mercoledì 9 aprile 2014

Donna Tartt, l'eccezione culturale

Perla rara della letteratura americana, romanziera coltissima, pubblica dopo 10 anni di silenzio "Il Cardellino".  

     


Donna Tartt è molto di più che una scrittrice cult, di un’eccezione culturale. Appena dopo la pubblicazione del suo primo romanzo nel 1992, entra nel circolo elitario degli scrittori mondiali i cui libri sono oggetto di pari interesse per critici e grande pubblico.
Da allora ha pubblicato solo due libri, l’ultimo dei quali, «Il Cardellino», le somiglia: immenso e fragile, misterioso come questo uccello, dipinto dal maestro olandese Fabritius, che l’ha ispirato. Perchè se ha pubblicato poco, Donna Tartt si fa vedere ancora meno. Ecco perché queste sono confidenze particolarmente preziose di una persona timida che si sente più a suo agio in Virginia, nella sua bella casa in stile sudista dove i suoi cani sono i suoi primi lettori.
Racconta, in questa opera monumentale (quasi 800 pagine serrate che danno l’impressione,una volta finite, di essere il doppio senza che mai il piacere di leggere sia venuto meno), la vita di Theo Decker, un giovane newyorkese che perde la sua amata madre proprio mentre insieme visitano il Metropolitan Museum of Art, messo a ferro e fuoco da una bomba.
Ferito ma vivo, Theo soccorre un vecchio che, prima di morire, gli chiede di portare via un quadro di un pittore olandese raffigurante un cardellino per salvarlo dalla distruzione. Theo riesce a riemergere dalle rovine e nasconde l’opera d’arte che la polizia ricerca attivamente.
Comincia a questo punto il lungo racconto del suo percorso nel quale incontrerà una distinta madre di famiglia di New York, una ragazza sopravvissuta all’attentato della quale Theo si innamora, un restauratore di mobili e un trafficante di eroina. E’ una cattedrale proustiana, un canto di morte e di amore e l’affascinante cinguettio del più straordinario scrittore-uccello dei nostri giorni.




Nel suo nuovo libro cita Camus, Rimbaud e La Rochefoucauld. Parla bene francese. Dove l’ha imparato?

L’ho imparato a scuola. Non lo parlo molto bene ma riesco a leggerlo. In effetti non parlo molto bene neanche in inglese! [Ride.] Mi risulta più facile scrivere o leggere piuttosto che esprimermi a voce in inglese. Provo a leggere un libro all’anno in francese e ci metto un’infinità.


Legge piuttosto dei classici? Balzac? Flaubert?


Balzac, no. E’ un po’ troppo lungo per me. Io affronto testi brevi ma ricordo di aver letto, a scuola, il primo volume della «Ricerca» di Proust in francese. Per finire il libro devo confessare di aver fatto ricorso a una traduzione. In ogni caso la letteratura francese conta molto per me. L’idea del «Cardellino» mi è venuta leggendo il «Mito di Sisifo». Il mio libro si ispira assolutamente alle idee esistenzialiste, di Camus in particolare. «La Caduta» del resto comincia a Amsterdam, come «il Cardellino».


Ma la scrittura di Camus è molto snella. Mai avrebbe scritto un libro spesso e ricco quanto «Il Cardellino»!


In effetti ,se parliamo di stile, ci sono molte differenze. Il mio si avvicina di più al romanzo inglese del XIXesimo secolo, ai romanzi russi anche. Dei grossi tomi in ogni caso.


Il titolo del romanzo fa riferimento a una tela del maestro olandese Carel Fabritius, che rappresenta un uccello nel suo trespolo. Perchè questa scelta?


E’ una piccolo quadro dai molti misteri. Gli storici avanzano numerose teorie a proposito ma nessuna prevale. Attualmente c’è un’esposizione dei capolavori del Mauritshuis alla Frick Collection, a New York, e quando confrontiamo il «Cardellino» alle opere di Vermeer per esempio, ci rendiamo conto di quanto questo quadro sia nudo. Niente decori, solo un piccolo uccellino. E’ un’illusione ottica involontaria : quando ci si avvicina alla tela si vedono molto bene le pennellate. E’ un quadro molto moderno rispetto al suo tempo. 


Quando l’ha visto per la prima volta sapeva che era quello giusto? 


Avevo bisogno di una piccola tela che Theo potesse trasportare facilmente. Poi avevo bisogno di una pittura che potesse parlare a un bambino. All’inizio avevo pensato un’opera di Holbein ma non era adatta. Così, quando ho visto per la prima volta «il Cardellino», in un’asta di Christie's ad Amsterdam, ho subito capito di aver trovato il mio quadro. 
In più non assomigliava affatto a un’opera olandese del XVIIesimo secolo, bensì a una pittura francese del XIXesimo... Questo fatto aggiungeva del mistero senza parlare del fatto che stava per finire tra le fiamme del grande incendio di Delft. La maggior parte degli altri quadri di Fabritius sono andati persi ahimè, solo una dozzina sono stati salvati. E così ho vissuto per dieci anni con una riproduzione di questo quadro appesa al muro, davanti a me. 


Lo stile del quadro ha influenzato la sua scrittura? 


Sì, lo penso. Questa idea, per esempio, di mescolare il vero e il falso, il realismo e l’illusione. E’ il cuore del libro. Alla fine del romanzo ho lasciato andare la punteggiatura. Un po’di forma in meno. E’ in questo spirito che l’ho concepito, per sentire innanzi tutto la pennellata – come nel quadro. C’è anche la catenella che tiene la zampetta dell’uccello. La storia del libro è lì racchiusa: la prigionia, la fuga. Questo funzionava ad ogni livello. 


L'uccello è legato al suo trespolo quanto lei al suo libro? 


Certamente. Tanto più che io scrivo a mano, su dei bloc notes. Il libro è diventato così grosso che alla fine ero circondata da pile di bloc notes. Negli ultimi tre anni specialmente: ero letteralmente intrappolata nel romanzo. 


Come fa a ricordarsi, dopo dieci anni di lavoro, di quello che ha scritto in un capitolo o in un altro? 


Mi ricordo di tutto. Assolutamente tutto. Non mi sfugge neanche un dettaglio. 


Quando parla di dieci anni di lavoro, quanti sono gli anni di preparazione e ricerca, e quanti di scrittura? 


Sono dieci anni di scrittura. E dieci anni di preparazione e ricerca. Tutto si fa allo stesso tempo. Apporto costantemente delle aggiunte e faccio molto avanti e indietro. A dire il vero ho cominciato a scrivere il libro dalla fine. La mia amica romanziera Ann Patchett paragona la scrittura alla preparazione di un soufflé, ed è esattamente così che va per quanto mi riguarda: mentre si scrive si aggiungono delle informazioni come il bianco dell’uovo alla pasta. E finisce per prendere corpo. 


Non guadagnerebbe molto più tempo con un computer? 


Ho iniziato a scrivere e a pubblicare poesie all’età di 13 anni. Poi le novelle ma non ero troppo entusiasta neanche di questa forma. Quando sono passata al romanzo ho intuito di aver trovato la mia forma espressiva ideale. Le mie abitudini però erano già radicate, perciò ho continuato con i bloc notes. Uso il computer per trascrivere io stessa il contenuto dei bloc notes in forma dattilografica.

     



Come è diventata scrittrice?

Disegnando. Quando avevo cinque anni disegnavo, scrivevo delle storie. Piano piano i disegni hanno lasciato il posto alle sole storie. Ho ancora dei blocchetti di quando avevo dieci o undici anni. Pagine e pagine su quello che avevo mangiato a cena, su ciò che il gatto aveva fatto, le prof che detestavo,una discussione a scuola. Era veramente il diario della mia vita quotidiana.
Oggi continuo a farlo ma non è più un diario propriamente detto. Sono presenti meno elementi autobiografici e più descrizioni di scene, trascrizioni di conversazioni o di cose che potrebbero dire i miei personaggi. Talmente che nei miei appunti più recenti non sono più io che parlo ma Theo, Boris, tutti i miei personaggi.

Era una brava allieva a scuola?

No, non valevo nulla! La scuola mi annoiava molto. Odiavo la matematica. Poi ho cominciato a partecipare a dei concorsi di scrittura e a vincerli. Era veramente l’unica cosa che ero capace di fare.

Quali libri, all’epoca, l’hanno segnata?

«Peter Pan». C’è d’altronde un po’ di Peter Pan in ciascuno dei miei libri. Più tardi, il primo autore per adulti che ho letto è Edgar Allan Poe. Lo adoravo a 12 o 13 anni. E Stevenson. L'altro libro che mi ha molto impressionata è «Doctor Jekyll e Mister Hyde». I temi dello sdoppiamento, della colpa, mi hanno molto colpita. Il primo romanzo russo a 17 anni fu «Delitto e Castigo», poi ho più o meno divorato tutti i romanzi di Dostoevskij. Tolstoj, in età più adulta. Da adolescente, trovavo quelle storie matrimoniali molto noiose.

L'esplosione che descrive, al Metropolitan Museum di New York, ricorda l’11 Settembre. Si è ispirata alle immagini degli attentati per queste scene?

A dire il vero avevo già cominciato la stesura del libro prima dell’11 Settembre. La scena era scritta. Io mi sono ispirata piuttosto all'attentato di Oklahoma City, precedente a quello del World Trade Center.

Bisognerà aspettare dieci anni per leggere il suo prossimo libro?

Spero di no! Ci sto lavorando. Ma non pensavo, iniziando questo libro, che mi prendesse così tanto tempo! Pensavo di raccontare solamente l’infanzia del mio eroe, non la sua maturità.

Scrive più volentieri a New York o in campagna?

Tutti e due. Ho una vecchia casa nel Sud, vecchia in ogni caso per gli Stati Uniti, del 1800. Ma ho scritto buona parte del libro a New York. Ho scritto praticamente tutto il mio primo libro a New York.

Può descrivere la stanza nella quale lavora?

In Virginia lavoro in un mezzanino. E’ una stanza minuscola, come una cella, sotto il portico. Era la camera degli schiavi e mi sembrava logico utilizzarla come ufficio per scrivere. E’ piena di carte. Anche i miei cani ci stanno - tutto il mondo chiuso al suo interno. Le finestre sono così basse, all’altezza dei fiori. Io lavoro in una scrivania da bambino che ho comprato a un’asta. Mi piace utilizzare la penna a sfera perchè scrivo sui due lati e non passa attraverso la carta. Immaginate la scena: io e i miei cani mentre riempio i miei bloc notes come una forsennata!


Articolo e intervista di Didier Jacob, Le Nouvel Observateur

Traduzione di Ilaria Cervone  (Articolo originale)



    

Romanzi:
The Secret History / Dio di illusioni (1992, Alfred A. Knopf)
The Little Friend / Il piccolo amico (2002, Alfred A. Knopf)
The Goldfinch / Il cardellino (2013, Little, Brown and Company)

domenica 6 aprile 2014

Intervista: DyE

Ricordate quel video un po' romanticheggiante su uno sfondo di pop sensuale che fece fremere le giovani coppie dal cuore fragile? Ebbene, l’autore di quella dolce melodia ritorna, tre anni dopo l’uscita del suo primo album, Taki 183. Scordatevi la sua straripante malinconia, DyE ha accelerato i battiti. È un nuovo album fresco e frizzante. Si chiama Cocktail Citron.
Incontriamo l’autore.



Juan (Juan De Guillebon, ndt), perchè questo nome, DyE?

Ho pensato a lungo ad uno pseudonimo: cercavo qualcosa di elettrico, flashy e grafico, un po' estatico, anche.

Dopo il tuo pezzo rivelazione, “Fantasy”, come vedevi il tuo futuro presso Tigersushi (etichetta dell’autore, ndt)?

Mi ha dato molta più sicurezza. Dopo il successo del video la label mi ha proposto di fare un nuovo disco per il quale abbiamo lavorato due anni in studio. Ci sono state molte collaborazioni, per esempio con Egyptian Lover o Joakim, che ha mixato alcuni brani. Avevo davvero voglia di coinvolgere gli amici per creare questo disco e di uscire dallo stereotipo del tizio che fa tutti i suoi brani da solo. Ho registrato delle linee di vera batteria, di chitarra, basso elettrico e sintetizzatori. Ci si ritrovano voci differenti, è stato davvero un piacere lavorare in questo modo.



Oggi il tuo nuovo album è pronto, cos’è cambiato rispetto a “Taki 183”? I tuoi modi di fare, le tue influenze?

Il primo disco era molto malinconico, molto sperimentale e quasi al limite del suicidio (ride). Il secondo è nettamente più happy, è un disco a 123 BPM. Ho cacciato via certi demoni e mi sono liberato dal peso dell’adoloscenza. Per quanto riguarda le mie influenze, mi sono molto ispirato a certi gruppi degli anni 2000 come Miss Kittin & The Hacher, Lo-Fi-Fnk, Mr Oizo o MGMT.

“Cocktail Citron” parla di incontri d’amore, c’è una ragione particolare?

Sì, il pezzo che dà il titolo all’album parla del mio incontro con Angie David, che è una scrittrice con la quale attualmente condivido la mia vita. La voce del pezzo è la sua, come il testo, del resto. Devo ammettere che è il mio pezzo preferito! È la nostra "Melody Nelson", per questo brano ci siamo principalmente ispirati ad artisti degli anni ’80 come Elli et Jacno o Etienne Daho.



La tua musica è stata definita “universale”. È davvero ciò che cherchi mentre componi?

Non ci sono veri e propri compromessi di partenza: resto propositivo, se riesco a coinvolgere delle persone allora tutto ha il suo senso. È l’idea della Pop Art. Sono soprattutto i fans a spingerti al rinnovamento. Per due anni ho ricevuto dei messaggi che mi chiedevano se fossi morto.. ti mette voglia di far risplendere il tuo lavoro. Quando è uscito Fantasy mi son detto che che non avesse funzionato avrei potuto tranquillamente smettere. La storia di questo pezzo e il successo del video di Jéremie Perrin hanno fatto che non avessi altra scelta se non quella di continuare.

Un altro clip da 47 milioni di visualizzazioni?

Magari di più!!




Traduzione: Carlo Ligas