lunedì 30 novembre 2009

Nemico Pubblico (Public Enemies) di Michael Mann - 2009

L’ultimo film di Michael Mann è il nocciolo di una vita vissuta alla velocità della luce, le ultime otto settimane spericolate del rapinatore di banche John Dillinger, e la sintesi della sua evoluzione artistica, della perfezione formale nell’utilizzo del digitale, dei suoi inimitabili codici narrativi - qui asciugati all’osso.
La mitologia del regista americano, quella fatta di duellanti che si sfidano, si confondono, si mescolano e si immedesimano nella controparte (Manhunter, Heat, Collateral, Miami Vice), viene incalzata fino ad un punto di non ritorno, sia a livello formale che dal punto di vista narrativo. Resteranno delusi gli amanti del gangster-movie tradizionale e chi ancora chiede ad una pellicola la crescita di tensioni classiche, l’eterodossia dell’esposizione, del conflitto e dello scioglimento. Ci sono anche qui, ma in maniera diversa, esposte in una poetica che, sin dagli esordi della serie televisiva di “Miami Vice” , non scende al minimo compromesso, che usa il genere e i budget hollywoodiani (quest’ultima fatica è costata 
80 milioni di dollari) per la sua personale riflessione sulla tecnica e il linguaggio cinematografico. Il suo digitale è una nuova lingua, un territorio liminare, che richiede un abbandono totale, ma che contraccambia con un esperienza estetica ed emotiva unica.




E’ una nuova immersione, non esistono più soggettive o controcampi: siamo costantemente adagiati sul corpo della messa in scena, viaggiamo sicuri su ogni scheggia, su ogni sguardo, come una remora sullo squalo. La camera accarezza continuamente il muso delle vetture in movimento, le sparatorie sono riprese a pochi centimetri dalla canna del fucile, come fossero una falsa soggettiva dell'automobile, del proiettile e ne diventassimo la traiettoria. Non siamo più spazio inerme da impressionare ma parte in causa di un iperrealismo di foggia straordinaria. Tutto pare sparpagliato, sezionato, un puzzle che cola e ci macchia di transitorio, di energia che si perde, sprofonda e si trasforma. La tecnica che si usa e la storia che si racconta si compenetrano, sembrano un tutt’uno: un salto nel vuoto. Pallottole che deflagrano sui muri, sulle finestre, rumori, urla, spari (piace molto l’assenza di accompagnamento musicale durante le sparatorie, asciuga la violenza in un realismo ancora più ipertrofico) nessuna visione d’insieme, con un uso devastante della fotografia di Dante Spinotti, fatta di cromatismi, sfumature, chiaroscuri sovraesposti (con una sparatoria nel bosco da antologia). Tutte le figure sono prese nell’atto di uscire dal campo, le inquadrature decentrate, in una sospensione tra l’esserci e il nulla. Una corsa ripresa dalla metà fino al traguardo. Senza partenza e rincorsa. I muscoli della storia già tesi, pieni di acido lattico: solo coinvolgimento, azione e dannazione, spargimento di sangue e di baci. Eppure, tra forma e apologo, ne deriva un totale esaltante. Ogni scena, ogni inquadratura è l’essenziale di quell’attimo, ogni gesto netto e rapido ma poroso di conseguenze e rimandi.



E in questa “sfuggenza” poteva essere travisata anche l’interpretazione di Johnny Deep, quando invece la sua aderenza a Dillinger non è fatta di attriti ma di intima sicurezza, nessuna posa classica e persistente da gangster di genere ma l’espressione pulita di un durante, la calma assoluta di un uomo ben conscio di essere un fantasma con un destino già scritto, da raggiungere con rassegnato furore.

Deep/Dillinger è un apparizione che sfugge via anche dalla trama, un attentato all'iconografia epica; quasi invisibile come nella scena al cinema, dove tutti vedono la sua foto segnaletica proiettata sul grande schermo ma non lui seduto nelle file centrali. Come nella splendida sequenza in cui entra, trasparente, nel commissariato di polizia senza essere riconosciuto o come muore all’uscita del cinema, dopo aver visto un film a lui ispirato, fluttuando, danzando leggero tra la folla, mentre la sua nemesi, Melvin Purvis (un Christian Bale preciso ed essenziale), fino a quel momento implacabile, è talmente impacciato da non riuscire neppure ad estrarre la pistola. Johnny Deep recita uno spettro, uno sconosciuto che passa davanti alla piccola digitale di Michael Mann mentre quest’ultimo scatta forsennatamente foto ricordo del 1934 perché la macchina del tempo sta per ripartire.


Come dice Ghezzi, in un momento di lucidità, “questo è il cinema che ci tocca senza che lo guardiamo, che lo riconosciamo”, che arriva per vie traverse e magiche. Charles Winstead (il marmoreo Stephen Lang), l’agente che ha ucciso Dillinger con un colpo di pistola alla nuca, porta a Billie Frechette (una bellissima Marion Cotillard) le ultime parole del suo amato in fin di vita: ”Di’ a Billie da parte mia “Bye Bye Blackbird”. Poi chiude la porta della stanza per i colloqui e chiude il film. Il sogno futurista del regista di Chicago, termina come il più classico dei film di John Ford, come fosse un rispettoso passaggio delle consegne tra un glorioso, antico modo di raccontare e queste nuove visioni arse dalla febbre.

Voto: 8,5
Luca Tanchis

lunedì 9 novembre 2009

Antichrist (Antichrist) di Lars Von Trier - 2009


Antichrist (Antichrist), di Lars Von Trier (2009)

Il figlio di una coppia muore tragicamente, cadendo da una finestra rimasta aperta, mentre i due genitori stanno facendo l'amore. Il marito, psicoterapeuta, decide di aiutare personalmente la moglie a superare il trauma, pur conscio della non ortodossia del comportamento. I due decidono di ritirarsi in una casa nel bosco di Eden allo scopo di vincere e superare le paure recondite della moglie, legate alla presunta malignità della natura. Il percorso terapeutico porta a svelare l'ambiguità della donna, che aveva passato l'estate precedente con il figlioletto proprio a Eden, per scrivere una tesi sulla persecuzione delle donne identificate come streghe. Quando il marito scopre le pulsioni distruttive della moglie, la vicenda diventa follemente tragica e si consuma in una spirale di crescente violenza semi-cosciente.

Regista: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier

Stars: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg, Storm Acheche Sahlstrøm


LUI (Willem Dafoe) e LEI (Charlotte Gainsbourg) sono marito e moglie, mentre fanno l’amore il figlio molto piccolo precipita da una finestra lasciata aperta. Il dolore e il senso di colpa è fortissimo, LEI cade in una depressione popolata da incubi e, al risveglio da uno dei peggiori, il marito psicanalista le domanda :“Cosa stavi sognando?” “Il bosco” “E’ strano perché tu eri quella che voleva sempre andare nel bosco. Cosa ti fa paura del bosco, cosa ti spaventa?” “Tutto quanto” “Dimmi cosa pensi che ti possa capitare nel bosco” “Eden”. LUI quindi decide di portarla nell’Eden, una baita immersa nel bosco, dove lei mesi prima, in compagnia del bambino, ha preparato la sua tesi di laurea sulla stregoneria.


Si è parlato di un lavoro nato per curare la depressione in cui era caduto Lars Von Trier, ma il risultato è ben lontano dall’essere un vaso colmo di spleen accessorio, dove sono delegate le brume di una fase cupa; piuttosto pare abitato da tutta la cosmogonia del regista danese. Dentro c’è tutta la sua maestria, la sua pittura, la sua letteratura, le sue visioni, i suoi omaggi (il film è dedicato a Tarkovskij) e soprattutto la sua maestosa abilità nel domare strutturalmente questo sfarzo di materiali. Si guardi il ralenty estenuante della camminata nel bosco: lentissima, effettuata con una macchina da presa speciale, così pigra da sembrare una fotografia, così lenta da innescare i nostri neuroni, accendere il nostro sguardo su ogni punto dell’inquadratura per l’assenza di movimento: “Io faccio sempre lo stesso film, racconto le mie paranoie e fissazioni (come il sesso) che sono le stesse di quando ero un ragazzino: cambio solo la forma, il genere cinematografico...Cambio anche le identità esterne dei personaggi: mi hanno sempre accusato di misoginia e in Antichrist “lei” si interessa della persecuzione delle streghe, ho seguito per un po’ la terapia cognitiva e “lui” è un analista...Le mie opere dicono che l’uomo vuole essere stupido e che, riuscendoci, distrugge ogni cosa. Per quanto riguarda il mio “ritrovarmi” nei personaggi femminili, penso dipenda da come ci si sente all’interno delle categorie e dei ruoli sessuali: sinceramente, io mi sento femminile per la sensibilità e l’attenzione alle emozioni umane. Non ho idea da cosa dipenda, dovrei indagare nella mia storia familiare e personale e non voglio farlo. So che è così fin dai primi titoli, anche se - passatemi il termine - con gli anni penso di essere “penetrato” sempre più nella psicologia femminile. Mi trovo anche molto bene con le mie attrici, in genere...”(L. Von Trier)
E’ il film stesso che trasuda femminino da ogni immagine. Ferisce nel rovo delle mille spine determinate dalla splendida fotografia iper-risoluta, acquieta nel ventre caldo, persuasivo, dei campi lunghi e nei meraviglioso giochi e rimandi pittorici: Bosch, Bruegel, Durer, Dorè. 
Definire Von Trier misogino è stupido. Tutto quello che faccio nel film volevo farlo, e mentre lo facevo ne ero assolutamente consapevole. Sono convinta che il mio personaggio sia il riflesso di Lars. Non mi ci sono proiettata; la perdita di un figlio sarebbe stata insopportabile per me. E’ in Lars che mi sono proiettata.” (C. Gainsbourg)


LUI e LEI non hanno nome, interessano solo in quanto esseri umani con le loro reazioni, sono due perfetti archetipi. La naumachia tra uomo e donna è la battaglia di Von Trier stesso: la sua lucida razionalità di intellettuale contro la sua sensibilità straziata di artista. “Io sono lui, nel film: Lars è “lei”. I problemi fisici e psicologici e il panico che io/”lei” sentiamo sono i suoi. Credo sia per questo che mi sono unita completamente, affidata totalmente a lui. E ho spesso avuto l’impressione che a lui succedesse la stessa cosa. Con Von Trier sul set non hai la sensazione di lavorare: non provi, non ripeti le scene, non hai una sceneggiatura, se gli fai domande non risponde, non discute con te del film. E questo è bello, ti lascia molto più libera alla fine. Per esempio ho iniziato a “studiare” solo quindici giorni prima di cominciare le riprese.” (C. Gainsbourg)
Il senso di staticità e immobilità di cui è pervaso il film è altresì segno dell’inattuabilità di giungere ad una espiazione attraverso le pastoie di un dolore comune; la coerenza logica, la scienza, di LUI non argina la piena emotiva, ancestrale, di lei : il Caos regna. Una volpe parla, una cerva dà alla luce un cucciolo già morto, le ghiande piovono minacciose sul tetto dell’Eden e gemmano sulla carne di LUI. LUI e LEI entrano in un altro luogo dove a governare sono le forze del male, l’incomunicabilità, la radice di una dissonanza primigenia.


Quando lui viene circondato da un brulicare di donne senza volto (streghe?), sono giunte a salvarlo o a condannarlo? Dobbiamo redimerci o resistere alla potenza, alla febbre, alla voglia di un diluvio amniotico che ci riporti nel grembo di Madre Natura? L’Anticristo è l’uomo che non si libera del suo raziocinio per essere invaso, tracimato, immerso nella sensualità femminile e istintiva della natura?
La grandezza di questo film risiede nell’esistenza di un autore che finalmente, dentro una scatola formale perfetta, non argomenta di basse contese tra uomini, lotte per possessi, dolori contingenti, minima moralia (come se poi ci fossero vincitori e vinti…), il regista danese mira più in alto, dove è facile essere derisi o travisati, essere scambiati per Barabba. Ma in tutta questa canicola di voci (sincere o prevenute), risalta, senza ombra alcuna, la sua grandezza stilistica, il suo approcciare il mezzo cinematografico con una capacità visionaria al contempo classica e modernissima, chiusa in alcune forme narratologiche eppure aperta (a film terminato l’Eden è ancora lì, quella natura vischiosa e onnivora continua a germogliare e trasformare), sfruttando tutte le possibilità dinamiche dell’inquadratura come sanno fare pochi altri.


Come le streghe del “Macbeth”, Lars, coadiuvato da due attori incredibili, ci prepara un brodo infernale:

"PRIMA STREGA: Tre volte il gatto-tigre ha miagolato.

SECONDA STREGA: Tre volte e una il riccio ha mugolato.

TERZA STREGA: L'arpia grida: E' l'ora, è l'ora."

Gorgoglia il suo immenso calderone, e questa miscela stregonesca è folta, densa e fantastica. Corposa è la sua violenza espressionista con cui si impossessa voracemente della ferita tra uomo e donna e ne dà un equivalente: non c’è scorcio o un parziale, ma un eterno “primo piano interiore” dedicato al nostro mistero come esseri umani. A fine film abbiamo l’impressione che, se chiudessimo per un istante gli occhi, ci sentiremo sprofondare, intrappolati nel ventre di una verde Madre Natura, avvinghiati a tutto quello che abbiamo amato e che non abbiamo compreso appieno. “ Lars è accusato di puntare alla cieca provocazione, fine a se stessa? Lars è un autore... Per quanto mi riguarda io non mi faccio domande: mi basta sapere cosa vedo, cosa mi accadrà, cosa mi succede intorno...sì il mio cervello è aperto a tutto. Io sono la storia, perché dovrei sapere altro? Credo sia questione di autoconsapevolezza, in questo modo mi sento un po’ meno responsabile e un po’ più libero. Perché dover motivare tutto? Nel mondo ci sono anche cose bellissime che è impossibile spiegarsi. Come risponde Bob Dylan in un documentario su di lui, a chi gli chiede insistentemente le motivazioni di un brano, «è una canzone, la mia canzone». Chi non coglie questa soggettività, uccide la poesia.” (W. Dafoe)¹


Postilla iconografica: Stanco e malato, mentre era a Nizza, Edvard Munch rammenta con lucidità l'attimo in cui è germinata l'idea de 'L'urlo': "Camminavo lungo la strada (in un punto panoramico di Oslo chiamato Ekeberg) con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse improvvisamente di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la Natura."

Voto: 9
Luca Tanchis

Note:
¹ (Tutte le dichiarazioni di Lars Von Trier, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg sono tratte dalla rivista Duellanti, ottobre 2009)

venerdì 6 novembre 2009

Il Nastro bianco (Das Weisse Band) di Michael Haneke (2009)

Se non fosse per il bianco e nero, ogni singolo fotogramma di questo film potrebbe essere ritagliato, incorniciato e venduto in maniera fraudolenta come un’opera di Grant Wood. E’ infatti un’ inarrestabile serie di scenari spaventosamente incantevoli e solitari, magicamente desolanti e dispersivi, nei campi di grano, nella sterminata campagna coperta di neve e di sole, fino ai primi piani strettissimi su volti inespressivi di pelli d’alabastro, ingabbiati nella colpa celata, nell’austerità del rigore. Una regìa meravigliosamente stabile e statica quella espressa da Haneke: camere immobili su grandi piani dove i personaggi si muovono come in un vero e proprio dipinto animato ed incolore, o fisse su porte chiuse da cui, assieme ai protagonisti, entrano ed escono orribili dubbi, scivolano come fredde correnti d’aria sospetti inconfessabili, atroci, diaboliche, graffianti paure. L’ultima palma d’oro compie un salto felino sul male assoluto, il male nel suo stadio primordiale, universale ed antropologico, il più umano e disumano allo stesso tempo: la sua scoperta, la sua pratica, la sua messinscena compiaciuta e viscerale, feroce. Un salto che lo proietta ben aldilà del brusìo creato dall’assegnazione del premio da parte di una giuria la cui presidentessa (Isabelle Huppert) si è vista solo qualche anno fa assegnare il titolo di miglior attrice sulla croisette per un film (La pianista) diretto dallo stesso Haneke. 

In un minuscolo villaggio protestante della Germania del nord di inizio novecento, strutturato su di una ferrea piramide gerarchica, dove il potere temporale e quello spirituale si sostengono, complici, e annientano ogni forma di diversificazione ed ogni evoluzione dallo status quo feudale, d’improvviso sinistri e angosciosi episodi cominciano a colpire gli esponenti di questo apparentemente intoccabile ordine sociale: il medico, simbolo della pubblica sanità ma autore di sordide azioni private, il capo dei massai, brutale amministratore del giogo che opprime i lavoratori, il Pastore, garante della morale che non può che passare dalla severità e dalla reciprocità dell’azione-punizione, fino al suo apice, il Barone, padrone di cielo e di terra, colpito nell’intimità della sua famiglia. La cronaca di quegli anni viene narrata da una morente voce fuori campo, quella dell’ allora giovane istitutore, piombato in seno a questa comunità rurale ed in braccio agli oscuri eventi che la colpiscono come scudisci sulle sue certezze più profonde e fragili.
L’analisi della violenza che ne scaturisce è lucida e terrificante, braccante negli angoli meno visitati dalle letterature di ogni genere, schiacciante nel constatare che il male è insito nella nostra coscienza e che quest’ultima ne fa l’uso che farebbe un cefalopode del suo inchiostro: schizzarlo via con rabbia come difesa, estremo tentativo di confondere la realtà, mistificarla, affinché nulla sia più comprensibile. Saranno quindi gli stessi strumenti di questi esercizi abusivi di potere a ritorcersi contro chi li detiene: la mano vendicativa del divino, la corrosiva diffidenza verso gli altri, l’esclusione della diversità non omologata al volere comune. Lasciando l’unico diritto alle congetture, l’autore abbandona la storia in preda ad un evento altresì tragico (la Grande Guerra), rivoltando ogni punto di vista, fiondandolo verso la medesima atmosfera di terrore imminente, con il medesimo virulento male a dettarne i tempi, abile direttore d’orchestra, a suo agio anche su scala planetaria, come lo era stato nel particolare, nel microscopico inferno creato incarnando un nastro bianco di purezza.

Voto: 8
Carlo Ligas

martedì 3 novembre 2009

SIN NOMBRE (SIN NOMBRE) DI Cary Fukunaga (2009)


Non è facile parlare di cinema. Non perchè il primo coraggiosissimo lungometraggio di Cary Joji Fukunaga (padre giapponese, madre svedese, nato negli USA e vissuto in tre continenti) non sia una buona prova della settima arte, al contrario, ma perchè tali e viscerali sono le emozioni suscitate da rendere forse meno determinanti certi dettagli, seppur rimarcabili. Questo film (premiato alla regìa al Sundance e dalla giuria a Deauville) è un nodo stretto alla gola dalle tematiche affrontate, talmente taglienti da lasciare in imbarazzo al solo realizzare che tutto ciò non è plausibile, ne’ verosimile. E’ vero. E su questa terribile alternativa si struttura il film: delinquere o fuggire. Il terribile fenomeno delle Maras del centroamerica, che non sono delle bande di teppisti in lotta intestina come spesso si tende a vederle in occidente ma delle effettive ed efficienti organizzazioni criminali ramificate (fino a L.A. nel film, dove in realtà la prima è nata da immigrati salvadoregni, la "Salvatrucha" o "13" o "MS 13", protagonista del film) che controllano lo stesso traffico di migranti verso gli Stati Uniti, i loro connotati terribili di protettività e supplenza sociale laddove le famiglie o lo stato sono presenti a stento nel vocabolario, la loro capacità di affiliazione nei giovanissimi, Smiley ha ad occhio e croce dieci anni quando viene affiliato con tredici secondi di pestaggio (buon per lui non aver scelto la principale rivale, la 18..) e qualche giorno in più quando ammazza per la prima volta, il senso gerarchico dei tatuaggi come galloni, delle armi da fuoco costruite con tubi idraulici, l’irreversibilità del morire per la Mara o farsene uccidere. Il controcanto è dato da una flebile speranza, figlia indesiderata della disperazione e dell’istinto più bieco, non la volontà di raggiungere qualcosa ma la schiacciante consapevolezza di non poter fare altrimenti.
"Sin Nombre" ricalca il percorso del Road Movie senza forzare i tempi, con silenziosi passaggi introspettivi perfettamente tristi: Sayra è una ragazzina che rincontra il padre già espulso dagli U.S.A. e con lui tenta il viaggio della speranza su di un treno (e "su di un treno" significa proprio sul tetto). Il "marero" Willy ("Casper", nome di battaglia) è un giovane ormai perduto al quale la stessa Mara ha portato via la cosa più preziosa, che su quel treno ci finisce per obbedienza, salvo poi compierci l’irreparabile e non poter più tornare indietro, restandoci sopra, anch’egli privo di alternativa. La sottile ombra lunga della pellicola sta nell’aver mostrato il "prima" del problema dell’immigrazione, la terribile selezione naturale di intemperie, fame, polizia di frontiera come setaccio per i pochissimi che in realtà raggiungeranno la meta. Non ponendosi come intento principale quello di fornire un ulteriore punto di vista e analisi sui problemi che stanno nel "poi", ovvero le difficoltà di integrazione, la ghettizzazione, argomenti già ampiamente discussi, anche cinematograficamente.


Una fotografia vivace accompagna virtuosamente la storia, rossa sul sangue profuso, disperso come un allucinante voodoo sacrificale. Verde sulla jungla, bellissima e sconfinata, a dispetto della disarmante assenza di prospettive che si respira attraversandola. Gialla di polvere sul dolore e sul costante amaro che costringe ad ingoiare, mentre questi due fragili destini si uniscono, spinti dall’umana necessità del bene, del buono, come universale arsura d’amore, che dissetandoli li avvelenerà.

Voto: 7
Carlo Ligas