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sabato 18 giugno 2011
NU THINGS [LA RIBALTA DEL MIO iPOD] - giugno 2011
mercoledì 13 gennaio 2010
Intervista a Charlotte Gainsbourg, TROIS Magazine
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Esito positivo
2009, annata erratica per Charlotte Gainsbourg: premiata come interprete femminile a Cannes per il provante Antichrist, malmenata da Romain Duris in Persécution, doppiatrice di una creatura fantastica in Max et les maximonstres, l’attrice ha appena pubblicato IRM, il suo terzo album, realizzato da e con un Beck in stato di grazia. Finalmente liberatasi dalla pesante eredità paterna, conferma le sue evidenti doti di cantante e vi si libra con una rara generosità. Incontro con un’artista affrancata.
Il suo nuovo album si intitola IRM, in riferimento agli esami medici che ha dovuto subire due anni fa. Perché ha scelto questo titolo?
Alla fine si è imposto da solo, in maniera molto spontanea. Era quello più rivelatore. Mi piace molto ciò che significa: “Imagerie à Resonnance Magnétique”, è allo stesso tempo molto poetico e molto clinico. Concilia la scrittura immaginifica, umana, terrestre di Beck e il lato più percussivo del disco – tutti questi suoni un po’ robotici dell’apparecchio a risonanza magnetica che abbiamo campionato nel pezzo omonimo. Ho fatto molte visite in una specie di cassone rumoroso: mi sono abituata ai suoni che ne provenivano, sono addirittura arrivata a trovarli onirici, trascendentali. Forse questa reazione era una maniera di proteggermi.. All’inizio della nostra collaborazione ho inviato questi suoni che ho trovato su un sito medico a Beck. A lui l’idea è piaciuta parecchio e ha iniziato ad utilizzarli in maniera musicale.
Questo inizio in ogni caso dimostra bene ciò che la distingue, nella canzone come al cinema, dove riesce costantemente a fare della sua vulnerabilità apparente una forza, un motore.
Non ho una prospettiva corretta rispetto a ciò, ma è vero che quando sono arrivata a Los Angeles per registrare il disco ho cercato di portare con me più bagagli possibili. L’incidente (Charlotte ha avuto un incidente di sci nautico nel 2007, ndt) mi era appena successo, ero ancora moralmente molto fragile, questo deve avere avuto delle ripercussioni sull’ album. Beck si è molto ispirato a ciò che sentivo, come se fosse entrato nel mio cervello.
La registrazione è durata circa due anni, a Los Angeles appunto. In che misura questa città ha contribuito alla realizzazione del disco?
La prima volta che ci sono stata, a sedici anni, avevo l’impressione di essere su di un’autostrada. Durante la registrazione c’è stato un periodo abbastanza lungo in cui uscivo dalle riprese di Antichrist e mi ritrovavo molto isolata, laggiù. E’ una città allo stesso tempo alienante e creativa. Credo che una buona parte degli artisti che abitano a L. A. peschino nell’insofferenza verso quel luogo un po’ della loro ispirazione, che l’artificialità di quel posto faccia nascere delle opere molto profonde, è un processo strano. Da parte mia, mi sentivo molto turista. A volte la mia famiglia è potuta stare con me, vivevo a casa di Beck, c’era un ambiente molto piacevole e disteso: restare tutto il tempo sotto il sole con quel cielo blu che non si muove mai.. credo che questo abbia colorato l’album.
Il suo secondo album, 5:55, è stato realizzato in collaborazione con gli Air, un duo che conosce bene ed apprezza Beck. Cosa distingue secondo Lei questi musicisti?
Gli Air si sono creati un universo a sé, estremamente singolare. L’album che abbiamo fatto insieme era forse un po’ più “prodotto”, molto statico. Eravamo in uno studio, loro suonavano con degli strumenti veri.. ho l’impressione che Beck sia più permeabile, più sperimentale. Pizzica in tutti gli stili, li fa propri, si serve di tutto l’immaginabile e non: Klacsons, giocattoli, corde.. Diciamo che ho avuto l’impressione di entrare nel mondo degli Air, mentre Beck mi è sembrato aver fatto un passo verso di me. Si è lasciato trasportare, a livello di testi e musica.
In un’intervista ha dichiarato che un album di suo padre, Gainsbourg Percussions, aveva particolarmente ispirato la registrazione di IRM.
Sì, ma non è stata un’influenza consapevole. Mi sentivo cantare con i cori di New York, queste voci chiarissime, decise, che mi hanno molto motivata.. IRM è un album con una notevole presenza di percussioni. Con Beck ogni volta partivamo da un ritmo: la batteria, i tamburi, sono le basi di partenza della maggior parte dei pezzi, sulle quali si sono arrampicati gli altri strumenti. Dal momento in cui questi ritmi prendevano una tinta africana, carnale, tribale, io reagivo spontaneamente. Non avendo un linguaggio molto musicale, mi era indubbiamente più facile aderire a questo genere di ritmi. Beck mi ha fatto ascoltare molto blues, Robert Johnson, cose così.. Io da parte mia gli ho passato qualche colonna sonora, "Le troisième homme", "Smile" di Chaplin, ma non ci ha sviluppato sopra granchè.
In ognuno dei suoi dischi le sue origini francesi sono distillate, come sospese: in 5:55 le si poteva indovinare solo grazie al riferimento ad una compagnia aerea, qui alcuni titoli sono cantati in francese, tra cui una reprise di un oscuro cantante del Québec.
E’ Beck che mi ha fatto scoprire questa canzone allucinante, "Le chat du café des artistes" di Ferland, così ricca, così divertente.. Siamo rimasti piuttosto fedeli all’originale. Beck mi spingeva a scrivere in francese mentre io tendevo a voltarmi verso il blues, verso ciò che non mi somiglia. Nella canzone "Voyage" mi ha chiesto di tradurre delle parole che aveva in testa e le ha assemblate in modo abbastanza sornione. L’altro titolo in francese, "La Collectionneuse", proviene dal mio amore per un poema di Apollinaire che si prestava bene ai temi dell’album. Cantare in inglese mi risulta più facile. In francese ho un riferimento diretto a mio padre, troppo pesante. Non riesco a scrivere di per me, è come se fossi dentro uno scafandro. Fare un album per me deve restare un atto ludico, un divertimento.
Dopo un’esposizione alla Cité de la musique, un film in onore di suo padre, realizzato da Joann Sfar, uscirà a breve sul grande schermo. Che sensazione le danno questi omaggi?
Sono fiera che ci sia così tanto amore per la sua vita e la sua opera ma preferirei non immischiarmene. Ho smesso di lavorare al progetto di un museo a lui dedicato perché non ne avevo le forze. Bisognava che pensassi a me, a preservarmi, a conservare una parte di segreto in ciò che lo concerne, dato che tutti sanno tutto di lui, persino più di me. Io so quello che lui mi ha raccontato, non ho letto nessuna sua biografia, posseggo ciò che lui ha voluto darmi e dirmi. E basta.
Il mese scorso nelle nostre pagine il suo compagno, Yvan Attal, affermava: “Quando si è attori si ha voglia che un ruolo ci costi qualcosa”. Parlava della propria esperienza in "Rapt" ma anche della sua in "Antichrist" di Lars Von Trier.
A me piace lo sforzo. Ho avuto molto piacere durante le riprese di "Antichrist", un piacere un po’ masochista è vero, di dolore ed eccitazione mescolati. Essere in crisi per due mesi è molto liberatorio, anche se non potrei farlo tutti i giorni. E’ per questo che non amo fare un film appresso all’altro, non saprei più dove e quando riposarmi mentalmente. E’ piacevole sentirsi svuotati dopo aver girato.
Ha prestato la voce ad un personaggio in "Max et les maximonstres" di Spike Jonze, un esercizio a metà strada tra il cinema e la canzone.
Non avevo mai fatto del doppiaggio prima di allora. Questo film mi ha proprio sedotta, mi ha riportato certi ricordi d’infanzia, era piuttosto magico. C’è qualcosa di molto intimo nel registrare un album: si trasporta molto di sé nel canto e nei testi, si scava in ciò che si è. Il cinema, al contrario, significa camuffarsi, travestirsi, proteggersi in qualche modo. L’interesse è di portarci le proprie emozioni.
In "Persécution" di Patrice Chéreau il suo personaggio è maltrattato da quello di Romain Duris. Essere attori è una forma di persecuzione consentita?
E’ accettare di essere perseguitata da un regista ma anche aver voglia di dare. In "Antichrist" interpretavo sia la vittima che l’aguzzino mentre in "Persécution" soltanto la vittima. Patrice Chéreau ha una maniera molto strana di dirigere, come un terzo attore dietro la telecamera, una sorta di direttore d’orchestra animale.
Trois Couleurs, MK2 Magazine N.77
Intervista: Auréliano Tonet
Traduzione: Carlo Ligas
lunedì 9 novembre 2009
Antichrist (Antichrist) di Lars Von Trier - 2009
Antichrist (Antichrist), di Lars Von Trier (2009)
Il figlio di una coppia muore tragicamente, cadendo da una finestra rimasta aperta, mentre i due genitori stanno facendo l'amore. Il marito, psicoterapeuta, decide di aiutare personalmente la moglie a superare il trauma, pur conscio della non ortodossia del comportamento. I due decidono di ritirarsi in una casa nel bosco di Eden allo scopo di vincere e superare le paure recondite della moglie, legate alla presunta malignità della natura. Il percorso terapeutico porta a svelare l'ambiguità della donna, che aveva passato l'estate precedente con il figlioletto proprio a Eden, per scrivere una tesi sulla persecuzione delle donne identificate come streghe. Quando il marito scopre le pulsioni distruttive della moglie, la vicenda diventa follemente tragica e si consuma in una spirale di crescente violenza semi-cosciente.
Regista: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Stars: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg, Storm Acheche Sahlstrøm
LUI (Willem Dafoe) e LEI (Charlotte Gainsbourg) sono marito e moglie, mentre fanno l’amore il figlio molto piccolo precipita da una finestra lasciata aperta. Il dolore e il senso di colpa è fortissimo, LEI cade in una depressione popolata da incubi e, al risveglio da uno dei peggiori, il marito psicanalista le domanda :“Cosa stavi sognando?” “Il bosco” “E’ strano perché tu eri quella che voleva sempre andare nel bosco. Cosa ti fa paura del bosco, cosa ti spaventa?” “Tutto quanto” “Dimmi cosa pensi che ti possa capitare nel bosco” “Eden”. LUI quindi decide di portarla nell’Eden, una baita immersa nel bosco, dove lei mesi prima, in compagnia del bambino, ha preparato la sua tesi di laurea sulla stregoneria.
Si è parlato di un lavoro nato per curare la depressione in cui era caduto Lars Von Trier, ma il risultato è ben lontano dall’essere un vaso colmo di spleen accessorio, dove sono delegate le brume di una fase cupa; piuttosto pare abitato da tutta la cosmogonia del regista danese. Dentro c’è tutta la sua maestria, la sua pittura, la sua letteratura, le sue visioni, i suoi omaggi (il film è dedicato a Tarkovskij) e soprattutto la sua maestosa abilità nel domare strutturalmente questo sfarzo di materiali. Si guardi il ralenty estenuante della camminata nel bosco: lentissima, effettuata con una macchina da presa speciale, così pigra da sembrare una fotografia, così lenta da innescare i nostri neuroni, accendere il nostro sguardo su ogni punto dell’inquadratura per l’assenza di movimento: “Io faccio sempre lo stesso film, racconto le mie paranoie e fissazioni (come il sesso) che sono le stesse di quando ero un ragazzino: cambio solo la forma, il genere cinematografico...Cambio anche le identità esterne dei personaggi: mi hanno sempre accusato di misoginia e in Antichrist “lei” si interessa della persecuzione delle streghe, ho seguito per un po’ la terapia cognitiva e “lui” è un analista...Le mie opere dicono che l’uomo vuole essere stupido e che, riuscendoci, distrugge ogni cosa. Per quanto riguarda il mio “ritrovarmi” nei personaggi femminili, penso dipenda da come ci si sente all’interno delle categorie e dei ruoli sessuali: sinceramente, io mi sento femminile per la sensibilità e l’attenzione alle emozioni umane. Non ho idea da cosa dipenda, dovrei indagare nella mia storia familiare e personale e non voglio farlo. So che è così fin dai primi titoli, anche se - passatemi il termine - con gli anni penso di essere “penetrato” sempre più nella psicologia femminile. Mi trovo anche molto bene con le mie attrici, in genere...”(L. Von Trier)
E’ il film stesso che trasuda femminino da ogni immagine. Ferisce nel rovo delle mille spine determinate dalla splendida fotografia iper-risoluta, acquieta nel ventre caldo, persuasivo, dei campi lunghi e nei meraviglioso giochi e rimandi pittorici: Bosch, Bruegel, Durer, Dorè.
“Definire Von Trier misogino è stupido. Tutto quello che faccio nel film volevo farlo, e mentre lo facevo ne ero assolutamente consapevole. Sono convinta che il mio personaggio sia il riflesso di Lars. Non mi ci sono proiettata; la perdita di un figlio sarebbe stata insopportabile per me. E’ in Lars che mi sono proiettata.” (C. Gainsbourg)


LUI e LEI non hanno nome, interessano solo in quanto esseri umani con le loro reazioni, sono due perfetti archetipi. La naumachia tra uomo e donna è la battaglia di Von Trier stesso: la sua lucida razionalità di intellettuale contro la sua sensibilità straziata di artista. “Io sono lui, nel film: Lars è “lei”. I problemi fisici e psicologici e il panico che io/”lei” sentiamo sono i suoi. Credo sia per questo che mi sono unita completamente, affidata totalmente a lui. E ho spesso avuto l’impressione che a lui succedesse la stessa cosa. Con Von Trier sul set non hai la sensazione di lavorare: non provi, non ripeti le scene, non hai una sceneggiatura, se gli fai domande non risponde, non discute con te del film. E questo è bello, ti lascia molto più libera alla fine. Per esempio ho iniziato a “studiare” solo quindici giorni prima di cominciare le riprese.” (C. Gainsbourg)
Il senso di staticità e immobilità di cui è pervaso il film è altresì segno dell’inattuabilità di giungere ad una espiazione attraverso le pastoie di un dolore comune; la coerenza logica, la scienza, di LUI non argina la piena emotiva, ancestrale, di lei : il Caos regna. Una volpe parla, una cerva dà alla luce un cucciolo già morto, le ghiande piovono minacciose sul tetto dell’Eden e gemmano sulla carne di LUI. LUI e LEI entrano in un altro luogo dove a governare sono le forze del male, l’incomunicabilità, la radice di una dissonanza primigenia.


Quando lui viene circondato da un brulicare di donne senza volto (streghe?), sono giunte a salvarlo o a condannarlo? Dobbiamo redimerci o resistere alla potenza, alla febbre, alla voglia di un diluvio amniotico che ci riporti nel grembo di Madre Natura? L’Anticristo è l’uomo che non si libera del suo raziocinio per essere invaso, tracimato, immerso nella sensualità femminile e istintiva della natura?
La grandezza di questo film risiede nell’esistenza di un autore che finalmente, dentro una scatola formale perfetta, non argomenta di basse contese tra uomini, lotte per possessi, dolori contingenti, minima moralia (come se poi ci fossero vincitori e vinti…), il regista danese mira più in alto, dove è facile essere derisi o travisati, essere scambiati per Barabba. Ma in tutta questa canicola di voci (sincere o prevenute), risalta, senza ombra alcuna, la sua grandezza stilistica, il suo approcciare il mezzo cinematografico con una capacità visionaria al contempo classica e modernissima, chiusa in alcune forme narratologiche eppure aperta (a film terminato l’Eden è ancora lì, quella natura vischiosa e onnivora continua a germogliare e trasformare), sfruttando tutte le possibilità dinamiche dell’inquadratura come sanno fare pochi altri.


Come le streghe del “Macbeth”, Lars, coadiuvato da due attori incredibili, ci prepara un brodo infernale:
"PRIMA STREGA: Tre volte il gatto-tigre ha miagolato.
SECONDA STREGA: Tre volte e una il riccio ha mugolato.
TERZA STREGA: L'arpia grida: E' l'ora, è l'ora."
Gorgoglia il suo immenso calderone, e questa miscela stregonesca è folta, densa e fantastica. Corposa è la sua violenza espressionista con cui si impossessa voracemente della ferita tra uomo e donna e ne dà un equivalente: non c’è scorcio o un parziale, ma un eterno “primo piano interiore” dedicato al nostro mistero come esseri umani. A fine film abbiamo l’impressione che, se chiudessimo per un istante gli occhi, ci sentiremo sprofondare, intrappolati nel ventre di una verde Madre Natura, avvinghiati a tutto quello che abbiamo amato e che non abbiamo compreso appieno. “ Lars è accusato di puntare alla cieca provocazione, fine a se stessa? Lars è un autore... Per quanto mi riguarda io non mi faccio domande: mi basta sapere cosa vedo, cosa mi accadrà, cosa mi succede intorno...sì il mio cervello è aperto a tutto. Io sono la storia, perché dovrei sapere altro? Credo sia questione di autoconsapevolezza, in questo modo mi sento un po’ meno responsabile e un po’ più libero. Perché dover motivare tutto? Nel mondo ci sono anche cose bellissime che è impossibile spiegarsi. Come risponde Bob Dylan in un documentario su di lui, a chi gli chiede insistentemente le motivazioni di un brano, «è una canzone, la mia canzone». Chi non coglie questa soggettività, uccide la poesia.” (W. Dafoe)¹


Postilla iconografica: Stanco e malato, mentre era a Nizza, Edvard Munch rammenta con lucidità l'attimo in cui è germinata l'idea de 'L'urlo': "Camminavo lungo la strada (in un punto panoramico di Oslo chiamato Ekeberg) con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse improvvisamente di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la Natura."
Voto: 9
Luca Tanchis
Note:
¹ (Tutte le dichiarazioni di Lars Von Trier, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg sono tratte dalla rivista Duellanti, ottobre 2009)
¹ (Tutte le dichiarazioni di Lars Von Trier, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg sono tratte dalla rivista Duellanti, ottobre 2009)
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