso?

«Per mesi e mesi sono stato innamorato di una donna sposata che non avrebbe mai lasciato suo marito. Ero semplicemente circondato da quell’enorme vuoto cosmico del cazzo. Si potrebbe dire che è il problema di non poter stare con la persona che ami. Ma più di ogni altra cosa, era la sensazione di trovarsi isolato nell’universo e sapere che morirai».

Pensavi stesse arrivando il momento?

«Ho proprio visto le stronzate di una vita intera fluire fuori dalle mie mani. Stress fisico, sovraffaticamento, l’inconsapevolezza che sgretola, la maleducazione, l’incoscienza. Ho consumato davvero un’eccessiva energia mentale, per troppi anni. Soffrivo di atroci attacchi di panico e di orribili periodi d’insonnia. Ero partito del tutto. Le mie emozioni erano fuori controllo, lo schifo mi rombava dentro a 1000 giri al minuto secondo. Non riuscivo a fermare nulla. E non ero più in grado di controllare niente tramite la scrittura. E’ stato senza dubbio il periodo peggiore della mia vita».

Sei finito in un istituto?

«In più di uno. Ho passato una notte al reparto psichiatrico a Monterey, un’altra in quello di Tucson. Nessuno mi ha fatto del male, ma ero bombardato di farmaci, che posso dirti? Prima di rendermene conto, ero di nuovo al Beverly Wilshire Hotel che mi masturbavo davanti alle foto di Anne Sexton vestita! Una poetessa morta! Ecco quanto sono rovinato!» (Ride).

Hai imparato qualcosa impazzendo?

«Ho capito molto grazie a questo esaurimento. Voglio scrivere libri grandiosi ed essere buono con la gente, oltre che promuovermi senza vergogna. Ma non c’è niente di peggio di una persona ambiziosa priva di controllo. Uno che scoccia tutti, in modo meschino. Nessuno vorrebbe mai avere a che fare con un tipo così».


(di Sean Woods, Rolling Stone Usa, 2009)

sabato 23 marzo 2013

La moglie dell'astronauta: Tom Wolfe, La stoffa giusta


Annie riusciva a scorgere abbastanza facilmente l’imminente catastrofe. Tutto ciò che doveva fare era guardare lo schermo della televisione. Qualsiasi canale... non aveva importanza... lei poteva fare assegnamento sul fatto di vedere una donna che reggeva un microfono ricoperto di gommapiuma nera e che pronunciava un discorso retorico di questo tipo: 
«Dentro questa modesta casa di periferia ben tenuta c’è Annie Glenn, moglie dell’astronauta John Glenn, che partecipa all’ansia e all’orgoglio del mondo intero in questo momento di tensione, ma in un modo assai riservato e assai cruciale che lei sola può comprendere. Un’unica cosa ha preparato Annie Glenn a questa messa alla prova del suo stesso coraggio e la sosterrà attraverso questo esame, e quest’unica cosa è la sua fede: la sua fede nelle capacità del marito, la sua fede nell’efficienza e nella dedizione delle migliaia di ingegneri e altro personale che si sono occupati del suo sistema di controllo.., e la sua fede in Dio Onnipotente...».
Nell’immagine sul teleschermo tutto quello che potevi vedere era quella donna della televisione, con il microfono in mano, che stava in piedi tutta sola davanti alla casa di Annie. Le tende erano tirate, un po’ inspiegabilmente, in quanto erano le nove del mattino, ma tutto appariva molto accogliente. In realtà, il prato, o ciò che ne era rimasto, pareva la Città della Follia. C’erano tre o quattro unità mobili delle reti televisive con cavi che passavano in mezzo all’erba. Era come se Arlington fosse stata invasa da tostapane giganti. Quelli della televisione, con tutti i loro capoelettricisti, fattorini, puttanelle al seguito, cameraman, accompagnatori, tecnici ed elettricisti, facevano avvampare bulbi oculari da duecento watt e rimbalzavano l’uno sull’altro e sulla calca riunitasi di reporter, corrispondenti radio occasionali, turisti, sfaccendati, poliziotti e curiosi idioti freelance. Tutti si sporgevano e si dimenavano e roteavano gli occhi e gesticolavano e brontolavano nell’eccitazione dell’evento. Un’esecuzione capitale pubblica non avrebbe attratto una massa di gente più fuori di testa. Era il genere di folla che avrebbe fatto abbassare il randello al Pazzo Omicida e scuotere la testa e andarsene via, deluso dalle troppe opportunità. 
Nel frattempo, John si trova in cima al razzo, l’Atlas, una bestia tarchiata, il doppio del diametro del Restone. È disteso sulla schiena nella fondina umana della capsula Mercury. Il conto seguita a scorrere lentamente. Le sospensioni si susseguono a causa del tempo. Le nuvole sono così pesanti da rendere impossibile controllare adeguatamente il lancio. Ogni giorno, per cinque giorni, Glenn si era concentrato per il grande evento, solo per ottenere una cancellazione a causa del tempo. Adesso si trovava là sopra da quattro ore, quattro ore e mezzo, cinque ore... stava ficcato dentro la capsula, sdraiato sulla schiena, da cinque ore, e gli ingegneri decidono di cancellare il volo a causa della pesante coperta di nubi. 
È spossato. Fa ritorno all’Hangar 5, e cominciano a togliergli la tuta di dosso e a liberarlo dai fili. John siede là nello spogliatoio con soltanto il rivestimento esterno della tuta tirato giù - ha ancora sotto la maglia isolante e tuffi i sensori attaccati allo sterno, alla gabbia toracica e alle braccia — mentre una delegazione della Nasa fa il suo ingresso camminando all’unisono per metterlo di fronte al seguente messaggio proveniente dall’alto: 
John, odiamo disturbarti per questo, ma abbiamo un problema con tua moglie. 
Mia moglie? 
Sì. Non vuole collaborare, John. Forse potresti farle una telefonata. C’è un telefono collegato proprio qui. 
Una telefonata? 
Del tutto in confusione, John chiama Annie. Lei si trova nella loro casa di Arlington con alcune delle mogli, alcuni amici e Loudon Wainwright, il giornalista di «Life», per assistere al conto alla rovescia e, infine, alla cancellazione in televisione. Fuori c’è la baraonda dei reporter che latrano per avere rimasugli di informazioni sull’ordalia di Annie Glenn e risentiti per il fatto che «Life» abbia l’accesso esclusivo al toccante dramma. Qualche isolato più in là, in una pittoresca via laterale di Arlington, dentro una limousine attende Lyndon Johnson, vicepresidente degli Stati Uniti. Kennedy aveva nominato Johnson suo sovrintendente straordinario al programma spaziale. Era il genere di incarico insignificante che i presidenti affidano ai vicepresidenti, ma aveva un significato simbolico ora che Kennedy presentava il volo spaziale con equipaggio umano come l’autentica avanguardia della sua Nuova Frontiera (versione numero due). Johnson, come molti uomini che avevano ricoperto la carica di vicepresidente prima di lui, aveva cominciato a soffrire la carenza di pubblicità. Stabilisce dunque di entrare nella vita domestica dei Glenn e consolare Annie Clenn per l’ordalia, la tormentosa pressione delle cinque ore di attesa e la frustrante cancellazione. Per rendere quella visita di solidarietà ancor più memorabile, Johnson decide che sarebbe simpatico portarsi dietro la Nbc, la Cbs e l’Abc, sotto forma di un’unica équipe che trasmetterà la scena commovente su tutti e tre i network per milioni di telespettatori. La sola difficoltà — la sola difficoltà per il modo di pensare di Johnson — è che desidera che il reporter di «Life», Wainwright, esca dalla casa, perché la sua presenza provocherebbe l’ostilità degli altri giornalisti della carta stampata impossibilitati a entrare, che non ne ricaverebbero una buona opinione sul vicepresidente. 
Ciò di cui non si rende conto è che l’unica ordalia alla quale Annie Glenn è dovuta sottostare riguardava la possibilità che dovesse uscire fuori a un certo punto e impiegare sessanta secondi o roba del genere per balbettare qualche frase. E adesso... diversi funzionari e agenti del servizio segreto chiamano al telefono e bussano alla porta per informarla che il vicepresidente si trova già ad Arlington, in una limousine della Casa Bianca, in attesa di fermare la macchina e lanciarsi in casa per riversarle addosso dieci minuti di orrendo spirito texano davanti a tutta la tv nazionale. Fatta eccezione per il razzo che esplode sotto John, quella è la cosa peggiore che lei possa immaginare che capiti nell’intero programma spaziale americano.




Dapprima Annie tenta di cavarsela con gentilezza, dicendo che non può assolutamente chiedere a «Life» di andarsene, non solo a causa del contratto, ma anche per via dei loro buoni rapporti personali. Wainwright, non essendo uno sciocco, non ci teneva particolarmente a essere coinvolto in tutta quella storia e perciò si offre di mettersi fuori gioco, di andarsene. Ma a quel punto Annie non è disposta a rinunciare allo scudo di «Life». La sua idea se la è fatta. Sta andando in collera. Dice a Wainwright: «Non lasci questa casa!». La rabbia fa mirabilie per la sua balbuzie. La elimina del tutto, temporaneamente. In pratica, gli sta ordinando di restare. La balbuzie di Annie spesso fa sì che la gente la sottovaluti, e gli uomini di Johnson non si erano resi conto che lei era la moglie di un pioniere presbiteriano che viveva piena di energia nel ventesimo secolo. Quando era furibonda, era in grado di tener testa anche a cinque di loro con soltanto l’aiuto di alcuni amplificatori provenienti dalla collera di Dio. Alla fine, quelli capiscono come stanno le cose. Lei è troppo per loro. Perciò provano a tendere le braccia alla Nasa per cercare qualcuno che le ordini di collaborare. Ma ciò deve essere fatto molto rapidamente. Johnson se ne sta là fuori a qualche isolato di distanza nella sua limousine, fumando di rabbia, imprecando e rendendo un inferno la vita a tutti coloro che si trovano a portata di voce, chiedendosi, esplicitamente, perché cazzo non c’è nessuno nel suo staff che sia in grado di affrontare una casalinga, per l’amor di Dio, e il suo staff chiede aiuto alla Nasa, e la Nasa investe del problema un anello superiore della catena, fino a che nel giro di qualche minuto si arriva al vertice, e la delegazione fa il suo ingresso camminando all’unisono nell’Hangar 5 per incontrare personalmente l’astronauta. 
Dunque, ecco John, che si sta tirando su la maglia imbottita, con i fili dei biosensori che gli spuntano fuori dalla gabbia toracica... ecco John, ricoperto di sudore, tirato, scarico, che comincia a sentirsi molto stanco dopo aver atteso per cinque ore che un centinaio di tonnellate di ossigeno liquido e cherosene RP-1 gli esplodano sotto al sedere… e la gerarchia della Nasa ha una sola cosa in mente: fare felice Lyndon Johnson. Quindi John fa la sua chiamata a Annie e le dice: «Senti, se non vuoi che il vicepresidente o le reti televisive o chiunque altro entrino in casa, allora, per quanto mi riguarda, così sarà, non entreranno.., e ti appoggerò dall’inizio alla fine, al cento per cento, tu digli questo. Non voglio che Johnson o chiunque altro di loro metta un solo alluce in casa nostra!». 
Quello era tutto ciò di cui Annie aveva bisogno, e divenne semplicemente un muro. Non volle neanche più discutere ulteriormente la cosa, e la questione che Johnson entrasse non si poneva più. Johnson, naturalmente, era furibondo. Lo si poteva sentire urlare rabbiosamente e strillare per mezza Arlington, Virginia. Si riferiva ai suoi assistenti. Finocchi! Puttane! Culattoni! Webb a stento riusciva a credere a quello che era successo. L’astronauta e sua moglie avevano sbattuto la porta in faccia al vicepresidente. Webb fece due chiacchiere con Glenn. Questi non volle fare marcia indietro neanche di un centimetro. Fece intendere che Webb aveva passato il limite. 
Passato il limite! Di che diavolo si trattava? Webb non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Come poteva lo stesso numero uno, l’amministratore della Nasa, avere passato il limite? Webb convocò alcuni dei suoi assistenti di più alto grado e descrisse la situazione. Disse che stava considerando la possibilità di cambiare l’ordine delle assegnazioni ai voli — cioè, di mettere un altro astronauta al posto di Glenn. Quel volo richiedeva un uomo che fosse in grado di comprendere meglio gli interessi più generali del programma. I suoi assistenti lo guardarono come fosse pazzo. Non l’avrebbe mai fatta franca. Gli astronauti non l’avrebbero sostituito!... Avevano le loro divergenze, ma su una questione come quella i sette sarebbero stati uniti come un’armata... Webb cominciava a capire qualcosa che fino a quel momento gli era sempre piuttosto sfuggito. Gli astronauti non erano i suoi uomini. Appartenevano a una categoria nuova per la vita americana. Erano guerrieri da duello. Semmai, era lui il loro uomo. 


Si poteva immaginare che cosa sarebbe successo se Webb avesse provato a esercitare la sua autorità nonostante tutto... Arriva la resa dei conti... i sette astronauti Mercury alla televisione... che spiegano che proprio nel momento in cui le loro vite sono messe a repentaglio, lui, Webb, si intromette, cerca di ingraziarsi Lyndon Johnson con le lusinghe, mosso dalla vendetta perché la moglie di John Glenn, Annie, non aveva permesso che l’orrendo strizzamani texano entrasse nel suo salotto a farla reagire emotivamente in modo enfatico sotto l’occhio della televisione a diffusione nazionale... Lui siede nei suoi uffici a Washington mentre le loro pelli stanno appese sulla punta del razzo... Si poteva capire che la faccenda si sarebbe profilata in questo modo. Webb avrebbe smentito, furiosamente... Kennedy avrebbe fatto da arbitro — e non era difficile capire che direzione avrebbe preso la decisione. Il cambio degli incarichi non fu mai più menzionato. 
Non molto tempo dopo, un vecchio amico andò a trovare Webb nel suo ufficio principale, e quest’ultimo si sfogò. 
«Guarda questo ufficio» disse, facendo un ampio gesto a ricomprendere l’intera stanza che conteneva tutti gli status symbol di livello ministeriale annoverati nel corso di studi della General Services Administration. «E io... non riesco… a ottenere che... un... semplice… ordine… venga eseguito! ».

(La stoffa giusta, Tom Wolfe - Ed. Mondadori)
(Un articolo consigliato:The Historic Flight of Mercury 6 )



John Glenn e Annie Castor, 2013