martedì 30 maggio 2017

Donald Fagen, dal Volo Notturno agli Steely Dan - intervista di Massimo Cotto


«Il viaggio è tutto, nella musica.
La grande musica è quella che non si accontenta di condurti fuori dal mondo e di trasportare la tua mente altrove, ma quella che ti fa diventare protagonista del viaggio. Allora non sei più un semplice ascoltatore che segue con passione più o meno grande il viaggio di qualcun altro, ma entri nella storia stessa, aggiungendo nuovi elementi. L'immaginazione è parte fondamentale del rock ed è fondamentale che il rock venga veicolato da mezzi come la radio perché è lì che l’immaginazione ha carta bianca, è lì che l’ascoltatore diventa co-autore: in assenza di immagini è lui a costruirle sulla base della canzone. L’artista dà la traccia, il fruitore la segue e insieme giungono all’assassino».


A volte ritornano. E, come ogni assassino che si rispetti, ritornano sempre sul luogo del delitto. Anche se si fanno attendere 11 anni.
Tanti ne sono passati da The NightfIy (1982), straordinario viaggio notturno sulle ali di un’America perduta e addormentata sulla musica, a Kamakiriad (1993), viaggio nel cielo del futuro per meglio diradare le nebbie del presente. Altra corsa, altro regalo, come nei luna park dei bambini. E il regalo è una musica bella e intensa che sintonizza il respiro al battito del jazz, al sussurro del soul, al ritmo del rock e del funk; che farà parlare di sè anche se probabilmente non otterrà le sette nomination ai Grammy Awards e i riconoscimenti a non finire che sono piovuti addosso al precedente.
Forse però era meglio non vederlo, Donald Fagen. Lasciare che anche qui fosse l’immaginazione ad avere carta bianca, a costruire, in assenza d’immagini che non fossero le copertine dei suoi due dischi, la nostra immagine di lui. Da vicino, la metà degli Steely Dan non ha nulla del disc-jockey bello e affascinante di The Nightfly, in cravatta e camicia sbottonata, in uno studio radiofonico davanti a un microfono, un pacchetto di Chesterfields, un disco dì Sonny Rollins e un piatto d’altri tempi. E ha poco dell’intrigante turista per caso di Kamakiriad, occhialini da aviatore giubbotto bianco e maglia scura. Da vicino, in felpa blu, jeans e scarpe da basket, appesantito da una faccia gonfia e da una pancia che fanno un po' tristezza, Donald Fagen sembra una rana. O un rospo, che si tramuta in principe solo se baciato dalla musica, ma che attende la sua principessa al centro dello stagno dove è più difficile arrivare. In questi ultimi due lustri, infatti, abbiamo avuto molte notizie, pettegolezzi e voci su di lui, ma pochissimi fatti: qualche produzione, una manciata di articoli di critica musicale scritti per “Premiere”, un pugno di non riuscitissime collaborazioni a colonne sonore come “Le Mille Luci Di New York”, un paio di altre episodiche sortite. 


L'unico nocciolo di questo decennio senza centro era rappresentato dall'estemporaneo lavoro con la “New York Rock And Soul Revue”.

«L’idea è nata in seguito alle insistenze della mia compagna Libby Titus, che produce piccoli spettacoli di cabaret e musica. Mi chiese dapprima se fossi intenzionato ad allestire uno show di jazz blues con Mac Rebennack (Dr. John); poi, dopo aver constatato il mio divertimento, se mi interessasse organizzare una serata in omaggio di Bert Berns e Jerry Ragovoy, due grandi songwriter newyorkesi che stimo da sempre. Convocammo un gruppo di artisti, che comprendeva fra i tanti Michael McDonald. Phoebe Snow, Boz Scaggs e Charles Brown dei Rascals. L'intenzione era di fare tutto in famiglia, tra pochi amici, ma la notizia si sparse velocemente e fummo quasi costretti a suonare in locali sempre più capaci. All’inizio ignoravo le richieste del pubblico, che mi domandava a gran voce vecchi brani degli Steely Dan, poi mi dissi: ‘perché no?’. Cominciai da ‘Pretzel Logic” e andai avanti. Direi quasi che ci presi gusto. Ero rimasto lontano dalle scene per troppo tempo. Era ora di tornare. Terminai il disco e mi ripresentai. Finalmente».

L'omaggio a Berns - di cui citiamo solo quattro dei suoi mille successi: “Twist And Shout”, “Piece Of My Heart”, “Everybody Needs Somebody To Love” , “Under The Boardwalk” - e a Ragovoy - “Time Is On My Side”, “Cry Baby” e decine d’altri brani senza tempo - fu dunque il trampolino per il ritorno. Così, oggi, finalmente è nei negozi il nuovo album di cui sì parla da secoli (Fagen cominciò a lavorarci nel 1987). Ma perché un’attesa così lunga? Che cosa è successo in questi 11 anni?


«Dopo The Nightfly ho conosciuto per la prima volta il blocco dello scrittore. Avevo inserito in quell’album tutto ciò che sapevo e volevo dire o fare. Mi sentivo come prosciugato. Mi ci è voluto del tempo per riempire quel senso di vuoto. Non mi hanno aiutato gli anni Ottanta, così poco suggestivi, torse gli anni più brutti dei quattro decenni del rock. Inoltre: avvertivo forte la necessità di vivere fuori dal mio lavoro, quando fino ad allora avevo vissuto del mio lavoro. Decisi così di allontanarmi per un po’, per provare altre esperienze, ma, anziché trarne giovamento, entrai in una lunga fase critica. Ho conosciuto la depressione e la terapia. Ne sono venuto fuori, almeno credo, ma non avrei mai immaginato che sarebbero stati necessari 11 anni. A volte fatico a crederci».

L’illusione che non sia vero, che non sia passato più d’un mese da The Nighffly dura il tempo di una canzone, la prima, “Trans-Island Skyway”; poi emergono le molte differenze. Kamakiriad è più aggressivo, meno dolce, meno jazzato, meno immediatamente pop. Sembra un tentativo di addizionare il soul degli anni Settanta, saltando a pie’ pari gli Ottanta, per ottenere come risultato una elitaria dance music dei Novanta.

«Musicalmente parlando, Kamakiriad è molto più semplice di The Nightfly. So che in apparenza è proprio il contrario, ma in questo disco ho tentato di pulire il suono. Il problema di molta musica di oggi è che è un prodotto della tecnologia prima ancora che di una mente umana. La tecnologia è importante e preziosa quando è l’uomo a usarla. La possibilità dell’uomo di utilizzare macchine che imitino la voce umana o gli strumenti è un ottimo punto di partenza per ottenere grandi risultati, per vedere nuove frontiere. Molte volte però, l’uomo si lascia purtroppo schiavizzare dalla macchina e diventa lei a scrivere il brano. Le macchine esistono per servire l’uomo, non per diventare sue padrone. Così, in Kamakiriad, invece di riempire di overdubs lo spazio di una canzone ho provato a dare area ai ritmi, se mi concedi l’espressione. La gente è stanca di album dalla produzione pesante, dagli arrangiamenti complessi e dai suoni gonfi. La musica non è solo data dai suoni, ma dallo spazio tra i suoni. È lì che molte volte trova spazio l’emozione».

Belle parole, bellissima filosofia. Per la verità, il risultato non è sempre pari alle intenzioni (o forse è solo il confronto impari con la perfezione assoluta di The Nightfly?), e a volte il motore tossisce e stenta a macinare miglia. E’ soltanto un caso che la porzione di viaggio più affascinante sia quella che fa sosta fra le dune di “On The Dunes”, ballata di desolazione e jazz che risale, unica fra le canzoni appena pubblicate, all’epoca del Volo Notturno? Ma di viaggio si tratta, e non sempre, si sa, i viaggi sono privi di dolore. Che sia un volto diverso, lo si capisce fin dai mezzi di locomozione enunciati nei rispettivi brani d’apertura.
“l.G.Y” evocava il treno, mezzo adattissimo ai sogni e alle fantasie di chi era cresciuto nei remoti sobborghi di una città della costa orientale d'America nei tardi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, “Trans-lsland Skyway” introduce la Kamakiri, macchina da sogno costruita per il nuovo millennio, motore interamente a vapore, fattoria biologica interna autosufficiente (!) per garantire ogni giorno prodotti freschi e genuini, possibilità praticamente illimitate.

«The Nightfly era un viaggio nel passato, nella mia infanzia e adolescenza. La gente lo ha interpretato come un omaggio alla musica che amavo e che mi aveva influenzato, ma non era solo quello. Nel 1982 ero giovane, ricco e famoso, ma il continuo lavoro mi aveva fatto saltare una buona parte della mia giovinezza. Per anni avevo lavorato sempre, anche di domenica, a Pasqua, a Natale, Così, per esorcizzare quella strana sensazione di aver perduto una parte della mia vita, ho provato a ricostruirla in un disco. Un viaggio guidata da Lester the Nightfly un disc-jockey di fantasia che molto mi assomigliava. Ma, una volta completato il disco, provai un’altra brutta sensazione, quella di essermi esposto troppo, di aver rivelato troppo di me. Ero di nuovo nei guai, questa volta seri. Kamakiriad è meno personale, anche perché ambientato nel futuro. Questa volta rischio di meno. Non credo resterò fermo altri 11 anni».

L'azione si svolge in un punto imprecisato del secondo millennio. Il viaggiatore. la cui macchina avveniristica è collegata con il satellite Tripstar (Teologic Routing Satellite), parte senza conoscere la sua destinazione (“come in ogni mito che si rispetti”), con la sola consapevolezza che ne esiste una. La troverà a Flytown, ma solo per mettersi in movimento.


«La vita è il viaggio: il viaggio che dall’innocenza, attraverso prove che contemplano molte perdite e sconfitte. ti conduce alla destinazione finale. Una volta giunto alla meta tocca a te decidere se arrenderti, cedere all’abbandono, oppure ripartire per un’altra destinazione. Non so se posso definirla una morale, ma il senso, uno dei sensi del viaggio di Kamakiriad è questo: ci vogliono molte prove e molto tempo per capire che non esiste un solo punto d’arrivo».

Le otto canzoni sono altrettante tappe del viaggio. Nella prima, il viaggiatore raccoglie una superstite di un incidente stradale e si dirige verso Five Zoos, “dove il sole è accecante e l’acqua bollente”. Nella seconda, la macchina attraversa Splittsville, il paese che vive tre stagioni normali e nella quarta è illuminato dalla controluna, “una luna particolare, che anziché favorire l’unione e l’amore tra uomo e donna, provoca irrimediabilmente la rottura della relazione in corso”. Nella terza si giunge a Laughing Pines, dove una nuova attrazione, Funway, consente di rivivere gli amori passati, ricreando le memorie della vita. Quarta sosta nella Nervous Time di Snowbound, la città della Depressione, dove ogni cosa è tristezza e le uniche luci sono quelle che per sette secondi
Wolf-Tommy accende sul fiume gelato. Nel quinto atto del viaggio il protagonista si ritrova nella sua città natale, ma solo per scoprire che tutte le donne di ieri sono state sostituite dalle Donne di Domani.

«Ho immaginato questa invasione di donne aliene, provenienti da un altro pianeta, che gradatamente sostituiscono tutte le donne della città, non tanto come metafora della donna di oggi. Pensavo più che altro alla degenerazione di un rapporto sentimentale. Quando due persone smettono di amarsi, ma continuano a stare insieme e si allontanano sempre più, ognuno in una direzione diversa, su una nuova strada a cercare nuove emozioni. E una mattina l’uomo si sveglia (ma potrebbe benissimo essere la donna), guarda la sua compagna e non la riconosce più. Un’altra l’ha sostituita».

Due le tappe rimanenti - “Florida Room” (‘dove lei è ‘unica che può riportarmi alla vita quando la città gela”) e “On The Dunes” (‘dove ho visto la mia felicità scomparire lontano con la marea”) - prima di arrivare a Flytown (“dove finiscono la speranza e l'autostrada”) e passare una notte d’incanto, nella “Teahouse On The Tracks” fra Bleack e Divine (cioè fra la Desolazione e il Divino). La mattina dopo, la Kamakiriad sarà di nuovo in strada. Il viaggio non finisce mai. Prima del falso approdo, il viaggiatore affronta dunque sette prove che prevedono altrettante perdite: della vita di chi ti è accanto (“Trans-lsland Skyway”); dell’amore (“Countermoon”); della giovinezza, attraverso l’evocazione degli amori perduti (“Springtime”); della serenità (“Snowbound”); della quotidianità (“Tomorrows's Girls”); del calore (“Florida’s Room”); della felicità (“On The Dunes”). Fantascienza per parlare di realtà? Un viaggio nel futuro come falso movimento?

«Anche. La fantascienza ti concede libertà che altrove ti sono negate. In primo luogo, l’ambientazione della storia del futuro dà la possibilità di parlare del presente con quel distacco necessario a non precludere l’obiettività. Inoltre ti permette, inventando macchine da sogno e oggetti strani nonché città dove accadono eventi speciali, di bacchettare certi mali o esagerazioni del mondo d’oggi. Il miglior modo di fare satira è mescolarla alla fantascienza. Il mio viaggio è interpretabile ad almeno due livelli: letterale e metaforico. Ognuno può scegliere quello che più gli aggrada. Tornando alla fantascienza, non leggo più quanto un tempo ma ho apprezzato alcune cose della nuova frontiera del cyberpunk. Ad esempio, leggo con passione William Gibson, che mi ricorda gli scrittori che leggevo da piccolo: Bester, Dick, Heinlein, Van Vogt».

Dunque Donald Fagen è tornato.

«Se avessi atteso ancora un po’, nessuno mi avrebbe più riconosciuto. Quando chiamavo la Warner, la segretaria mi diceva: “Fagen? Mi può fare lo spelling, per cortesia?”.


E ha chiamato per produrre il nuovo lavoro il vecchio amico, Walter Becker:

«Mi sentivo solo, in studio, così mi sono detto: se devo proprio confrontarmi con un altro, perché non chiamare qualcuno con cui ho già litigato?».

Come Fagen, anche Becker era rimasto lontano dalla musica in prima persona. Se il vecchio compagno aveva trovato divertimento solo in estemporanee passeggiate nel mondo delle soundtrack (“Re Per Una Notte” di Scorsese, “Gospel At Colonus”, musical di Broadway, e “Arthur 2”, oltre al già citato “Le Mille Luci Di New York”) lui si era dedicato alle produzioni (Rickie Lee Jones, Windham Hill, China Crisis...), buoni lavori, ma senza colpi d’ala. Poi la chiamata di Fagen si è allargata, fino a suonare le parti di basso e la chitarra solista e a ritrovare i vecchi stimoli.
Con il ricongiungimento della coppia, le mille voci di New York hanno ceduto il posto a sedere a una voce sola, confermata dagli stessi protagonisti: tornano anche gli Steely Dan. Ancora non si sa con quale nome (Steely Dan, Becker and Fagen o una nuova sigla), ma è certo un tour, che partirà quest’estate dal Grande Paese per giungere in autunno nella Vecchia Europa, si spera Italia inclusa. Il repertorio? Le canzoni del nuovo album di Walter Becker, i brani dei due lavori da solista di Donald Fagen e molti pezzi degli Steely Dan, rimasticati e riarrangiati, Altra corsa, altro
regalo. È questo, forse, dopo l’antipasto di Kamakiriad , il piatto prelibato, il gran fritto misto: non solo gli Steely Dan si riformano, ma tornano a cantare e suonare dal vivo.

« Non succedeva dal 1974 perché non riuscivamo a trovare i musicisti adatti. Molti dei nostri collaboratori erano bravissimi strumentisti, ma per niente versatili, incapaci di passare disinvoltamente da uno stile all’altro, come ci attendevamo da loro. Le canzoni degli Steely Dan erano molto diverse l’una dall’altra, sebbene ad ognuno avessimo fatto indossare il medesimo vestito per rendere riconoscibili noi e loro. Perciò avremmo avuto bisogno di musicisti diversi per ogni canzone, e questo non era possibile, oltre che economico. Non avevamo soldi a sufficienza per scritturare venti band diverse e alternarle sul palco. Così, io e Walter decidemmo di concentrarci sulla composizione e sul lavoro in sala di registrazione».

La band che aveva rubato il nome a un passaggio de “Il Pasto Nudo” di William Burroughs seguitò da quel 1974 ad aggiungere da studio piccoli gioielli alla già bella collana: una “Rikki Don’t Lose That Number”, che divenne il loro più grande hit, con strizzate d’occhio e toccatine di gomito al pianista hardbop Horace Silver; una “Parker’s Band” che era saluto al sax be-bop di Bird; un rifacimento della “East St. Louis Toodle-oo” di Duke Ellington con le chitarre wah-wah di Becker a simular la tromba di Bubber Miley; un quintetto di album belli (anche se a volte controversi) come Pretzel Logic, Katy Lied, The Royal Scam, Aja, Gaucho. Momenti di gloria dove il grande domatore del jazz-pop-rock ammansiva le belve feroci dei testi, oscuri e criptici. Prodotti impeccabili nella forma che ammaliavano chi domandava nitore e rigore formale e che guadagnavano se non l’amore il rispetto anche di chi alla musica chiedeva coinvolgimento totale, emozioni a tambur battente, alternanza di sentimenti, esposizione aperta al pubblico di gioie, dolori e autobiografia.
In fondo, non è mica detto che chi ama Billie non possa riconoscere il valore di Ella.


«Ci hanno sempre accusati di freddezza eccessiva, di grande distacco dalle canzoni, come se scrivere fosse qualcosa che si faceva per passatempo. Ma noi sapevamo e volevamo fare un solo tipo di musica, che magari qualcuno considerava d’élite. Il miglior complimento che mi abbiano fatto è che la musica degli Steely Dan e di The Nightfly sono senza tempo, non necessariamente legate all’anno in cui sono stati realizzate. E’ confortante sapere di essere riuscito a produrre qualcosa che oggi, a distanza di vent’anni non è considerato datato. Adesso vorrei che qualcuno si accorgesse che gli Steely Dan, sebbene usassero spesso accordi e armonie sofisticate, avevano come scopo primario quello di semplificare. Prima sommare elementi diversi - principalmente i suoni e le suggestioni del jazz con la strumentazione tipica del rock e il fascino dei suoni latini - e poi spogliare il risultato delle sue sovrastrutture. Adesso siamo tornati. The Nightfly era il mio passato, Kamakiriad è il mio viaggio nel futuro. Gli Steely Dan tornano ad essere il mio presente».

(Massimo Cotto, Rockstar, luglio 1993)

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