mercoledì 8 agosto 2012

L'écume des jours: Michel Gondry, Boris Vian e Billie Holiday


Ho la fortuna di avere la prima edizione di "Jazz-Hot. Scritti sul Jazz 1946-1956" di Boris Vian, dove l'epoca d'oro del be-bop a Parigi viene raccontata in presa diretta, senza nessun filtro suggerito dalla nostalgia o inesattezze appese al passaparola che proviene dal passato.
Questo è il brillante articolo apparso sulla rivista Jazz-Hot, nel febbraio del 1954, che si riferisce all'arrivo, per la prima volta a Parigi, di Billie Holiday.
(Luca Tanchis)



Saluto a Billie Holiday
Finalmente Billie Holiday viene in Francia. L'aspettiamo da tanti anni che non sembra neanche vero — non ci crediamo... per fortuna questi anni non hanno cambiato una briciola del suo talento; ha questo in comune coi buoni vini: è migliorata, se possibile. Sembra che solo la sua linea abbia subito una leggera evoluzione, e che ora presenti piacevoli rotondità perfettamente invisibili sulle foto della giovane Billie del 1937 o del 1938. Parola mia, non è cosa che ci dispiaccia, a noi fanatici di Francia — e Billie è ancora lungi dal raggiungere il volume delle Peter Sisters che peraltro non ha scioccato nessuno qui da noi (anzi, hanno anche trovato marito). Può piacere o non piacere la voce di Billie Holiday, ma quando piace è come un veleno. Non è la cantante che vi tira improvvisamente il colpo imparabile dal quale non vi rimettete. 
La voce di Billie, sorta di filtro insinuante, sorprende alla prima audizione.Voce da gatta provocante, inflessioni audaci, colpisce per la sua flessibilità, la sua morbidezza animalesca — una gatta con le unghie ritratte, l'occhio semichiuso — o per fare un paragone maledettamente più brillante, una piovra. Billie canta come una piovra. Non è sempre rassicurante all'inizio; ma quando vi afferra, vi afferra con otto braccia. E non molla più. (Del resto, non c'è animale più gaio e più tenero della piovra, come testimoniano i film di Cousteau, esploratore sottomarino).
Billie ha trentotto anni. L'età buona. (Non domandatemi perché; l'età di una donna è sempre quella buona).
Ha debuttato verso il 1933. Non vi farò una biografia dettagliata, si trova in tutte le opere specializzate. Prestissimo dopo il suo debutto, nel 1935, si mise a incidere coi vari complessi diretti da Teddy Wilson. L'accostamento era indimenticabile. Ascoltate piuttosto uno dei suoi più perfetti successi di allora, quel What a little moonlight can do, col contrabbasso di John Kirby e la sorprendente parte di clarinetto di quel vecchio dixielander di Benny Goodman. Un suggerimento alla Columbia: perché non ripubblicare in long-playing tutta la serie?
In realtà quel disco è già apparso in Francia, da Brunswick — ma chi possiede ora i diritti di Brunswick? Comunque, c'erano delle gran belle incisioni. E Billie, che i dischi fossero registrati col suo nome o con quello di Teddy Wilson, era circondata da gente come Roy Eldridge, Ben Webster, Lester Young, Cozy Cole, Jo Jones, Dicky Wells, Buck Clayton. Ne tralascio, a dozzine. 
Nelle sue prime incisioni canta in maniera abbastanza ritmica e scandita, e a poco a poco da cantante d'orchestra diventa solista; pone allora l'accento sulla "ballata" che piace di più al pubblico, forse, ma che certamente corrisponde pienamente al temperamento drammatico di Billie. Tuttavia, per sofisticati che siano i testi di molte sue canzoni (basti l'esempio di Ghost of Yesterday), nella voce di Billie è sempre presente la pulsazione del jazz. Billie è anzitutto una cantante jazz, non bisogna dimenticarlo — anche quando interpreta Strange Fruit, dove si riconosce la tromba del buon vecchio Frank Newton. Il suo vero posto è davanti a un buon piccolo complesso — con un buon batterista; guardate l'elenco dei batteristi che l'accompagnano; a parte uno o due dischi in cui si trovano dei Norris Shawker o altri Cowans, sono sempre Cozy Cole, Jo Jones, Hal West, J.C. Heard, Kenny Clarke, Sid Catlett!
Musicalmente parlando, la qualità del resto dell'orchestra è generalmente piuttosto eccezionale in quasi tutte le sue incisioni; e ne risulta che c'è un clima comune a quasi tutti i dischi di Billie Holiday, clima che deve riflettere in fin dei conti il suo gusto personale.


Sarebbe vano studiare lo stile vocale di Billie — uno studio di questo tipo si basa generalmente su un paragone con voci di riferimento che si presuppone conosciute dal lettore, ma la cosa non funzionerebbe con Mistress Day: in realtà non è paragonabile a nessun'altra cantante, non fosse che per il suo timbro cosí caratteristico. 
Billie viene imitata, ma non imita. Ho detto viene imitata? Ho sbagliato. Pare che nessuno si sia mai arrischiato. C'è nella sua maniera di cantare un che di ironico — un'ironia che diventa durezza nei momenti di emozione — che elimina dalle sue incisioni tutti gli elementi sentimentali e volgari. Chi potrebbe cantare quella banalità che è No Greater Love con quelle intonazioni? Piatta in se stessa, la canzone diventa provocante in bocca a Billie — e se i critici americani stanno a bocca aperta in questo momento davanti alla "sessualità" delle interpretazioni dell'affascinante Ertha Kitt, hanno dimenticato che Billie l'ha preceduta sulla via dei sottintesi — suggerimento che viene da mezzi puramente vocali e non verbali. 
È stato rimproverato a Billie il suo lato "sofisticato". Ci chiediamo in che cosa lo sia; sarebbe come rimproverare a Lester di avere una personalità differente da quella di Hawkins; la realtà è che nel 1934, epoca in cui il regno della grande Bessie era finito da poco, lo stile inatteso di Billie era sorprendente quanto quello di Lester — e non è a caso che abbiamo scelto questo paragone. Essa spiccava sulla folla dei cantanti quanto, più tardi, Sarah Vaughan. Cosa tanto più meritoria in quanto Billie non ha mai posseduto i mezzi vocali di una Sarah, di una Ella, di una Ivy Anderson. Ma ha saputo sopperire a questa carenza con un'acuta intelligenza delle sue possibilità, un eccezionale senso del jazz, e un'originalità che basterebbe, in questi tempi di plagio in cui non si può più distinguere un musicista da suo cugino o da suo fratello, a meritare il nostro omaggio. 
Che le presentiamo, assicurandole che è con gioia assoluta che ci prepariamo ad ascoltarla, in carne, ossa e voce.
(Boris Vian, "Jazz-Hot", n. 85, febbraio 1954)

Proprio in questi giorni si sono concluse le riprese del film di Michel Gondry tratto dal capolavoro di Boris Vian, La schiuma dei giorni (L'ecume des jours). Questo è il resoconto tratto da La Lettura del Corriere Della Sera:



  
Vian, storia di un amore psichedelico

Accanto al Parco delle Buttes Chaumont, poche settimane fa, sono apparse bizzarre automobili mutanti: una Renault 4 turchese incollata a un pezzo di Citroen Ami 6, due Fiat Uno verdine appiccicate insieme, e una Citroen Gsa color lampone, munita di ali sul cofano, parcheggiata sotto a cartelli stradali che indicano attraversamento di conigli e proibizione di divieto di accesso. 
Vicino al cantiere dove si sta ricostruendo la zona di Les Halles, una gru tiene sollevata da terra la nuvola di plastica dalla quale escono le gambe di Chloé e Colin, gli innamorati protagonisti di La schiuma dei giorni (L'ecume des jours). E' la Parigi retrofuturista immaginata da Michel Gondry per la sua versione cinematografica del classico di Boris Vian: le riprese si sono appena concluse, dopo restate comincerà il lavoro di post-produzione per un’uscita nei cinema nel 2013. 


Nell’attesa, sbirciamo i primi fotogrammi per scoprire che cosa ha prodotto l’incontro tra gli univèrsi di Gondry e Vian: il primo è il 49enne regista francese autore di straordinari videoclip (da quelli per Bjòrk a Protection dei Massive Attack, ai lavori per Rolling Stones, Paul McCartney, Radiohead, White Stripes e tanti altri), e poi di film non meno geniali tra i quali Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in italiano Se mi lasci ti cancello) con Jim Carrey e Kate Winslet, L’arte del sogno, The Green Hornet uscito l’anno scorso e il nuovo The We and the I, presentato al festival di Cannes.
ll secondo, Boris Vian, è lo scrittore-trombettista-ballerino-ingegnere morto nel 1959, a neanche quarant'anni, autore di quella sorta di totem dell’adolescenza che è, appunto, La schiuma dei giorni, poi di Sputerò sulle vostre tombe (con lo pseudonimo di Vernon Sullivan) e di decine di canzoni, poesie, romanzi, testi teatrali e traduzioni (la versione francese del thriller Il grande sonno di Raymond Chandler, tra le altre). 


Boris Vian, scatenato nottambulo malato di cuore, protagonista della Parigi jazz del secondo dopoguerra, era un tipo ambizioso e perfezionista: «Voglio diventare tanto famoso che al telefono un giorno si dirà “V come Vian”», dichiarava, ma morì la mattina del 23 giugno1959, nel cinema Marbeuf, ad appena cinque minuti dall’ inizio del film, che lui detestava, tratto da Sputerò sulle vostre tombe. Non sappiamo se Vian avrebbe amato il film di Gondry su La schiuma dei giorni, e il precedente pesa non poco; quel che è certo è che il regista francese sembra perfetto per l''impresa. 

«La schiuma dei giorni — ha spiegato Gondry al “Figaro” — è stato in un certo senso il mio primo film, girato nella mia testa da ragazzo, senza macchina da presa. Quel romanzo mi ha accompagnato e ispirato da sempre. L’ho letto che ero adolescente, all’età in cui si è sensibili alla cupezza e alla radicalità di questa storia definitiva, che celebra l’amore uccidendolo. Il racconto è semplice, lineare, ma scritto come un film, e da ragazzo l’ho immediatamente “visto”, quando ancora non avevo alcuna ambizione e non pensavo affatto di fare il regista. Si può scorgere La schiuma dei giorni, almeno inconsciamente, in quasi tutti i videoclip che ho fatto per Bjòrk. E' la base del mio inconscio creativo». 

La trama del romanzo è semplice: il giovane e ricco Colin conduce un’esistenza piacevole gustando le specialità culinarie del suo cuoco personale, Nicolas, e frequentando l’amico Chick, spiantato ingegnere collezionista delle opere di Jean-Sol Partre (parodia di Jean-Paul Sartre) appena incontrata Chloé, se ne innamora e i due decidono di sposarsi nel giro di pochi giorni. Ma al ritorno del viaggio di nozze la sposa si ammala, fatica a respirare, e man mano che la vita si spegne il grande appartamento che era stato il teatro dell’ amore di Colin e Chloé si rimpicciolisce. Colin spende tutte le sue ricchezze per curare Chloé, ma l'amore non basta a salvarla. 
Trama semplice, ma il romanzo è pieno di trovate psichedeliche, quando ancora l’Lsd che ha nutrito il «Magical Mystery Tour» dei Beatles non era stato brevettato: in apertura Colin taglia obliquamente gli angoli delle sue palpebre opache «in modo da rendere misterioso il suo sguardo»; in cucina i topi ballano al ritmo dei raggi di sole, un’anguilla esce dai rubinetti, il male che lentamente uccide Chloé è una ninfea che le cresce nel petto, e l'unica cura possibile, seppur inutile, sono i fiori. E naturalmente c’è il celebre pianocktail, l’invenzione di Colin che a ogni nota del pianoforte ha associato «un alcolico forte, un liquore oppure una spezia», per creare bevande sinestetiche. 
Il mondo visionario di Vian poteva prestarsi a una mitragliata di Cgi (Computer Generated lmagery), di effetti speciali generati al computer, ma Gondry ha preferito mettere al servizio del romanzo la sua passione per il bricolage, assecondando il gusto naif del libro. Le automobili senza capo né coda sono state create in carrozzeria con l’aiuto del fratello di Romain Duris (Colin), designer alla Peugeot; il topolino è fatto di pezza, e i cibi di plastica e stoffa. 


Ora che Gondry dichiara il suo debito artistico verso Vian, non è difficile trovare corrispondenze tra i due. In Se mi lasci ti cancello (2004), i dolorosi ricordi sentimentali di Joel (Jim Carrey) e Clementine (Kate Winslet) vengono rimossi grazie ai servizi dell'azienda specializzata Lacuna, lnc; in L’erba rossa (1950), Vian racconta la storia dell’ingegnere Wolf, che ha creato una macchina per rivivere e dimenticare le angosce del passato. 
Poi, Boris Vian e Michel Gondry adorano entrambi Duke Ellington. «Solo due cose contano — scrive Vian nell’introduzione de La schiuma dei giorni (1947)—: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New’ Orleans o di Duke Ellington. ll resto sarebbe meglio che sparisse, poiché il resto è brutto»; all’inizio di L’arte del sogno (2006), Gondry rende omaggio a Ellington, «che era come un dio per mio padre. - Quando Duke morì, nel 1974, quel giorno a tavola nessuno osò dire una parola». 


Accanto a Romain Duris nel film c’è Audrey Tautou (protagonista dieci anni fa del Favoloso mondo di Amélie) nella parte, di Chloé, Omar Sy (co-protagonista di Quasi amici) in quella del cuoco Nicolas, Gad Elmaleh impersona Chick mentre Philippe Torreton recita il fantastico personaggio di Jean-Sol Partre: nel 1947, quando uscì il romanzo, Sartre era il principe del Café de Flore e del quartiere Saint-Germain frequentati anche da Vian, che non resistette alla tentazione di prendersi beffe del profeta dell’esistenzialismo e soprattutto dei suoi ammiratori. Sartre stette al gioco e apprezzò moltissimo il romanzo, sostenendolo - invano - per il Prix de la Pléiade della casa editrice Gallimard. 
Oggi il filosofo mette uno zampino postumo anche nel film, perché tra le Location scelte da Michel Gondry c’è la bellissima terrazza con vista su tutta Parigi di «Libertino», il quotidiano che nel 1973 ebbe Jean-Sol Partre, pardon Jean-Paul Sartre, tra i suoi fondatori.

(
Stefano Montefiori, Corriere della Sera - 5 Agosto 2012)