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lunedì 18 novembre 2024

Il Bambino murato vivo, di Emmanuel Carrère

 


Era del tutto prevedibile, ma non ero ancora capace di fare previsioni del
genere, che alla sovraeccitazione maniacale seguisse il crollo depressivo. Un
periodo atroce. Nella fase precedente mi ero esaltato alla prospettiva di un
nuovo libro e di una nuova vita piena di promesse e di conquiste. Avevo
subaffittato il grazioso appartamento in rue du Faubourg-Poissonnière. Avevo
comprato una cassa bluetooth e sottoscritto un abbonamento a Deezer, due
cose che consideravo, stranamente, come le prerogative della mia nuova vita:
prerogative modeste, ne converrete, ben lontane dall’acquisto compulsivo di tre
Ferrari. E ora eccomi solo come un cane, senza una donna o impotente quando
per caso ne rimorchio una, con il colletto coperto di forfora, l’uccello squamato
dall’herpes, incapace di scrivere, senza più un briciolo di fiducia nel progetto di
libro che fino a qualche settimana fa mi sembrava così giusto, così necessario,
così fattibile: bastava, per cominciare, raccontare quello che mi stava
succedendo. Il problema è che non so cosa mi stia succedendo e non sono più in
grado di raccontare né di raccontarmi niente. Per vivere c’è bisogno di una
storia, io non ne ho più. La mia vita si è ridotta a un continuo andirivieni tra il
letto, dove macero in un sudore malsano, e il Rallye, dove passo ore a fumare
una sigaretta dopo l’altra, inebetito, sotto lo sguardo preoccupato della gentile
cameriera cinese, quella che per farmi piacere mi aveva detto che Yoga per
bipolari era un buon titolo. Ancora oggi non posso passare lì davanti senza un
fremito di paura. Per quasi due mesi mi sono a stento lavato e cambiato. Lo
scarico della vasca da bagno si è otturato e io non ho fatto niente per porvi
rimedio, a stento mi sono levato di dosso, per dormire, la mia divisa da
depresso: un informe pantalone di velluto a coste, un vecchio pullover pieno di
buchi e un paio di scarpe da ginnastica a cui ho tolto i lacci come se mettessi
già in atto le precauzioni che presto mi avrebbero imposto all’ospedale
psichiatrico. Non smetto di tremare, gli oggetti mi cadono di mano. Se metto a
posto i vasetti di yogurt nel frigorifero, mi sfuggono frantumandosi sul
pavimento della cucina. Finché si tratta dei vasetti di yogurt, pazienza, ma un
giorno ho provato a spostare di qualche centimetro la statuina dei gemelli che
avevo sistemato su una mensola come su un altare e ho fatto cadere anche
quella. Si è rotta. Sono rimasto per un’ora fermo a guardare sul parquet, tra i
miei piedi, quei due pezzi di terracotta che erano stati il simbolo segreto del
mio amore, e ho pensato che non c’era modo più eloquente per dirlo: stava
andando tutto in frantumi, niente si sarebbe mai aggiustato, era tutto finito.

L’articolo di Wyatt Mason

In quel periodo un giornalista e scrittore americano di nome Wyatt Mason è
venuto a trovarmi per scrivere un lungo articolo su di me per il «New York
Times Magazine». In un altro momento quella visita e l’interesse del «New York
Times Magazine» mi avrebbero fatto molto piacere perché da tempo aspiro a un
maggiore riconoscimento da parte del mondo letterario anglosassone. Ma in
quel momento non me ne importava niente del riconoscimento da parte del
mondo letterario anglosassone, ero messo troppo male per potermi rallegrare di
qualcosa. [...]
Il libro "Vite che non sono la mia", metteva in piazza l’intimità di parecchie persone,
ma prima di pubblicarlo ho fatto leggere il manoscritto a tutti gli interessati, i quali
hanno dato il loro assenso, cosicché il libro, che parla di avvenimenti tristi e anche
terribili, è stato scritto con serenità e rimane di gran lunga il mio preferito
perché mi ha dato l’illusione, condivisa da molti lettori, di essere un uomo
buono. Ma è un’illusione, dico ancora a Wyatt Mason. Non sono un uomo buono.
Mi piacerebbe esserlo, darei la vita e l’anima per esserlo perché ho un elevato
senso etico che mi porta a distinguere con chiarezza il bene dal male e non
colloco niente al di sopra della bontà, e invece no, ahimè, non sono buono e cito
a Wyatt Mason, quante volte l’ho citata, quante volte me la sono ripetuta, la
frase di san Paolo che chiede a Dio, probabilmente il solo a cui si possa fare
questa domanda: «Perché non compio il bene che desidero, ma il male che
odio?». È chiaro che, arrivato a questo punto, Wyatt Mason non considera più le
mie frasi come riflessioni o argomentazioni di un uomo responsabile, ma come
sintomi di un preoccupante stato di sconforto per il quale mostra una
compassione sincera. «È impossibile non accorgersi» scrive «che quest’uomo
estremamente cortese, attento al suo interlocutore, che si sforza di esprimersi
con precisione, che mi offre il tè e mi offre se stesso, per quanto gli è possibile,
in realtà soffre terribilmente». Si concludono così la prima parte dell’articolo e
la prima giornata che abbiamo trascorso insieme, perché trattandosi di un
lungo ritratto, otto pagine sul «New York Times Magazine», io e Wyatt Mason,
che era venuto a Parigi apposta, avevamo deciso che avremmo trascorso
insieme due giorni. Che fare nel secondo? Esaurito il fascino del monologo sul
divano simile a un cane depresso, l’idea era di uscire dalla forma statica e
convenzionale dell’intervista per passare a qualcosa di un po’ più vivace. Per
esempio, fare insieme una cosa che mi piaceva: la spesa al mercato, un pranzo
in un buon ristorante, una partita di calcio... Quando Wyatt Mason mi ha chiesto
se avevo qualche idea, l’ho portato al Rallye sperando che sarebbe rimasto
soddisfatto da questo cliché: il tipico caffè parigino dove lo scrittore parigino va
tutte le mattine a prendere un doppio espresso e un croissant, a osservare gli
altri clienti, in teoria a scrivere su un taccuino. Magari l’idea non era male, ma
ho voluto strafare. Mi sono lasciato prendere la mano dal ruolo dell’habitué e ho
rivolto alla cameriera cinese frasi di una giovialità stridente, che lei ha accolto
come se fossi impazzito. Wyatt Mason ha bevuto il suo caffè, pensieroso, poi mi
ha chiesto se mi piaceva Rembrandt. Penso che pochi rispondano di no a una
domanda del genere e difatti sì, Rembrandt mi piace. Come potrebbe non
essere, anzi, il mio pittore preferito uno che ha passato tutta la vita a scrutare
con ansia la propria faccia? Allora Wyatt Mason ha suggerito di andare a vedere
la mostra di Rembrandt che era stata appena inaugurata al museo Jacquemart-
André. Ho accettato, era sempre meglio di un ristorante da gran gourmet dove
non avrei potuto mandar giù non dico un antipasto ma nemmeno uno
«stuzzichino», come li chiamano, e non so perché ho proposto di andarci con il
mio scooter, invece di prendere il taxi. Più che la mostra di Rembrandt, su cui
non c’è molto da dire, il tragitto in scooter è il clou dell’articolo di Wyatt Mason.
Non è il primo, lo fanno già in molti tra parenti e amici, a descrivere la mia
guida sulle due ruote come prudente, forse un po’ troppo prudente, così
prudente da risultare pericolosa, con frenate brusche quando non ce n’è alcun
bisogno e curve prese con una lentezza tale che lo scooter minaccia di inclinarsi
su un lato, inclinarsi al punto da cadere sotto il peso della sua inerzia. Così
sballottato, sballonzolato, Wyatt Mason, dietro di me, è sempre più teso.
Nell’articolo rievoca il rumore che fa la parte anteriore del suo casco urtando a
ogni frenata contro la parte posteriore del mio, racconta di aver tentato in tutti
i modi di evitare di urtare con la parte anteriore del suo casco contro la parte
posteriore del mio e alla fine scrive una cosa stupefacente, che ancora più di
tutto il resto mi ispira una grande simpatia per lui: «Sarebbe stato molto più
facile se fossimo stati amici. Non sarei stato costretto a irrigidirmi per
mantenere la distanza tra noi, avrei potuto tenermi a lui, non è certo il
comportamento che ci si aspetta da parte di un giornalista nei confronti della
persona che è venuto a intervistare, ma mi dico che in fondo è proprio quello
che avrei dovuto fare: abbracciare quell’uomo così infelice».

Il bambino murato vivo

L’articolo di Wyatt Mason non si chiude con questo brano, notevole sia dal
punto di vista letterario che da quello umano, ma con le frasi: «Per quanto la
perdita, la violenza e la pazzia siano per Emmanuel Carrère quasi
un’ossessione, i suoi libri si avviano sempre verso una conclusione in cui appare
all’orizzonte uno spazio di gioia. La loro forza è che sono scritti da uno che
conosce bene il prezzo di quella gioia». Rileggo queste righe oggi, mentre mi
avvio verso la conclusione del libro che sto scrivendo, e provo a far apparire
all’orizzonte uno spazio di gioia. Ci provo, avanzo a tentoni, non so ancora che
cosa troverò ma credo sia possibile. La gioia, o quanto meno la possibilità della
gioia, è tornata nella mia vita. L’amore, o quanto meno la possibilità dell’amore,
è tornato nella mia vita. Se me lo avessero predetto tre anni e mezzo fa, quando
abitavo in rue du Faubourg-Poissonnière, non ci avrei creduto e avrei trovato
questa predizione addirittura offensiva tanto era fuori luogo. Ero sicuro che la
tristezza sarebbe durata per sempre e che qualora mi fosse capitato di scrivere
ancora qualcosa, eventualità a cui credevo sempre meno, lo avrei fatto per dire
che la tristezza sarebbe durata per sempre, che ci sarei rimasto murato vivo in
eterno. Circa vent’anni fa mi sono imbattuto in un articolo di cronaca
pubblicato su «Libération» che mi ha segnato per tutta la vita: i genitori di un
bambino di quattro anni portano il figlio in ospedale per un’operazione di
routine. Deve uscire il giorno dopo. Ma l’anestesista commette un errore, e il
bambino, nonostante settimane di cure disperate, resta sordo, muto, cieco e
paralizzato. Irreversibilmente, definitivamente. Quando l’ho letto sono rimasto
annichilito dal terrore. Niente mi ha mai fatto così male. Non riuscivo più a
pensare ad altro, non riuscivo più a pensare ad altro che al risveglio di quel
bambino. All’istante in cui ha ripreso conoscenza, al buio. All’inizio è spaventato
ma in cuor suo è ancora convinto che lo spavento passerà presto. I suoi genitori
non devono essere lontani. Accenderanno la luce, gli parleranno. E invece non
succede niente. Non una luce. Non un rumore. Cerca di muoversi, ma non ci
riesce. Di gridare ma non sente neppure la sua voce. Forse si accorge che lo
toccano, che gli aprono la bocca per farlo mangiare. Forse lo nutrono con le
flebo, l’articolo non lo dice. I genitori, il personale dell’ospedale sono accanto al
letto, stravolti dall’orrore, ma lui non lo sa. Impossibile comunicare con lui,
impossibile raggiungerlo. Non è in coma. Sanno che è cosciente, che dietro quel
faccino cereo, contratto, dietro quelle pupille che non vedono c’è un bambino
murato vivo che sta urlando di terrore in silenzio. Nessuno può spiegargli la
situazione, e chi ne avrebbe il coraggio? Nessuno può immaginare cosa succede
nella sua testa, come si racconta quello che gli sta accadendo. Non ci sono
parole per una cosa del genere. Io non ho parole. Io, di solito così facondo, non
trovo il modo di esprimere ciò che questa storia smuove dentro di me. Ma
smuove qualcosa che ho nel profondo, qualcosa che è la sostanza della mia
stessa storia e che mi spinge a credere che la realtà della realtà, la sostanza
delle cose, l’ultima parola non sia lo spazio di gioia inalienabile verso cui a detta
di Wyatt Mason si avviano tutti i miei libri, ma l’orrore assoluto, la paura
inenarrabile di un bambino di quattro anni che si risveglia nel buio eterno.

(tratto da Yoga, di Emmanuel Carrère. 2021 Adelphi, trad. di Lorenza Di Lella, Francesca Scala)

martedì 6 gennaio 2015

Karoo, di Steve Tesich: L'uomo del Millennio


Attraverso la cronaca di un divorzio, Steve Tesich dipinge in Karoo una società americana agonizzante. Un romanzo folle, profetico e geniale.

I grandi romanzi americani stanno al loro paese come un episodio di ER o Nip/Tuck sta al corpo umano: un viaggio selvaggio nei malfunzionamenti della clinica Stati Uniti. Don DeLillo con il suo Libra, William T. Vollmann con Riding Toward Everywhere, sono una mappa anatomica di una società che soffre di una miriade di mali.
Ora, a questa cartina, bisognerà aggiungere Karoo, romanzo postumo del drammaturgo e sceneggiatore Steve Tesich, pubblicato la prima volta nel 1998 e tradotto solo adesso.
La storia di Saul Karoo, script doctor per le situazioni disperate e mercenario di lusso dell'industria cinematografica, non è soltanto il ritratto al vetriolo di una Società dello Spettacolo asservita al mercato. Né Karoo può essere ridotto solamente ad una brillante variazione sulla missione di un cinquantenne che cerca di rimettere in ordine la propria vita. Al di là della cronaca di un esilarante, infinito divorzio con la moglie Dianah, oltre ai suoi patetici tentativi di riavvicinarsi a Bobby, figlio adottivo a lungo trascurato, Saul è soprattutto un caso clinico. Un uomo malato, sintomo di una società malata.
La malattia arriva al cuore della società: la famiglia. Karoo è una elegia grandiosa su una famiglia afflitta dal consumismo generale. Saul ricorda il momento esatto in cui alla coppia era stato dato l'assenso per l'adozione di Bobby: "Il giorno dopo [Dianah], per ben 23 ore, si lanciò in una folle razzia, uno shopping sfrenato; la porta si aprì e lei apparve, sopraffatta dai pacchetti per il bambino. Giocattoli. Vestiti. Coperte. Pannolini. Biberon. Animali di peluche troppo grandi per essere imbustati. "


Ma altri settori della società sembrano covare una degenerazione mortale. Prendete l'arte: il regno dei veri creatori è finito, è il tempo di dominio incontrastato per i rewriters come Saul. Una situazione mortifera come riconosce, non senza cinismo, lo stesso Karoo, e che conduce alla rovina le opere “rimaneggiate”. Prendete l'informazione: degli anni '90, Steve Tesich ha consegnato una diagnosi spietata: "come un tempo nei villaggi, i pettegolezzi erano ancora una volta la forma dominante di comunicazione”. L'informazione si svuota.
La malattia è fatale.
Prima vittima: l'identità di Saul. “Io sono un uomo aleatorio, che vive in un mondo casuale." annota con lucidità, firmando così il certificato di morte della propria individualità. Un altro moribondo catalogato da Saul è "l'uomo morale" in lui: la coscienza che gli avrebbe vietato di svolgere la sua "arte" su sceneggiature che non avevano bisogno di essere rielaborate, e che saranno così solo profanate. Ma questo "uomo morale" è debole, esangue ed incapace di farsi ascoltare.
Come in un attacco di febbre, le sue percezioni sono distorte e le vite dei pazienti in uno stato di confusione permanente.
Karoo è il romanzo dei paradossi, un romanzo dove verità e menzogna diventano indistinti. Anzi, non è più la verità, ma la menzogna a diventare universale: "Le mie bugie sono state il mio legame ultimo con i miei congeneri". Stessa confusione paradossale nel caso della privacy personale, che Saul ravvisa come uno spettacolo: "Il nostro tipo di intimità, - osserva a proposito di Dianah e lui - esigeva un pubblico".
Come se i confini tra vita privata e quella pubblica siano stati aboliti.
L'uomo del ventesimo secolo, è gravemente malato. Ma, per adesso, non soccomberà. L'ipotesi di Steve Tesich è più spaventosa: Saul e la sua gente annunciano l'avvento dell' "uomo del millennio". L'uomo del futuro in cui tutti i valori agonizzanti di Saul sono definitivamente disciolti. Questo uomo nuovo ha un nome: il "Nulla". Più di dieci anni dopo la pubblicazione del romanzo, nel nostro mondo attuale, falso e virtuale, bisogna riconoscere come Steve Tesich fosse un grande scrittore, ma anche un inspirato profeta.

(Traduzione di Luca Tanchis, dall'articolo originale di Damien Aubel su Transfuge Magazine)


Quando prega, Ulisse non prega più Dio, prega piuttosto che Dio resti in vita, perchè il nulla non abbia l'ultima parola.
Quel briciolo di fede che gli era rimasto, al quale si aggrappava con disperazione maniacale adesso è completamente scomparso. Non ne ha più bisogno, tanta o poca che sia.
Al suo posto c'è un amore naturale per tutto ciò che vive. Un amore privo di ogni movente.
Vede il Dio vivente affondare il suo vomere nel nulla e respingerlo con la creazione. Oltre alla nascita del tempo e dello spazio, Ulisse a volte vede, come una pioggia di scintille che si sprigionino da una fucina, una miriade di particelle subatomiche che scaturiscono dal nulla e lo avvolgono da tutti i lati. In quelle particelle, vede la flora e la fauna del mondo subatomico. Ognuna di esse è viva.
Ma non tutto è come immaginava Ulisse quando si era messo alla ricerca di Dio. Lui era sicuro che trovare Dio avrebbe dato una risposta ad ogni sua domanda. Invece no.
Le sue domande sul perchè abbia vissuto come ha vissuto sono rimaste senza risposta. Il grande “Perchè?” è ancora dentro di lui.
Come pure il grande dolore per i tanti crimini che ha commesso. Sperava che Dio avrebbe fatto sparire quel dolore una volta per tutte, ma adesso scopre che nulla è una volta per tutte. Scopre che non si può fare ammenda.
Per quanto Ulisse possa amare, e per quanto ami, adesso sa che neanche un istante di non amore potrà mai essere recuperato.
Mai.
E non può superare l'abisso che lo separa da Dio. Continua a navigare nello spazio e nel tempo creati, ma Dio Creatore è sempre davanti e ne crea sempre di più, e la distanza tra loro non potrà mai essere colmata.
E così Ulisse naviga, seguendo Dio senza alcuna speranza di poterlo mai raggiungere o di arrivare in un posto chiamato casa.
Non sa che rotta segua, ma sa che non è perso nell'universo.
Di tanto in tanto prega.
“Benedetta sia ogni creatura vivente. Padre, madre, fratelli, sorelle, figli della terra, benedette siano le vostre vite, poiché esse sono la gioia del mondo”.
E poi continua a navigare.

tratto da Karoo, di Steve Tesich. Adelphi, collana Fabula 2014 - Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra


Stojan Steve Tesich (Užice, 29 settembre 1942 – Sydney, 1º luglio 1996) è stato uno sceneggiatore, drammaturgo e scrittore jugoslavo naturalizzato statunitense. Ha vinto l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale con All american boys e scritto la sceneggiatura per altri film come Il mondo secondo Garp e Four friends di Arthur Penn.

Steve Tesich al Letterman Show, 1982

mercoledì 26 febbraio 2014

Robert Walser: Giornali parigini



Da quando leggo giornali parigini, i quali emanano un profumo di potenza, sono una persona così distinta che non ricambio il saluto, e neanche me ne stupisco. Con «Le Temps» in mano mi trovo assai elegante. D'ora in poi non degnerò più di uno sguardo la brava gente. I giornali parigini sostituiscono per me il teatro. Nemmeno il ristorante più raffinato onoro ormai col mio piede, tanto sono diventato difficile. Per le mie labbra non passa più neanche un sorso di birra. Il mio orecchio approva ormai soltanto la melodia del francese. In passato amavo ardentemente una signora, una vera lady; oggi la trovo goffa nella misura in cui «Le Figaro» mi ha viziato. «Le Matin» non mi ha reso mezzo matto? Mentre i miei colleghi, nell'odierno tempo di crisi, si stancano a furia di scrivere, io, per merito dei miei giornali, sono imbaldanzito. Un viaggio a Parigi, che mi proponevo di fare, lo considero compiuto, ho imparato a conoscere la capitale della Francia attraverso la lettura. È piacevole essere in buona compagnia. E non ce n'è una migliore dei giornali dei vincitori. Il prodotto linguistico tedesco non trova più alcun favore presso di me. Ho disimparato a parlare tedesco; che sia in qualche modo dannoso?


(tratto da "La rosa", ADELPHI EDIZIONI, traduzione di Anna Bianco, 1992)

venerdì 4 gennaio 2013

La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov / Un saggio di Giorgio Manganelli



No, non so giocare a scacchi; sono goffo con le parole incrociate che non siano di insultante povertà («capitale del Portogallo»); e i rebus sono per me, appunto, dei rebus; aggiungerò — la mia onestà critica è patologica — che non so nulla delle farfalle, che provo nei loro confronti un vago sentimento di ammirazione, di inferiorità, di irritazione. Non sono limitazioni da poco, ed è probabile che siano radicalmente negative per un lettore di Nabokov, grande specialista di scacchi e amoroso di lepidotteri, se le farfalle sono lepidotteri, e anzi scopritore di una razza che ha eternamente consacrato con il suo nome un poco operistico di nobile russo.

Di Vladimir Nabokov, di Pietroburgo, morto nel 1977 a Montreux — un luogo molto nabokoviano per decedere — viene ora ristampato un breve, squisito romanzo: La vera vita di Sebastian Knight. 

Il libro apparve in inglese nel 1941; e già appartiene a quella serie che Nabokov non ritradusse, rifacendoli, dal russo: infatti Nabokov, come il solito Conrad, e il meno consueto Ruffini (qualcuno deve aver pur letto il risorgimentale Lorenzo Benoni), è un perfetto, raffinato, del tutto agiato scrittore in inglese, lingua imparata su grammatiche e da governanti. 

Ho parlato di scacchi e farfalle; e poiché questi temi, direttamente e indirettamente, appaiono in tutti i libri di Nabokov, penso che la ricorrenza di quelle eleganti, assurde, fragili immagini abbia molti e allusivi significati: tra incubo e visione. Ma in primo luogo vorrei indugiare su questa Vera vita: e sono certo che scacchi e farfalle troveranno il modo di venirci incontro. Poiché Nabokov è interessato non tanto alla narrazione, quanto al programma, al disegno del romanzo, la sua macchina, dovremo in primo luogo occuparci di questa. Una definizione decorosa di questa macchina potrebbe essere: complicata e inutile. 

I due aggettivi vanno goduti in coppia: infatti, non è impossibile, con un ragionevole spreco di talento, costruire una macchina complicata né mancano persone cui l’inutilità è una seconda natura. Ma qui il complicato e l’inutile si sposano, ed è un matrimonio insieme d’amore e di interesse; per amore, naturalmente, intendo piuttosto libidine che languore: niente «cuore». 
Il libro ha un tema che, oggi, può sembrare lievemente audace: il fratellastro di Sebastian Knight, geniale scrittore morto in giovane età, tenta di scriverne la vita; in teoria, il libro dovrebbe essere una biografia immaginaria: non lo è. E l’autobiografia del fratellastro durante i suoi tentativi di trovare materiale per questa Vera vita. Per conseguire questi risultati egli dovrà fare delle «mosse» — ecco gli scacchi. Cercherà, come un lento, peritoso e lucido giocatore, di cogliere gli indizi, sempre minimi, spesso ingannevoli; e le sue mosse risulteranno sterili, futili. 

In un passo del suo saggio Gogol, Nabokov aveva dichiarato la sua devozione alla fantasia «futile»; la pura fantasia che si muove in un vuoto, e non attinge né inventa significati. Essa è futile come un ozioso segno tracciato nell’aria; ma sterile significa qualcosa d’altro — anche questa parola è di Nabokov. Lo sterile è il non motivato, il gratuito, il frigido, l’esatto; sterile è la mossa degli scacchi che autodistrugge il proprio movimento di volta, come il libro si consegna al nulla, man mano che ne volgiamo le pagine. C’è nella sterilità una ferma volontà di non collaborare alla vita, al confuso e torbido intrico di significati che ne tiene assieme la mole disordinata; ma la sterilità non è morte, piuttosto una squisita e feroce astuzia per appartarsi. 

Per ricostruire quella Vera vita il fratellastro esegue alcuni tentativi: ha degli incontri, trova degli oggetti, e dovunque crede di riconoscere una indicazione definitiva, che non può esistere. In primo luogo lo stesso Sebastian Knight è estremamente elusivo; non lascia testi che non siano definitivi, l’unico esempio sopravvissuto di una pagina non definitiva reca, assieme, tutte le possibili varianti di una frase, senza cancellazioni; non parla mai di letteratura — e saggiamente, giacché parlarne con « gli altri » significa ammettere di essere vivo, ed è una ammissione pericolosa, per uno scrittore; le lettere che lascia nello scrittoio alla sua morte sono annotate, «da bruciare»; ed è proprio bruciando quelle lettere che il fratellastro coglie su di un foglio, che rapido si accartoccia e svanisce, poche parole; ma sono parole di donna, e scritte in russo. Ironicamente, il nulla, lo sterile, esegue una mossa inutile e consegna un indizio futile. 

Sebastian Knight è stato un solitario: e le persone che l’hanno conosciuto, amici di collegio, un losco segretario, una donna, non ne hanno più che sfiorato l’esistenza, la sua inutilità casuale ed eroica. Gli amici hanno ricordi irrilevanti, forse inesatti; il segretario, che sta a sua volta scrivendo una Vita di Knight, raccoglie aneddoti che sono la prova di una sistematica beffa che lo scrittore esercitò ai danni del segretario. Così, Sebastian un giorno gli racconta, appena velato, l’Amleto di Shakespeare come una dolorosa, traumatica memoria della sua adolescenza. Una donna certamente l’ha amato; ma protetta da un matrimonio, ed ancor più dalla morte imminente — morte di parto, vittoria della sterilità —, esclusa dalla miopia, la distrazione, il disorientamento, non può dire nulla, non sa più nulla, ha veramente consegnato al nulla il profilo dell’uomo amato; e la misteriosa autrice di quella frase russa, cercata accanitamente, porta il fratellastro a incontrare una donna frivola, leggera, fantastica, che riesce per qualche tempo a fingersi l’amica della «donna» di Sebastian Knight. 

Restano, dunque, i libri di cui Knight è autore; specie uno, Oggetti smarriti, che è « largamente autobiografico». Ma poiché è un romanzo, anche i ricordi sopravvivono come finzione; perdono vita e acquistano inutilità. Dunque, la forma del romanzo è questa, un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia; di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, e anzi l’unica vera «notizia» è che Sebastian, scrittore, ha scritto dei libri. 

Qui il gioco si complica: di ciascun libro viene data qualche informazione; talora si racconta la trama e almeno una, del romanzo Successo, è talmente affascinante da porci la domanda perché mai Nabokov non abbia scritto quel libro, invece di riassumerlo. Oltre ai riassunti, ci sono le citazioni, ampie e significative, dalle quali si nota che Sebastian scrive una prosa colorata, mentre quella del fratellastro è un poco più dimessa, e quella di Nabokov è più gelida; e un poco dell’ingegnoso gelo di Nabokov si insinua dovunque. 
S’è detto che la donna che sembra più prossima alla «verità» è in realtà un puro inganno; e dove il gusto drammatico per il doppio, lo scambio, la mistificazione definitivamente trionfa è nel racconto della morte di Sebastian Knight. Avvisato da un laconico telegramma, il fratellastro parte per...; è già in viaggio quando si accorge di non rammentare il nome della località; sarà il disegno di una scacchiera a rammentargli quel nome, St-Damier; quando arriva, viene lasciato entrare a trascorrere alcune ore in una stanza buia, dove un uomo addormentato respira faticosamente; è un momento di delicata, aurorale speranza. Quell’uomo è vivo. Ma hanno sbagliato stanza: quel malato ha in comune con Knight solo la « K » iniziale, è la sua controfigura sulle soglie dell’Ade; mentre il fratellastro vegliava la controfigura che lentamente ritornava alla vita, Sebastian giaceva già morto in una stanza della clinica. 


Non è un finale patetico; anche Knight è stato cancellato, perduto, resisterà la sua notturna immagine speculare, l’anima sosia che si è salvata, pronta a ulteriori inganni. 
Questo libro breve e «leggero » — pare avere la consistenza ingannevole del sughero — è in realtà un libro astutamente ambizioso; il suo obiettivo a me sembra quello di costruire un tessuto di parole — mi ripugna chiamarlo «romanzo» — attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale, indefinibile. Questa assenza contiene, inoltre, un ulteriore gioco, quasi un pun, una astuzia verbale. La vita di Sebastian Knight, quella «vera», è perduta, perché nessun indizio porta al centro; lo scrittore è una larva, una immagine simile a quelle che si colgono prima del precipizio del sonno. Ma vi è dell’altro: lo scrittore non possiede il tempo come serie; il tempo è un luogo matematico nel quale si raccoglie tutto ciò che altri chiamerebbe «il mondo». 

« Per Sebastian » scrive «non era mai il 1914, il 1920, o il 1936 — era sempre l’anno 1». «Non credo nel tempo» aveva scritto in Parla, memoria; e nello stesso libro aveva annotato: « Lo scienziato vede tutto ciò che accade in un unico punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un unico punto del tempo». In quanto scrittore, la sua Vera vita è istantanea, non ha data, né un prima né un dopo, « l’anima è solo un modo di essere — non uno stato costante,» scrive nelle ultime pagine della Vera vita: «ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni». Dunque, non v’è altro modo di scoprire la «vera vita» di Sebastian Knight, uomo-punto di tempo, che penetrare in quel luogo senza misura. 
«La mascherata volge alla fine», leggiamo nelle ultime righe. Nabokov, scegliendo la sterilità, e l’inutilità, ha scelto anche il travestimento, la mistificazione, l’errore, il fantasmatico, e di qui, e solo di qui, escono alcune delle sue pagine memorabili, come Invito a una decapitazione, capolavoro di rara, inquietante ambiguità; e vorrei, come gioco incidentale, rievocare una bizzarra e freddamente angosciosa invenzione nabokoviana: che i morti, le loro ombre e fantasmi, siano travestimenti, consolatori e beffardi inganni, emotive somiglianze indecifrabili nel costante buio. 

Vorrei concludere tornando ai temi emblematici degli scacchi e delle farfalle; sempre in Parla, memoria, si incanta a descrivere questa arte, «bella, complessa e sterile» , dalla qualità poetico-matematica, fonte di letizia faticosa e astratta; la scacchiera è un « campo magnetico, un sistema di forze, di abissi, un firmamento stellato». E imparentato, questo gioco, ad altre bizzarrie creative: dalla cartografia medita di mari perigliosi, alla lucida e demente costruzione di «incredibili romanzi», irti di regole vessatorie e arbitrarie, e deliberati incubi. 
Le farfalle: lo scrittore è affascinato da due qualità supreme: la mistificazione — la «mascherata» — e l’eccesso; le due qualità si mescolano; per mentirsi altra cosa, o insetto o foglia, la farfalla si trasforma; ma il gusto della metamorfosi è sfrenato, barocco, del tutto privo di rapporto con la ragionevole astuzia al servizio della sopravvivenza; la farfalla non è solo un prezioso inganno, è esuberanza e lusso; è «inutilità». «Scopersi nella natura le gioie non utilitarie dell’arte. Entrambe erano una forma di magia, un intricato gioco di incantesimo e di inganno». E confrontando diapositive e microscopio, annota: «Nell’equilibrio delle grandezze del mondo pare esservi un punto cui si perviene rimpicciolendo quello che è grande, e ampliando ciò che è piccolo; ed è un punto intrinsecamente artistico». 

Mi accorgo di aver scritto di Vladimir Nabokov senza aver mai nominato Lolita, il romanzo erotico per cui egli è socialmente, storicamente, «l’autore di Lolita». Visto nella prospettiva dell’inutile, dello sterile, del travestimento, Lolita, capolavoro di «veleni retorici» (vedi la prefazione di Disperazione), diventa un libro stranamente deforme, un’ardua anamorfosi. Come tutti i libri di Nabokov, non ha messaggi, né idee: « non sono un cane » aveva scritto una volta «che corre da voi scodinzolando, con una verità in bocca».

Giorgio Manganelli, postfazione a La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992

     

Sebastian Knight è un giovane scrittore nato in Russia e successivamente trasferitosi in Inghilterra (lo stesso percorso linguistico di Nabokov). Muore precocemente lasciando alcuni romanzi, racconti e qualche lettera. Il fratellastro, V., decide di scriverne la 'Vera' vita. Ma tutte le piste e le traccie sono ambigue, doppie; la ricerca gira a vuoto attorno alla perversa sensazione che l'autore di 'Successo' sia uno, nessuno e centomila. Questa è una delle pagine più belle, V. disquisisce sul fantomatico romanzo 'Oggetti smarriti': le lettere ritrovate nel disastro aereo sono magnifici esempi del linguaggio figurato nabokoviano.
(LT)


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"Oggetti smarriti, che Sebastian aveva iniziato proprio in quel periodo, pare una specie di sosta nel suo viaggio letterario di esplorazione: una pausa in cui si tirano le somme, si contano le cose e le anime perdute per strada, si fa il punto geografico; i sonagli di cavalli dissellati che pascolano nel buio; il bagliore del fuoco del bivacco; la volta stellata. 

In questo libro c’è un breve capitolo in cui si parla di un disastro aereo (il pilota e tutti i passeggeri, tranne uno, erano rimasti uccisi); il superstite, un inglese piuttosto anziano, fu ritrovato da un contadino a una certa distanza dal luogo della sciagura. Era seduto su un sasso, tutto raggomitolato — l’immagine stessa del dolore e dell’infelicità. «Una brutta ferita?» domandò il contadino. «No,» rispose l’inglese «mal di denti. Ce l’ho da quando sono partito». In un campo venne ritrovata una mezza dozzina di lettere, sparse qua e là: tutto ciò che restava del sacco della posta aerea. Due erano lettere d’affari, molto importanti; una terza era indirizzata a una donna ma cominciava così: «Egregio Mr. Mortimer, in risposta alla sua del 6 corrente... » e riguardava un’ordinazione; una quarta conteneva gli auguri per un compleanno; una quinta era la lettera di una spia con il suo ferreo segreto celato in mezzo a un mucchio di chiacchiere; e l’ultima era una busta, indirizzata a un’azienda commerciale, che conteneva la lettera sbagliata, una lettera d’amore. 

«Questo ti farà soffrire, mio povero amore. Il nostro picnic è finito; la strada è buia, piena di buche, e sull’auto il bambino più piccolo comincia a sentirsi male. Un povero sciocco ti direbbe: devi essere coraggiosa. Ma qualunque cosa io possa dirti per farti animo o consolarti sarà come una minestrina insipida — tu sai quello che voglio dire. Tu l’hai sempre capito. La vita con te è stata incantevole — e quando dico “incantevole” intendo canti e voli e viole, e quella morbida, rosea “v” nel mezzo, e quelle sillabe sulle quali si curvava indugiando la tua lingua. La nostra vita insieme è stata allitterativa, e quando penso a tutte le piccole cose destinate a morire, ora che non le possiamo più condividere, sento come se fossimo morti anche noi. E forse lo siamo. Vedi, quanto più grande era la nostra felicità, tanto più sfumavano i suoi bordi, come se i contorni si sciogliessero, e ormai essa si è dissolta del tutto. Non ho smesso di amarti; ma qualcosa è morto in me, e nella nebbia non riesco a vederti... Questa è tutta poesia. Io ti sto mentendo. Vigliacco. Niente è più vile di un poeta che mena il can per l’aia. Credo tu abbia intuito come stanno le cose: la solita dannata formuletta, “un’altra donna”. Con lei sono disperatamente infelice — ecco, questo almeno è vero. E penso non ci sia molto altro da aggiungere su questo lato della vicenda»

«Non posso fare a meno di pensare che nell’amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o ci si perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c’è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all’amore. L’amicizia non ha mai l’aspetto di una condanna. Perché, cosa succede? Non ho smesso di amarti, ma poiché non posso continuare a baciare il tuo caro, pallido volto, dobbiamo lasciarci, dobbiamo lasciarci. E perché? Perché l’amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona. Non è il caso di parlare degli harem: io sto parlando della danza, non della ginnastica. O si può forse immaginare un portentoso turco che ami ognuna delle sue quattrocento mogli come io amo te? Quando dico “due”, ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l’amore, a quanto pare, è l’esponente migliore di questa unicità»

«Addio, mio povero amore. Non ti dimenticherò mai e non metterò mai un’altra al tuo posto. Sarebbe assurdo da parte mia cercare di, persuaderti che tu eri l’amore puro e che quest’altra passione è solo una commedia della carne. Tutto è carne e tutto è purezza. Ma una cosa è certa: con te sono stato felice, e ora sono infelice con un’altra. E così la vita andrà avanti. Continuerò a scherzare con i colleghi d’ufficio, a godermi le mie cene (fin quando non mi verrà la dispepsia), a leggere romanzi e a scrivere versi, a tener d’occhio il listino della Borsa — e in generale a comportarmi come mi sono sempre comportato. 
Ma questo non significa che sarò felice senza di te... Ogni piccola cosa che mi riporterà il ricordo di te — l’occhiata di disapprovazione per i mobili delle stanze dove tu hai riordinato i cuscini e parlato con l’attizzatoio, ogni piccola cosa che abbiamo scoperto insieme — mi parrà sempre la metà di una conchiglia, la metà di una moneta, di cui tu custodisci l’altra metà. Addio. Vattene, vattene. Non scrivere. Sposa Charlie o un altro qualsiasi brav’uomo con una pipa tra i denti. Dimenticami per ora, ma ricordami dopo, quando l’amaro sarà dimenticato. Questa macchia non è dovuta a una lacrima. Mi si è rotta la stilografica, e sto usando una lurida penna in questa lurida camera d’albergo. Fa un caldo terribile, e non sono riuscito a concludere l’affare che avrei dovuto portare “a una soluzione soddisfacente”, come dice quell’imbecille di Mortimer. Credo tu abbia un paio di libri miei ma non è importante. Per favore, non scrivere. L. ». 

Se togliamo da questa lettera fittizia tutto ciò che riguarda specificamente il suo presunto autore, credo che in essa vi sia molto di quello che Sebastian può aver provato per Clare, o magari averle scritto. Aveva la curiosa abitudine di attribuire ai suoi personaggi, anche ai più grotteschi, questa o quella idea o impressione o desiderio con cui lui stesso poteva essersi baloccato. La lettera del suo eroe può anche essere stata una sorta di codice in cui esprimeva alcune verità circa i suoi rapporti con Clare. Ma non mi viene in mente il nome di un altro scrittore che abbia fatto uso della propria arte in maniera così sconcertante — sconcertante per me, che potrei voler vedere, dietro lo scrittore, l’uomo vero. E' difficile distinguere la luce di verità personale in mezzo allo scintillio di una natura immaginosa, ma quello che è ancora più difficile da capire è il fatto stupefacente che un uomo che sta scrivendo di sentimenti provati davvero in quegli stessi istanti possa aver avuto il potere di creare simultaneamente — e proprio ispirandosi alle cose che lo turbavano — un personaggio fittizio e vagamente assurdo."

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992, Traduzione di Germana Cantoni De Rossi)