domenica 8 settembre 2013

«Sono Delfini, vi annuncio la fine del mondo». Antonio Delfini: Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo.

Ceux qui pleurent
Ils pleurent

Quelli che piangono 
Piangono

(Modena, albergo Reale, 26 novembre 1955)
  

Mentre nel ‘57 esce, con undici anni di ritardo e finalmente libero da censure, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e, nel ‘58, postumo, Il Gattopardo, Delfini sta elaborando quel brodo di coltura dentro il quale mettere a fermentare - germoglieranno nel ‘60 - le sue poesie più note, quelle raccolte in Poesie della fine del mondo, dove per mondo si intendeva tutto quello che scientificamente aveva proclamato di rifiutare fino ad allora. 
Coltiva un’accidia per quei tempi nuovi, per quell’inizio di tutto che a lui sembra già una fine: «Non ero più nessuno. Ero stato raccolto, spremuto per quel pochissimo che valevo materialmente e gettato via. Non ero laureato, non ero andato a scuola, non sapevo scrivere, e, nonostante la mia vanità di credermi un individuo d’eccezione, dovevo considerarmi un povero stupido borghese ambizioso...».

La Storia con tutto il suo carico di noncuranza per le sorti degli uomini vìola la cassaforte del suo custoditissimo immaginario, arrivano «i tempi più tristi, il virgineo partito dominante». Arriva il boom economico che per lui è già sboom: «... c’è l’illustre castrato / generale avvocato di culano / che quando parla tiene in mano / un finto cazzo levigato... di più: Liberali sol di nome / liberisti a tornaconto / sanno dire “all right welcome” e far sempre il finto tonto...». 
Parrebbe un improvviso risveglio padano, una linea di quella febbre conservatrice che aveva preso anche Guareschi: «Questa cantata a voci tristi / è dedicata a comunisti e democristi...». Quel territorio franco della Storia dove si archivia ogni restaurazione. Ma è solo disillusione. Quando gli altri gioiscono Delfini deve piangere, è la sua natura. Quando la Nazione risorge lui la mette in guardia e si sa che gli annunciatori di sventure prima o poi finiscono per aver ragione.

Ecco perché le Poesie della fine del mondo racconteranno un’apocalisse privata: 
«Né laico, né prete / intendo votare, / ho sempre sete, / voglio chiavare...», ma anche:«Monarchico anafilattico,/ allergico repubblicano,/ idiosincratico socialdemocratico./ Rimasto son solo, / ho preso lo scolo: / Non voterò!». 
Nella prefazione alla sua raccolta principale, il 29 aprile del 1960, Delfini stesso spiega che trattasi più che di canzoniere di un anticanzoniere «l’anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere».

Tuttavia invocare la fine del mondo è un atto che lo inserisce in un quadro specifico della mentalità emiliano-romagnola se è vero che esattamente nel 1960 Cesare Zavattini sta terminando la sceneggiatura di un film per Vittorio De Sica che si intitolerà Il giudizio universale. Anche nella storia immaginata dal luzzarese si parte dal presupposto che ogni letizia per i tempi nuovi è infondata, e che quella che ci sembra l’alba di un giorno qualunque non sia nient’altro che l’ultimo giorno dell’umanità. 

Ma la fine del mondo di Delfini è altra, un abisso di disillusione, fino a ipotesi di catastrofe. Catastrofe di senso non certo geologica o tellurica, ma non per questo meno dolorosa: «non è il disastro che conta, / è l’assente sospiro che monta...». Il balletto di Zavattini era una sorta di esorcismo, quello di Delfini è una danse macabre di minacce che ritornano, anzi che non se ne sono mai andate: «Le signore non uccise nel quarantacinque / sono ricomparse felici e spensierate...». [..] il Linguaggio si scioglie, si fa feroce, cresce il turpiloquio: «“Viva la f...!” / grida il popolo emiliano. / Sfonda una diga...».

Nel canzoniere, anticanzoniere, Antonio Delfini dimostra la magia immortale del suo poetare. Quell’andare per strappi, quel correre e poi, d’improvviso, fermarsi, a prendere fiato, a cogliere un fiore, a dare di corpo, a guardare altrove. Quell’insopportabile, affettuoso, accidioso che vuole disperatamente essere amato: «Vi voglio un bene terribile / un bene risoluto e costante...».

 

Verso la fine del ‘62, Delfini viene ricoverato all’Ospedale di Modena per problemi cardiaci. Viene dimesso poco dopo, rimesso a nuovo dicono. Il 23 gennaio 1963 a Modena si festeggia la fine del carnevale, migliaia di persone in piazza schiamazzano mentre Antonio Delfini muore. Gli altri festeggiano e il poeta muore.
La raccolta I racconti uscirà poco dopo, per i tipi di Garzanti, e vincerà, per quell’anno, il Premio Viareggio, solo premio importante mai concesso a Delfini, e primo segnale di quell’affetto pubblico che andava da sempre cercando senza ammetterlo. Ma lui non ci sarà per ritirarlo. La sua morte non sembra in contraddizione con la sua vita: in tempi non sospetti, non si sa quanto sinceramente — vai a capire quanto possa essere sincero un poeta — il nostro aveva scritto: «Sento che potrei tacere benissimo». 

(Dalla prefazione di Marcello Fois)



Sono stanco

Sono stanco di parlare di te.
Tu sei morta.
Da viva ascoltavi per far dei ricatti.
Tu sempre sognavi e godevi
che morisse d’un colpo il tuo spasimante.
Fai schifo da morta.
Da viva facevi ammalare di cuore
i poeti per il ribrezzo
che sempre facevi a chi ti guardava.
Ma chi ti sognava?
Un vecchio, perseguitato dai preti,
dagli affetti più antichi,
un vecchio d’altri tempi fregavi
tu mai fregata dai vivi.
Forse oggi un morto ti frega
e, anima in pena all’inferno del nulla,
lui che ti frega annota notando:
«Qui è stata fregata la morta
che io morto ho sposato da morta.
Sposati studiammo la psicanalisi
e sepolti restammo intrisi nel nulla».
Parlando di te parla il vuoto.
Già tu non senti. E il vuoto sul vuoto.
Io solo ormai vivo — e non più morente
posso sentire il vuoto che te morta
vai vuotando nel vuoto del morto.
Era un morto da vivo.
Tu eri morta dapprima.
Eri morta dal tempo dei nonni
che morti pensarono di mettere al mondo
il gran morto: il padre tuo che fu beccamorto,
Il tuo corso di vita (è un imbroglio?)
fu più corto del regime Badoglio:
perché nel frattempo contavi
(ricordi? Non puoi ricordare!)
i soldi che intanto rubavi a colui che vita ti diede
quando pensoso di te stava assente,
Quarantacinque giorni sono stati
ma i tempi — tu sai — li ho contati.
Ebbi parvenza di averti vista in salotto
con la seggetta antica rubata dal morto,
Non più di ventiquattr’ore.
E’ un po’ poco (lo ammetti?)
stare al mondo una sola giornata,
fregare e non restare fregata!
Non lo sai — e mai lo saprai:
la vita è pur breve.
Ci si muore oppure ci si vive.
Ma da morti, come tu che sei morta,
non si vive e neppure si muore.
Povero vuoto sei tu!
Solo un poeta surrealista italiano
poté dar vita al vuoto inumano
che prese dal nome tuo infame
la mala sorte di immagini grame,
Quanto mai lune e razzi lancerò
per trovare il punto del tuo vuoto!
Da domani voglio riposare un po’
- ti giuro – e tornare andare a nuoto:
quando proprio più non ne potrò
farò il morto e…forse ti vedrò.

(Roma, 14 agosto 1960)
(Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo - Ed. Einaudi, 2013 - Collezione di poesia pp. XXX - 234)