giovedì 29 settembre 2011

Settembre, Meridiani & Paralleli - Playlist Settembre 2011




1.   W'Happy Mama - Zap Mama
2.   Get Out Da Way - Youngblood Brass Band
3.   Somewhere Else To Drive - Los Disidentes Del Sucio Motel
4.   Two Cousins - Slow Club
5.   Claire - Baxter Dury
6.   Dounia - Rokia Traoré
7.   Home Is Where It Hurts - Camille
8.   Simmerdown - Nostalgia 77 feat. Josa Peit
9.  Other Lives - Tamer Animals
10. Trejeitos - Jun Miyake, Arto Lindsay & Zeno Ishida   

lunedì 19 settembre 2011

Habemus Papam, di Nanni Moretti - 2011

Fumata bianca. Decisamente, indiscutibilmente bianca. A dispetto di quanto ci si potesse aspettare, il Maestro affronta quello che entrerebbe di diritto nella cerchia dei nemici storici, per mera semplificazione bipolare o per più sottili tematiche affrontate in tempi più che sospetti, senza fare ricorso alla veemenza già prodigata al momento di mettere in discussione l’altro Totem sociale, quello civile, allora, senza quegli affondi che crudelmente avevano sviscerato la figura politica protagonista de “Il Caimano”. Resta certo perfettamente apprezzabile la fine strafottenza con la quale Moretti varca i confini inviolabili di un mondo agli antipodi del suo, del nostro, un mondo agli antipodi del mondo, recintando però furbescamente il film di un’aurea di tenerezza forse più inattesa che inconsueta. Sono gli strumenti stessi di Santa Romana Chiesa che il regista utilizza in questa sua scorribanda che ha piuttosto il passo della gita domenicale. E’ in primis il concetto di ascensione, pilastro della dottrina, senso unico in direzione della vita eterna, ad essere demistificato in un continuo senso alternato tra sacro e profano, divino e umano, terreno: questo saliscendi senza forzature riesce candidamente a mostrarci l’umanità più intima di un pugno di uomini, tutti papabili, che scivolano dall’alto della loro porpora giù nelle loro più profonde paure carnali, che nei loro pensieri rifiutano, scongiurano, la loro elezione, la sublimazione del loro mandato e della loro vocazione.
Scopriamo, ripartendo dalle paure umane per ritornare verso l’alto della materia divina, le prime tracce della depressione perfettamente dipinte nella Bibbia, per ridiscendere poi a picco nella noia materiale di uomini ormai liberati dal rischio ma costretti ai passatempi più popolari per sciogliere il loro dovere di presenza in un soggiorno obbligato da rendere quantomeno tollerabile. Questi repentini cambi di atmosfera sono sapientemente gestiti dal burattinaio Moretti, tanto dal regista quanto dal personaggio interpretato, che schernisce definitivamente la sacra istituzione ecclesiastica facendole pagare un ennesimo dazio alla storia, obbligandola a subire uno smacco umiliante, costringendola a fare ricorso ad uno strumento tra i più simbolici della modernità, quale la psicanalisi, che rimpiazza con l’uomo ed il suo inconscio la posizione centrale del Divino, rendendola così remissiva quando non trova altra via se non quella di rimettere alla scienza il suo pastore supremo.
Questo avviene tramite un ulteriore appropriazione da parte dell’autore di un elemento secolarizzato della pratica del credo, la confessione, sommessa prima, umanissima ammissione con lo sguardo nel vuoto del passato da parte del pontefice in pectore di aver soppresso una ben differente vocazione che lo possedeva in giovane età, confessione sostenuta nella sua antropica naturalezza da una notevole recitazione di Piccoli, folgorante e puerile allo stesso tempo, adagiata delicatamente su di un rocambolesco parallelismo con Čechov, palesata poi “apertis verbis” in una pubblica ammissione di piazza. Restano lievissime ombre, a voler stigmatizzare da un punto di vista più tecnico il film, lasciate impercettibilmente da un montaggio ripetitivo e scollato delle scene di massa, sicuramente dovuto a delle riprese di non semplice messa in opera sul sagrato di quei luoghi spaziali così protetti invero, meno protetti d’altronde di quelli comuni derisi bonariamente nella narrazione.

Voto: 7
Carlo Ligas
 

domenica 11 settembre 2011

Baby's got bass - intervista a Esperanza Spalding


Il contrasto tra l’Esperanza Spalding che potete vedere sul palco e quella della vita di tutti i giorni non si percepisce immediatamente, incontrandola a colazione, all’indomani del suo concerto sold-out all’ International Jazz Festival di Montréal. Sul palco è luminosa, un esuberante accordo maggiore, fluttuante dietro al suo basso all’ impiedi, gli occhi chiusi mentre canta rivolta verso le luci, un’ evangelista della gioia in varie metriche. Al mattino, invece, ci è apparsa più pacata e contemplativa, quasi schiva. Solo pochi minuti da dedicarci, a causa di un imminente volo per Parigi, poi Praga, poi Montreux, in Svizzera, dove vecchi e nuovi appassionati di jazz già fanno carte false per accaparrarsi un biglietto per assistere al suo concerto, in cui interpreterà Chamber Music Society, l’album che le è valso il primo Grammy come migliore rivelazione mai assegnato ad un(a) musicista di jazz in purezza.

“Mi scusi, ma è stata fenomenale ieri sera.. - le dice una donna seduta al tavolo accanto – insomma.. meravigliosa!” – “Oh grazie!” risponde lei, quasi sorpresa. E’ degna di nota, Esperanza, in quella sala dell’hotel Hyatt’s, forse non tanto per quei capelli che la caratterizzano, legati in un’ elegantissima sciarpa, quanto per il suo sorriso, molto più zen di quanto ci si possa aspettare da una ventiseienne. Quando la fan è uscita di scena, lei ha scosso la testa: “insomma.. non so cos’altro dire..”. “Ieri sera è stata una ventata d’aria fresca, se capisce cosa intendo..” aggiunge Leo Genovese, il suo pianista, che intanto ci ha raggiunti. Il concerto si è aperto con Little Fly, un poema di William Blake che la Spalding ha messo in musica; è il pezzo principale dell’album, comincia con un violino che pettina le corde di seta del suo basso mentre il suo cantato non potrebbe essere più lieve. Il pubblico si è poi letteralmente liquefatto durante l’ emozionante Inùtil Paisagem, una composizione di Antonio Carlos Jobim che Esperanza canta in portoghese. Ad un certo punto ha chiuso gli occhi; “riesco a concentrarmi meglio sui suoni quando il mio cervello non deve dedicare energia alla vista..” dice. Due bis, poi il meritato riposo della band dietro le quinte.


“Ecco la mia famiglia brasiliana! – dice lei, raggiante, nel back stage – adesso sì che ci sono un sacco di capigliature bizzarre!”. Con “famiglia brasiliana” Esperanza intende la famiglia di Milton Nascimiento, il leggendario vocalist brasiliano, presente nel suo album. 
Quindi baci e abbracci e chiacchiere fino a notte inoltrata e al mattino, al momento di fare i bagagli, è insolitamente svogliata, pigra. Ritardando ulteriormente ciò che dovrebbe fare, è salita sulla terrazza all’ultimo piano dell’hotel, ed è lì che abbiamo potuto scorgere meglio “l’altra” Esperanza. Vestita di nero, con le sue lunghe braccia da bassista aperte nel vuoto, ad un angolo della terrazza, col suo sorriso quasi mistico, come un albero maestro che conduce il folle veliero del jazz, in un glorioso mattino di Montréal, poco importa la direzione. Non che sia sempre così tranquilla, specie se è un po’ su di giri: “Nessuno ha il coraggio di dirmelo apertamente ma qualcuno nell’ambiente jazz non crede che il mio sia del vero jazz” si lascia scappare; “credo derivi dal vecchio pregiudizio che se una cosa è popolare, allora non è jazz”. Ma lei lo è. Il suo suonare, classicamente articolato, somiglia al suo cantare: leggero e deciso, incurante di disegnare forzatamente una melodia che definisca la felicità. Pratica lo scat, quella vecchia forma di improvvisazione vocale, così “ventesimo secolo”, fatta di parole senza senso, che i giovani che l’ hanno vista soffiare il titolo di miglior artista rivelazione del 2010 a Justin Bieber devono aver preso per una nuovo tipo di virtuoso cinguettìo. 


Fermo restando che la Spalding non è una che fa rumore, che si mette al centro dell’attenzione: è piuttosto il tipo di persona che si rilassa con le faccende domestiche, pulendo casa, o meglio, case, una nel West Village, l’altra a Austin, profondo Texas. E sappiate che non è sbucata dal nulla: ha lavorato dietro le quinte per la sua intera vita da adulta. E’ cresciuta in un quartiere difficile di Portland, Oregon, frequentando poco la scuola ufficiale ma molto la Northwest Academy. “La nostra vita è determinata da circostanze, incastrate tra belle e brutte esperienze”. Ricorda i suoi primi approcci con la musica, gli album di Belafonte e Stevie Wonder “Li riascolto spesso, specie sotto Natale”. Ricorda sua madre, ragazza madre, di due figli. “Cantava per ogni cosa: quando cadevo, se mi facevo male, se avevo fame, per ogni circostanza mi cantava una canzone. Ogni volta che salivamo in macchina la radio era accesa”. Alla fine, la giovane studentessa di violino strappa un diploma superiore e si iscrive alla statale di Potland, dove suona basso. A Portland, la Spalding era sotto la tutela di Thara Memory, compositore e trombettista che ha suonato con il meglio della seconda metà del secolo scorso, da Dizzy Gillespie ai Commodores. Vince una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston. Nel 2008 il suo album Esperanza viene accolto molto calorosamente da pubblico e critica. Nel 2009 incide Chamber Music Society, un disco che spazia dagli arrangiamenti orchestrali di Gil Evans fino al pop di Bobby McFerrin. Alcuni commenti: John Schaefer disse: “Rappresenta appieno la nuova mescola di generi che fino ad ora non riuscivamo a considerare se non separatamente” – “E’ incredibilmente intelligente, sono più vecchio di lei di un’ intera generazione eppure imparo qualcosa ogni volta che le sto accanto” Lyne Carrington, batterista preferito di Herbie Hancock, che l’ha accompagnata in Chamber Music Society. 

Esperanza è molto critica a riguardo delle sue capacità musicali: “So di non essere un mostro di abilità in quello che faccio. Mi considero ancora una stedentessa. Ho raggiunto un certo livello di efficenza ma certe cose non vanno ancora. La cosa però non mi sconvolge, sono giovane”. Come ricevere un Grammy per un CD jazz semi-sperimentale, il secondo disco del doppio prodotto? Esperanza ci spiega: “Tutto era stato stabilito circa due anni prima, volevo fare un doppio album, un disco con i pezzi più da radio, quelli più cantabili, più accattivanti.. nell’altro invece solo pezzi più sperimentali, più azzardati. Quest’ultimo però fu inciso e diffuso per primo. Credo che a quel punto la mia etichetta pensò che realizzare l’altro sarebbe stato uno sbaglio. Mi sono detta <<almeno andremo in Europa a suonare in qualche Festival>>”. La sua definizione di pezzi da radio è escatologica: “Immaginate un pezzo che fa strabuzzare gli occhi ad una quattordicenne che mastica chewing gum mentre è in macchina con la sorella..” Ci piace immaginarlo anche un po’ venato di jazz, quel pezzo. Qualcosa ispirato da Court & Spark, l’album di Joni Mitchell che annovera la presenza di David Crosby, Graham Nash e Joe Sample al piano. Un pezzo vagamente Stevie-Wonderesco e infatti, sebbene la Spalding sia un’eccellente autrice, una delle sue reinterpretazioni preferite è Overjoyed. Ha anche presenziato al concerto in onore dello stesso Wonder, nonchè alle celebrazioni per l’assegnazione del Nobel a Barrack Obama, live in the White House. “Il presidente è stato gentilissimo, ci tengo a sottolinearlo”. Le piace aprire i suoi show con qualcosa di plateale: a Montreal, poco prima che il sipario si aprisse, si è accomodata in una sorta di salotto predisposto per l’occasione sul palco. Davanti al pubblico poi, ha sorseggiato un bicchiere di vino, si è tolta le scarpe e si è incamminata verso il suo strumento ed il microfono, mentre le luci conferivano un alone celestiale ai suoi capelli free style. “Mi piacciono le aperture un po’ eccentriche, sofisticate. Parto dal presupposto che per la maggior parte delle persone andare ad un concerto rappresenta la parte finale della giornata, ed inoltre è insito nel titolo stesso dell’album, la musica da camera è quella che si ascolta in un ambiente privato, perciò faccio un po’ come a casa mia, mi tolgo le scarpe ed il cappotto, mi verso del vino..”. Ad un certo punto ha tirato fuori il braccialetto rosso, suo marchio di fabbrica. “L’ho preso in un negozio ad un angolo del mio quartiere. La titolare mi ha detto che in Tibet si pensa che il corallo porti successo e felicità, ma non tutti possono permetterselo. Allora usano il vetro. Questo è quindi un amuleto per gente povera, ne regalo uno a tutti i miei amici”.


Della sua vita privata si conosce ben poco, solo che non è certo una da notti selvagge in città: “non sono quel che si direbbe una festaiola, al massimo dei concerti o un cinema”. Oppure a casa, dice, su Skype con gli amici o persa tra le sue letture, attualmente Staying Alive dell’eco-femminista Vandana Shiva e i poemi di Emily Dickinson. “Sono piuttosto introversa, è vero, ma amo la mia compagnia, la mia propria identità, il me personale. E’ così che la mia vita corrobora la mia musica”. Durante la settimana dell’incisione del suo album, in febbraio, passava le sue serate in un locale di Times Square, l’Iridium Jazz Club, a suonare il basso nelle performance di Mike Stern, un chitarrista possente che negli ’80 suonava con Miles Davis. Stern era felice di suonare con Esperanza e l’incitava a sentirsi libera di suonare a suo piacimento, lei che per rispetto preferiva restare più defilata, sul palco come negli arrangiamenti. “Ha un controllo del tempo meraviglioso, amo il suo suonare elettrico, ogni volta è un vero evento”. Mentre Stern improvvisava, la Spalding cantava e suonava e il pubblico sembrava svenire di piacere. “Io ne ero rapito ancora prima di salire sul palco con lei – prosegue Stern – mi ha parlato di Bach, mia madre suonava spesso Bach in casa, quand’ero bambino. Mi ha suonato una fuga in particolare, ma non la riconoscevo. Poi, simultaneamente alle note che faceva col suo basso, ha cominciato a cantare gli alti, cosa che, credetemi, è una vera prodezza. E’ speciale, mi ha davvero scioccato. E’ fantastica”. 


Robert Sullivan, International Herald Tribune Style Magazine


Traduzione di Carlo Ligas