mercoledì 27 novembre 2013

Douglas Coupland, un'intervista sulle interviste


Ho intervistato soltanto una persona in vita mia. Morrissey, a Roma, nel gennaio 2006. 
Nel 2000 sono stato a un passo dall’intervistare Martin Amis, a Vancouver, in occasione del tour di presentazione della sua autobiografia Esperienza. Avevo accettato di farlo perché, beh, perché lui è Martin Amis. E perché così, per una volta, avrei capito che si prova a essere nei panni dell’inquisitore. In realtà ero dall’altra parte della barricata sin dal 1991, ma in quel caso avrei avuto io il coltello dalla parte del manico. Avevo letto la sua autobiografia e preparato un elenco di domande. Era stato più impegnativo di quanto pensassi, perché all’improvviso quello che era partito come un articolo si era trasformato in una specie di compito a casa, e..... io ho sempre odiato i compiti a casa. Il tempo passava. All’una avrei dovuto trovarmi seduto in una stanza con Martin Amis. Ero fottuto.
Ho messo insieme un paio di domande, e mi sono presentato in un ristorante giapponese del centro. Vancouver aveva appena approvato una legge molto restrittiva riguardo al fumo nei luoghi pubblici ma Amis aveva dato la propria disponibilità all’intervista soltanto a condizione di poter fumare. L’imbarazzante preludio all’intervista è dunque consistito nella creazione di una sala fumatori clandestina, il chè faceva molto rockstar, ma non abbastanza da superare il fattore seccatura. Avevamo messo delle vedette alla porta d’ingresso, e tutti si muovevano agitati come fossimo sotto minaccia di una prossima invasione aliena.

Infine Martin Amis è entrato nella stanza, stressato e scorbutico, e mi ha detto: «Non penserai davvero di andare fino in fondo con questa cosa, no?». «No», gli ho risposto, con la sensazione di essere appena scampato al peggio nel migliore dei modi. Dopodiché mi ha chiesto se sapevo dove poter comprare dell’erba, così siamo andati da un tizio che conoscevo, ed è finita che Mr. Amis ha trascorso un piacevolissimo e rilassante pomeriggio senza intervista, giù al porto. 

Con Morrissey le cose sono andate un po’ diversamente. L’incarico di intervistarlo mi era stato offerto da un settimanale inglese assieme a una vergognosa somma di denaro e a un biglietto di prima classe, destinazione Roma. Ora: tenendo presente che la vita raramente offre occasioni divine come questa, se proprio dovete fare un’intervista nella vostra vita, fate in modo che sia con qualcuno di fronte a cui vale la pena di essere intimiditi, che preveda un volo in prima classe fino a Roma e un soggiorno in un hotel a cinque stelle vicino a piazza del Popolo. 

Avevo deciso di accettare, e mi ero preparato al viaggio. La preparazione includeva chiedere al mio medico alcune pillole di sonnifero di nuova generazione che mi sprofondassero in un dolce sonno REM sopra nuvole a forma di gattino e cagnolino. Nessun problema. Ho preso una di queste pillole sull’aereo per Francoforte, e sono stato avvolto da un sonno leggero. Ne ho presa un’altra all’aeroporto Da Vinci, al mio arrivo a Roma, ma non ha fatto effetto: così ne ho presa un’altra ancora e alle nove di sera sono sprofondato nel sonno. Mi sono svegliato alle cinque del mattino, troppo presto per fare qualsiasi cosa. Ho inghiottito ancora un’altra pillola, e mi sono svegliato intorno alle 11 del mattino, lucido e fiducioso. 

Mancavano ancora otto ore all’intervista. Ho passeggiato per la città in preda a una meravigliosa sensazione di acutezza dei sensi, uno stato di oblio simile a quello che talvolta precede l’influenza, bevendo grandi quantità di caffè ristretto italiano per aumentare l’effetto complessivo. 

Tornato in hotel nel tardo pomeriggio, ho ricevuto una chiamata. Morrissey si annoiava, e si chiedeva se era possibile fare l’intervista subito. Annoiato? Che poteva esserci di più tipicamente Morrissey di un misto di irritazione e noia? Bene. Sono sceso al bar dell’hotel per incontrare l’uomo che ha scritto gran parte della musica che aveva definito la mia vita per oltre un decennio. Mi hanno portato in sala da pranzo ed eccolo, seduto a un tavolo, anche se l’unica cosa che sono riuscito a notare era la sua enorme testa. Non un po’ più grande: proprio clinicamente, antropologicamente sproporzionata. Due volte più grande di come avrebbe dovuta essere in base alle dimensioni del suo corpo. Mi ha chiesto di sedermi, e la cosa immediatamente successiva che ricordo sono io al telefono col mio agente, sei ore più tardi, che dico parole tipo: «Aspetta... Che ora è? Eh? Sul serio?». 

Non ricordavo assolutamente niente dell’intervista con Morrissey, tranne (e non ho davvero idea di cosa questo significhi) che stavo parlando di mostri — in particolare del Mostro della laguna nera — e che... uh, oh, sì, avrei comunque dovuto in qualche modo scrivere l’articolo (cosa che ho fatto: l’equivalente giornalistico di guardare dentro a un frigo vuoto cercando un modo per mettere in tavola un’omelette dignitosa). 

Caro Morrissey, se stai leggendo queste righe ti prego di accettare le mie scuse, e — per favore — se le nostre strade dovessero incrociarsi ancora in futuro, dimmi di cosa diavolo ti stavo parlando quella sera a Roma. Oh, e ti prego anche di credere che normalmente non sono uno che parla a vanvera. E che lì era tutto un po’ andato per la tangente. Colpa del jet lag e dei sonniferi di nuova generazione. 



Del resto la maggior parte delle interviste funzionano sempre nello stesso modo. L’intervistato si siede lì, e in cambio di un numero imprecisato di benifici dalla natura incerta, consente a un estraneo di calargli le braghe e attaccare delle sonde al suo corpo, accettando tacitamente di rispondere educatamente a domande scortesi o sconsiderate, mettendo il silenziatore ai propri veri pensieri e sentimenti, e finendo — spesso — per uscirne come un povero scemo. 

Qualche anno fa ho insegnato per un semestre alla Emily Carr University of Art and Design di Vancouver. Tenevo un corso sui media cartacei, e in una lezione abbiamo trattato il tema della fama e di quel che rappresenta. Ho chiesto agli studenti quale fosse il vantaggio principale dell’essere famosi, e la loro risposta mi ha mandato al tappeto: «Il fatto di essere intervistati!». Il buon Dio ci protegga da ciò che desideriamo... Non c’è stato modo di convincerli che le interviste sono spesso un’esperienza disgustosa, sgradevole e brutale: una specie di stupro della mente dai benefici decisamente relativi (la “pubblicità”? Ugh!). 

La mia prima intervista in assoluto l’ho concessa al Los Angeles Times. Un buon inizio. Ma il mio editore era l’unico sulla faccia della Terra che, davanti all’aumento delle vendite dei miei libri, invece di capitalizzare ha detto: «Hmm, secondo me non dura. Smettete pure di organizzare interviste per questo Coupland. Chiunque lui sia». Così, nel momento della mia vita in cui le interviste potevano essere davvero utili, sono stato abbandonato a me stesso. Erano gli albori: registratori a nastro che morivano o non avevano batterie di ricambio; appuntamenti telefonici negli orari più assurdi del giorno e della notte; scarso, quando non inesistente, aiuto della casa editrice nel trattare con i fuori di testa…Ed era prima dei blog, prima dei fan- site, prima di qualsiasi cosa. Dio, non riesco a credere quanto fosse tutto primitivo, low tech e triste. 

(...) La mia politica nei riguardi delle interviste è di non leggere mai quello che scrivono su di me, nel bene e nel male, perché se si crede al bene allora è necessario credere anche al male — rischiando di perdersi in un labirinto di specchi come è accaduto a Courtney Love, che perlustra il pianeta inseguendo ogni molecola di stampa esistente su di lei. Io in genere chiedo a un paio di persone di cui mi fido di leggere tutto quel che esce, e se c’è qualcosa di insolito me lo passano. Fine. 

Una volta, nel 1995, ero in visita in Irlanda, dove vive mia cugina. Avevo dato un’intervista all’Irish Times, ma avevo bevuto troppo e mi ero dilungato in allarmanti dettagli sui demoni che abitavano dentro di me. Una settimana dopo mia cugina mi ha faxato (ebbene sì: faxato!) l’articolo e l’ho letto. Il giornalista si era semplicemente inventato l’intervista. Ogni singola citazione o aneddoto erano frutto di fantasia. Era come se non ci fossimo mai incontrati. È stato allora che ho deciso che non ne potevo più delle interviste vecchio stile — e nel 1995 mi sono iscritto al partito della tecnologia digitale. Sapevo che la svolta stava per arrivare. Usavo il servizio email di Aol e ho realizzato che con le interviste online non esistono citazioni errate: le risposte riflettono davvero la realtà, e il risultato è in genere migliore e più vero. Ho quindi cominciato a concedere solo interviste via mail, e stavo in effetti ottenendo qualche risultato quando i Duran Duran hanno mandato all’aria l’idea stessa dell’intervista via mail quando è venuto fuori che era il loro ufficio stampa a rispondere ai posto loro. Grazie ragazzi!

     

Se digitate su Google il mio nome e le lettere “Q” e “A” sarete sommersi da una quantità imbarazzante di interviste, in gran parte successive al 1998. Apprenderete qualcosa su di me? Sì. No. Sono un intervistato difficile, perché troppo consapevole del processo e troppo poco tollerante davanti a domande noiose o a cui ho risposto molte volte — o davanti alle persone incompetenti. Vai al punto. Non farmi perdere tempo.
Che tipo di persona sceglie di fare interviste? Una domanda che nessuno ti ha mai posto prima può essere molto interessante, e nei casi migliori può anche finire che tu diventi amico del tuo intervistatore: a me è capitato. Devo invece rilevare (con tristezza) che non sono mai finito a letto con qualcuno conosciuto durante un’intervista. Questo non perché manchino gli intervistatori attraenti, anzi: credo piuttosto abbia a che fare con la natura asessuata delle interviste. 

Andy Warhol l’aveva capito. La gente è noiosa. Le macchine sono sexy. Che camicia indossi? Cosa hai mangiato a colazione? Dopo 20 minuti le riposte diventano inevitabilmente stupide. È quello il momento in cui ti chiedono cosa hai mangiato a colazione. I particolari che distinguono una persona da un altra non sono per forza eccezionali, e il 21esimo minuto lo rende fin troppo evidente. Così negli ultimi tempi ho semplicemente smesso di preoccuparmi, e dico esattamente quello che ho in mente. Forse avrei dovuto farlo fin dall’inizio. Magari in questo modo negli articoli sembrerò più antipatico di quello che sono, ma che c’è di male? Essere gentile è noioso. Soffrire della sindrome di Tourette è parecchio più interessante. 

Questo testo è un estratto dalla prefazione al libro Interviews Vol. 2 di Hans Ulrich Obrist (Charta, 2010).

sabato 23 novembre 2013

Sydney Pollack, L'inventore di sogni

con Dustin Hoffman, Tootsie (1982)
In quasi 50 anni di cinema ha diretto capolavori (con due soldi o milioni di dollari), lanciato divi (da Robert Redford a Jane Fonda) e recitato per i più grandi (Kubrick vi basta?). Con “RS”, Sydney Pollack ha chiacchierato di Ferrari, musica country e aerei privati.
Un sabato di fine marzo, nella tranquilla Alba. L’elegante cittadina formalmente nota come la patria del tartufo, del cioccolato e di inebrianti vini rossi, ospita da sei anni un festival di cinema e ricerca spirituale. Intimamente legato alla città e sostenuto da un’importante famiglia di imprenditori locali, i Ferrero. La fondazione che porta il nome degli inventori della Nutella, attiguo alla fabbrica di famiglia, è un edificio solenne, discreto auditorium in pietra bianchissima. Stamattina accoglie il pluripremiato oscar Sydney Pollack per la tradizionale lezione di cinema cui sono invitati gli ospiti illustri dell’Alba Film Festival. Pollack è un disinvolto, gentilissimo signore di 72 anni, nel giro di un paio di giorni sfoggerà un completo all black alla Lou Reed e diverse paia di lucidi stivali da cowboy. Attore, prima che regista, produttore amatissimo dai divi, molti dei quali hanno guadagnato grazie a lui la statuetta dorata.

con Barbra Streisand, Come eravamo (The Way We Were) (1973)
con Robert Redford, Natalie Wood e Charles Bronson, Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned) (1966)
Dopo una mattinata passata a raccontare aneddoti sui suoi film (vi dicono niente I tre giorni deI condor, Come eravamo, La mia Africa, Tootsie, Il socio?) , trovare qualcosa da chiedergli che non lo costringa a ripetersi è dura. Pollack, oltre a essere un vero gentleman, è anche un accorto produttore, non solo di se stesso. Risponde con perizia consumata a tutte le domande. Ha una nonchalance invidiabile nel parlare un momento di budget miliardari e l’attimo dopo delle sue fonti d’ispirazione. «Ho imparato il ritmo da dare ai miei film ai corsi di danza di Martha Graham e Louis Horst». Mi viene in mente che la colonna sonora del suo primo film, La vita corre sul filo, del 1965, era di Quincy Jones. «Ho conosciuto Quincy a New York in un noto locale di musica nera, l’Apollo Theatre. È stata la prima volta in cui ho dovuto cercare di comunicare, da non musicista, con un musicista. È stata un’esperienza dura, non conoscevo il linguaggio, avevo solo sensazioni contrastanti. Quincy mi parlò molto, ho imparato tanto da lui, siamo ancora amici».
Il regista di La mia Africa ha prodotto anche due film con Willie Nelson. Che sia un fan del country? «Non lo ero prima di incontrarlo, quand’ero giovane non la sopportavo. Poi, a fine anni 70, Waylon Jennings, che era a contratto con la Capitol, si propose come attore e mi diede un paio di suoi vinili. Ne ascoltai uno e mi colpì molto un’altra voce che non conoscevo, quella di Willie. Circa due mesi dopo lo incontrai a Nashville. Sapeva che stavo per girare Il cavaliere elettrico e disse che gli sarebbe piaciuto esserci. Due mesi più tardi si presentò nel mio ufficio con una giacca di pelle scamosciata a frange, un paio di stivali da cowboy e le treccine. Chiamai la mia costumista e le dissi: “Guarda, questo è l’abbigliamento perfetto per un personaggio del Cavaliere elettrico!”. Gli diedi una piccola parte ma gli dissi: “Ok, Willie, ma sappi che non potrai andartene in giro fatto tutto il tempo, dovrai imparare delle battute... Non è come un concerto, è davvero noioso”. Ma sul set fu molto professionale. Così gli diedi più spazio e usai la sua musica per la colonna sonora. Diventammo amici, e finii per produrre altri due suoi film; Honeysuckle Rose e Songwriter». L’uomo che ha ricevuto mazzi di rose rosse da Dustin Hoffman che lo pregava di recitare la parte del suo agente in Tootsie, l’amicizia può dire di conoscerla davvero. Quella tra lui e Robert Redford meriterebbe un capitolo a sé in un’ipotetica storia amicale del cinema. «La prima volta che ho incontrato Redford eravamo dei ragazzi, sul set di un piccolo film, il primo per entrambi. Anche lui, come me, era arrivato a Hollywood da New York, dove si stava costruendo una buona reputazione come attore teatrale. Il film era Caccia di guerra. Ricordo la colonna sonora, bellissima, di Bud Shank, un flautista jazz (Pollack non lo dice, ma nel film c’era anche Francis Ford Coppola che faceva una comparsata, ndr). Eravamo entrambi sposati, avevamo dei figli, eravamo coetanei. Anche le nostre mogli divennero amiche. Nel 1965 diressi Questa ragazza è di tutti, con Natalie Wood. Eravamo un po’ preoccupati, perché eravamo amici da qualche anno e pensavamo sarebbe stata dura lavorare insieme. Ma tutto accadde molto naturalmente. Subito dopo Non si uccidono così anche i cavalli? lessi il soggetto di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, e pensai che sarebbe stato insolito ma adatto a lui, che rispose benissimo. Siamo andati avanti a lavorare in questo modo». In effetti c’è una magia nel loro affiatamento. «Le riprese si svolsero nelle montagne dello Utah, a Timpanogos. Lui aveva una casa lì. Mi innamorai del posto e me ne costruii una anch’io. Quando avevamo vent’anni abbiamo fatto film su ventenni, quando ne avevamo trenta su trentenni eccetera. Siamo diventati vecchi così. Non possiamo farne altri perché ormai siamo troppo vecchi…» (ride). Il ricordo va al suo secondo western quasi hippie, quell’inno alla wilderness che è Corvo rosso non avrai il mio scalpo. Leggendario anche per le difficoltà logistiche. Molte scene sono stare girate alla “buona la prima” a causa della neve. Era così alta che non potevamo camminare. Abbiamo preso delle reti metalliche messe per terra e usate come fossero degli scarponi, per non sprofondare. Il problema poi non era tanto per gli attori, quanto per i cavalli, che s’impaurivano e s’aggrappavano a Redford per non sprofondare. Credo di aver girato per circa 52 giorni, che non è tanto per un film d’azione e d’esterni di quel genere. Prima, avevo girato solo un altro film in esterni, Joe Bass l’implacabile con Burt Lancaster, in Messico. Un nuovo management prendeva il controllo della Warner Bros proprio mentre stavo iniziando Corvo rosso, e mi chiesero subito quanto sarebbe costato il film. Quando proposi un budget di 2,8 milioni dissero che il film non si poteva fare, ero pronto a lasciare. Ma Redford era in bolletta ai tempi, il suo compenso era di circa 500mila dollari. Ne aveva già presi e spesi 200mila e non poteva restituirli alla produzione. Continuava a dirmi: “Siamo entrati nel film insieme, non puoi mollare adesso”. Allora lo studio impose di girare una versione più economica, e che ogni dollaro in più che avrei speso sarebbe stato tolto dal mio compenso. Redford fu di grandissimo aiuto. Usammo la sua vecchia cucina per dare da mangiare a tutti sul set. In cambio di uno spot in cui guidavamo una loro auto, mi sono fatto dare delle jeep gratis dalla General Motors. Ho risparmiato con ogni stratagemma possibile.» 

La mia Africa (Out of Africa) (1985)
con Nicole Kidman, The Interpreter (The Interpreter) (2005)
A proposito di difficoltà tecniche, rivedendo qui ad Alba Non si uccidono così anche i cavalli? mi sono chiesta come ha fatto a tenere la continuità tra ballo e musicisti nelle lunghe sequenze musicate. «È stato difficilissimo mantenere il sincrono tra i ragazzi in pista e la band, che in realtà stava facendo finta di suonare, sentendo la musica in cuffia e muovendosi a ritmo con quella. Dovevo sapere su quale battuta musicale si era, e si trattava di una musica pervasiva. Non sono sicuro che saprei rifarlo, oggi». 
Il tempo è pochissimo davanti a questa miniera di storie, devo andare al sodo. Chiedo se è vero che Come eravamo è stato tagliato per censurare gli accenni al maccartismo. «Sono stato io a fare il taglio, e non si è trattato di un disaccordo con la produzione. Avevamo organizzato un’anteprima in cui il film venne accolto molto bene. Fino agli ultimi dieci minuti, quando la gente cominciò ad alzarsi per comprare popcorn. Dato che non si poteva montare come oggi, ma si lavorava solo con della lametta e del nastro adesivo, andai con il montatore in sala, tagliai 11 minuti, rincollai la pellicola. La sera dopo fu un successo». Parlando di vincenti, gli chiedo che fine ha fatto il suo progetto di un biopic su Enzo Ferrari. «Ci lavoro non so neanche io più da quanto, credo 10 o 15 anni. Non ho mai voluto dirigerlo, comunque. Per quanto ami le Ferrari - ne ho guidate diverse nella mia vita - non credo che siano le gare automobilistiche a portare il pubblico al cinema. Ai tempi mi chiese di produrlo Cecchi Gori. Sono stato in Italia, ho parlato a lungo con Luca di Montezemolo. Ho steso una sceneggiatura, l’ho mandata a Michael Mann. Per un po’ è stato lì per lì per farlo, ma poi ha deciso di affiancarsi a me come produttore. Una scusa per tornare in Italia, a mangiare e bere bene e guidare macchine sportive (ride)... Ma non abbiamo ancora il film!».

Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) (1972)
I tre giorni del condor (Three Days of the Condor) (1975)
Una volta ha dichiarato che fare film è rischioso come guidare un aereo. «Fare film costosi con gli studios di Hollywood, come ho fatto io, è molto pericoloso. Perché quando falliscono, non si parla di 2 o 3 milioni di dollari, ma di 50, anche 100. E’ un’industria in cui tutto dipende dal fare film di successo o no. E ovvio che da più tempo sei nel settore, meno dipendi dal sistema. Non ricordo di aver detto che è come volare, ma rende l’idea». Il bello è che Mr. Pollack è arrivato qui pilotando il suo aereo privato (pare sia il modello più veloce dopo il “pensionamento” del Concorde, ndr). Dritto qui, da Los Angeles, con un solo scalo a Roma. «Avevo paura di non vedere Alba dall’alto», dice «ma poi l’ho trovata abbastanza facilmente». Che stile.

Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don't They?) (1969)
con Al Pacino, Un attimo, una vita (Bobby Deerfield) (1977)

(Raffaella Giancristofaro - Rolling Stone, giugno 2007)

venerdì 15 novembre 2013

Fondamenta degli incurabili: Venezia raccontata da Brodskij


Sembrava di arrivare in un paese di provincia, in qualche posto sconosciuto, insignificante — forse al paese natale, dopo anni di assenza. 
Questa sensazione non era dovuta minimamente alla mia anonimità, all’incongruenza di una figura solitaria sui gradini della Stazione: un facile bersaglio per l’oblio. Ed era una sera d’inverno. 
E ricordai il primo verso di una poesia di Saba che in giorni lontani, in una precedente incarnazione, avevo tradotto in russo: «In fondo all’Adriatico selvaggio...». Nelle profondità, pensai, negli anfratti, nell’angolo remoto dell’Adriatico selvaggio... Se appena mi fossi voltato, avrei visto la Stazione in tutto il suo splendore rettangolare fatto di neon e di urbanità, avrei visto le lettere di scatola che dicevano VENEZIA. 
Ma non lo feci. Il cielo era pieno di stelle invernali, come accade spesso in provincia. Da un momento all’altro un cane poteva abbaiare in lontananza; oppure poteva farsi vivo un gallo. Con gli occhi chiusi contemplai un ciuffo di alghe impigliato in uno scoglio — alghe sotto zero che si aprivano a ventaglio contro lo scoglio umido, forse invetriato dal ghiaccio, in qualche punto dell’universo, uno qualunque, non importava. Io ero quello scoglio, e il palmo della mia mano sinistra era quel ciuffo, quel ventaglio di alghe marine. 
Poi un grande scafo piatto, quasi un incrocio tra una scatola di sardine e un sandwich, affiorò dal nulla e toccò con una gomitata, un tonfo, uno degli approdi della Stazione. Un grappolo di persone si gettò di corsa sulla riva e sempre correndo mi passò davanti, su per gli scalini, verso i treni. Allora vidi l’unica persona che conoscevo in tutta la città; la visione fu favolosa.
   

L’avevo vista per la prima volta diversi anni prima, in quella mia prima incarnazione: in Russia. La visione vi era arrivata per soddisfare le sue curiosità intellettuali, cioè più esattamente sulle orme di Majakovskij. Mancò poco che questa circostanza squalificasse la visione, come oggetto di interesse, agli occhi del gruppo di cui facevo parte. Se ciò non accadde, il merito fu delle proprietà estetiche della visione. 
Alta quasi un metro e ottanta, esile, gambe lunghe, viso sottile, capelli castani, occhi a mandorla, pupille nocciola, un russo passabile e un sorriso abbagliante su quella bocca dalla linea stupenda, fasciata da una superba tenuta di camoscio impalpabile e di seta dello stesso tono, avvolta in un profumo mesmerizzante, a noi sconosciuto, la visione era di gran lunga la più elegante creatura di sesso femminile che avesse mai messo piede — un piede conturbante — nella nostra cerchia. Era fatta della materia che tiene freschi i sogni degli uomini sposati. E poi, era una veneziana. 
Così non demmo troppo peso al fatto che fosse iscritta al PC italiano e alla conseguente simpatia per quei poveretti che formavano la nostra avanguardia degli anni Trenta: questi erano, secondo noi, due aspetti della frivolezza occidentale. Credo che se anche fosse stata una nazista dichiarata, avremmo spasimato per lei ugualmente, e forse di più. Ci lasciava letteralmente a bocca aperta, e quando poi mostrò una certa simpatia per un imbecille della peggior specie che si aggirava alla periferia del nostro gruppo, un babbeo lautamente pagato di estrazione armena, la nostra reazione comune fu di stupore e di rabbia più che di gelosia o di virile rimpianto; benché, a pensarci bene, non sarebbe il caso di arrabbiarsi solo all’idea di un po’ di salsa piccante di un’altra cucina che va ad imbrattare un merletto di alta qualità. Comunque, noi ci arrabbiammo. Perché era più che una delusione: a noi sembrava un tradimento da parte del merletto. 
Per noi, in quei giorni, stile e sostanza andavano di pari passo, indivisibili, come bellezza e intelligenza. Dopo tutto, eravamo ragazzi con la testa piena di libri, e a una certa età chi crede nella letteratura pensa che tutti condividano o debbano condividere le sue idee e i suoi gusti. Così, chi è elegante è dei nostri. Ignari del mondo, dell’Occidente in particolare, non sapevamo ancora che lo stile si poteva comprare, che la bellezza poteva essere una merce come un’altra. Per questo la visione ci appariva come la proiezione fisica e l’incarnazione dei nostri ideali e principi, e gli indumenti che indossava, compresi quelli trasparenti, appartenevano alla civiltà. 
Quei concetti erano così indivisibili, e la visione così bella, che anche lì, a Venezia, a distanza di anni, pur appartenendo ormai a un’età diversa e in un certo senso a un Paese diverso, cominciai a scivolare inavvertitamente nella vecchia mentalità. La prima cosa che chiesi alla visione, sul ponte del vaporetto, mentre la folla dei passeggeri mi schiacciava sulla sua pelliccia di nutria, fu la sua opinione sull’ultimo libro di Montale, Mottetti. Il lampeggiare delle sue ventotto perle, un lampo ben noto, accompagnato dall’accendersi di una scintilla sull’orlo della pupilla nocciola e subito proiettato in alto, verso l’argenteo baluginare della Via Lattea, fu tutta la risposta alla mia domanda; ma era già tanto. Forse lì, nel cuore della civiltà, fare domande sull’ultimo frutto della civiltà era pura tautologia. Forse ero semplicemente poco cortese, visto che l’autore dei Mottetti non era un veneziano.
   

(Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili
Traduzione di Gilberto Forti, Adelphi 1991)