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domenica 21 aprile 2013

Top of the Lake, di Jane Campion




E' uno splendore la miniserie (sette puntate) firmata e diretta da Jane Campion. Ambientata nel Sud della Nuova Zelanda, in un luogo che "sembrerebbe quello della purezza e della fuga dal mondo", ma che invece è "il genere di posto dove, proprio per questa immagine di fine del mondo, vengono a convergere i disadattati" (Jane Campion dixit nella conferenza stampa del festival di Berlino 2013).
La cattività di una piccola comunità, dispersa in uno scenario sterminato, diventa l'acquario di uno smarrimento più generale, universale, tra piaghe attuali come quelle della pedofilia, la droga, la violenza sulle donne.


Ma dalla liquida malinconia di cui Top Of The Lake è pervaso, emerge una forza ancestrale, femminile; sboccia sia dai luoghi magici, di una purezza dominante, che dai corpi che si cercano e trovano, si compenetrano con la necessità (e anche la violenza) della caduta di una cascata invincibile: "Niente può superare l'incredibile intelligenza del corpo."
Un'opera sinuosa e ricchissima di significati, dove la natura, l'acqua, i sensi e il femminino sembrano assurgere a spirito lenitrice, cura dell'anima, rifugio dalla follia del mondo: "Hai un vero insegnante ora. Assicurati di ascoltarlo davvero...ascolta."

Luca Tanchis



Info: Top of the Lake - Il mistero del lago (Top of the Lake) è una serie televisiva del 2013, scritta da Jane Campion e Gerard Lee e diretta da Garth Davis e Jane Campion.

La serie, girata e ambientata interamente in Nuova Zelanda, è incentrata sulle indagini della detective Robin Griffin, interpretata da Elisabeth Moss, sulla sparizione di Tui Mitcham, ragazzina dodicenne incinta, e sulle vicende della comunità del luogo.

martedì 19 giugno 2012

Rubicon - Not every conspiracy is a theory, di Matteo Bittanti

La visione di Rubicon produce gli stessi effetti di dissonanza cognitiva che sperimento ogni volta che mi imbatto in un articolo di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera. Grasso racconta una realtà televisiva rimasta concettualmente ed esteticamente ferma agli anni Settanta, primi anni Ottanta. Una realtà virtuale, un mondo parallelo in cui le rivoluzioni tecnologiche delle ultime tre decadi (dai videoregistratori ai telefoni cellulari, da Google Tv a YouTube, da Hufu a Netftix) non hanno mai avuto luogo. In questo “bizarro world” – un’aberrazione anacronistica - i talk show, Bruno Vespa, Pippo Baudo, i telegiornali e il Festival di Sanremo, Grande Fratello e X-Factor vengono discussi come se fossero eventi televisivi “importanti”. 
In altre parole, la genialità di Grasso consiste nel pretendere che esista davvero un pubblico per questa sottospecie di programmi. Il mondo come volontà e rappresentazione. Creata da Jason Horwitch e prodotta da Henry Bromell per il network AMC (lo stesso di Mad Men per intenderci), Rubicon applica una simile strategia retorica - l’istituzione di una realtà parallela, verosimile, ma del tutto virtuale perché anacronistica - per reinventare un genere che ha trovato in 24 il suo paradigma. Sulla carta, Rubicon parrebbe un mero clone della saga interpretata/prodotta da Kiefer Sutherland: una fittizia agenzia antiterroristica l’API, acronimo di American Policy Institute) si adopera per sventare attentati catastrofi sfruttando il talento investigativo di un gruppo di brillanti analisti guidati dal sobrio Will Travers (James Badge Dale, perturbante somiglianza con l’insegnante Will Schuester, paladino di Glee). Le similitudini, tuttavia, terminano qui.


Per cominciare, ci troviamo a New York e non a Los Angeles. Notte e giorno, soprattutto sul piano architettonico. A L.A. nessuno cammina. A New York nessuno guida. Questo crea dinamiche narrative radicalmente differenti. In secondo luogo, se la CTU è il nirvana dell’high tech, l’API colpisce per la quasi totale assenza di tecnologia. Persino la presenza di computer è sporadica. Le uniche workstations (peraltro inaccessibili agli agenti dell’API e confinate nel piano interrato) sono usate da un tecnico-vate (come negli anni Cinquanta/ Sessanta/Settanta). Gli uffici sono stracolmi di carta e di libri. I detective leggono ancora i quotidiani di cellulosa. Le fotografie non sono digitali, ma stampate su pellicola. Al posto di Google Earth ci sono i mappamondi. I cellulari esistono, ma vengono usati solo per conversare. Non solo: le comunicazioni più importanti si svolgono attraverso apparecchi a filo e cabine pubbliche. Il sistema operativo della polverosa biblioteca dell’API è L’MS-DOS e l’ultimo aggiornamento risale al 1987 (!). Gli agenti ricevono ogni giorno corposi plichi di fotocopie e report dell’intelligence (CIA, FBI, NSA...) che studiano religiosamente. Come dicevo prima: anni Settanta, quasi Ottanta. Ma le divergenze con 24 non finiscono qui. Il ritmo della saga di Jack Bauer è travolgente. I personaggi non si fermano mai. Non dormono. Non mangiano. Il montaggio è frenetico, da cardiopalma. Lo split screen è multiplo e l’attenzione frantumata. Il senso di urgenza toglie il fiato. Per converso, l’incedere di Rubicon è lento, pachidermico. La suspense, come il diavolo, sta nei dettagli, negli accostamenti improbabili, nelle battute a prima vista innocenti, nei falsi sorrisi. La macchina da presa indugia a lungo su figure immobili, immerse nell’oscurità o in penombra, in totale silenzio. Spazi vuoti, angolazioni paranoiche. Se gli agenti della CTU scrutano le mille finestre che si spalancano in un’orgia di pop-up sui loro monitor, quelli dell’API osservano la baia di New York, il traffico, i grattacieli, in cerca di risposte che non arrivano. Tanto 24 quanto Rubicon presentano una logica narrativa tipicamente ludica, ma se il primo è un videogioco, il secondo è un rompicapo, un enigma da risolvere con carta e penna (non a caso, le parole crociate assolvono un ruolo fondamentale a livello narrativo, come si evince anche dai titoli). In 24 i dialoghi svolgono una funzione accessoria e ridondante, insieme fàtica e retorica («Dov’è Kim?!?», «Dannazione»), mentre in Rubicon sono impregnati di pathos e gravitas. Persino il titolo - che viene “spiegato” nella penultima puntata della prima serie - si richiama esplicitamente al passato classico invece che al presente postmoderno. Pur essendo ambientato ai giorni nostri, Rubicon è girato nello stile dei film cospirativi degli anni Settanta: Perché un assassinio di Pakula, La conversazione di Coppola, I tre giorni del condor di Pollack. Anche qui, ognuno è tragicamente solo nell’immenso vuoto che c’è. Nessuno si fida di nessuno. Niente è come sembra. Le epifanie sono il frutto di un lungo e attento studio (e c’è sempre l’arguzia e la perseveranza umana dietro alla soluzione del puzzle, mai un calcolatore). Le fasi di azione sono sporadiche e per questo memorabili. L’alter ego di Jack Bauer, Will Travers (un nome una profezia, traducibile come “attraverserà”: W/will traverses the Rubicon?), è calmo e pacato, afflitto da un senso di quieta disperazione legata alla perdita di moglie e figlia negli attentati dell’11 settembre. Ma la vera star dello show è il sublime Truxton Spangler (Michael Cristofer: sceneggiatore, regista, attore... un personaggio epico, sullo schermo e fuori), misterioso direttore dell’API, in apparenza affabile e cordiale, flemmatico e composto, ma in realtà letale e tagliente, burattinaio dalle mille risorse. Un uomo criptico, solitario, affossato nella poltrona di pelle, cartina dell’Europa alle spalle, tazzone di cereali, fumo nervoso, parlato biascicato. Rubicon è una serie originale, peculiare, diversa. Proprio per questo motivo temo per il suo futuro, specie in un’arena televisiva, quella statunitense, che salvo rare eccezioni (Mad Men innanzitutto) promuove l’omogeneità e le catene di fast food (quanti inutili spin-off di ‘CSI: Scena del crimine’ sono stati prodotti negli ultimi anni? Puro colesterolo cerebrale) invece del gourmet raffinato. Ben vengano i mondi paralleli e gli anacronismi televisivi. Da vedere e rivedere, in slow motion, con la tecnica del freeze frame. Instant cult.


(Matteo Bittanti, tratto dalla rivista Duellanti, novembre 2010, www.duellanti.com)

lunedì 14 maggio 2012

Unisci i puntini - Elementi pop di storia # 04 Generation Kill, di David Simon


Elementi pop di storia # 04: Generation Kill, di David Simon, Ed Burns, Evan Wright

'Generation Kill' racconta le memorie irachene del giornalista del Rolling Stone Ewan Wright che, durante i primi mesi dell'invasione in Iraq nel 2003, ottenne il permesso di essere affiancato al primo battaglione di ricognizione dei marines. 
Tutta la serie è sceneggiata da David Simon e Ed Burns, autore di un capolavoro assoluto  dei serial tv come 'The Wire', e  anch'essa è prodotta dall'emittente televisiva HBO.
E' un racconto orizzontale, scarno ed essenziale. Come la fotografia desaturata, niente aderisce allo 'spettacolo' della guerra, sia la messa in scena degli eventi bellici che le reazioni emotive dei protagonisti sfiorano il minimalismo (tra gli attori un bravissimo Alexander Skarsgard, visto anche in 'Melancholia' di Von Trier).
Non c'è nessun eroe, il mattatore assoluto è una ricerca di senso continua, un girare a vuoto nell'angoscia che sfocia spesso in surreale comicità grazie alle mosse dell'apparato in comando, generali e ufficiali in carriera. 
Stupenda ed emblematica la puntata finale, la settima, che si chiude sulla musica di Johnny Cash, 'The man comes around'.

"Hear the trumpets, hear the pipers / One hundred million angels singing/ Multitudes are marching to the big kettledrum/ Voices calling and voices crying/ Some are born and some are dying/ It's Alpha and Omega's kingdom come".

Di tutti gli sforzi, di tutti i sacrifici e di tutte le assurdità perpetrate rimane solo un enorme senso di colpa e di inutilità, l'amarezza, il tarlo di non essere più la potenza che esporta giustizia.


Luca Tanchis

Unisci i puntini - Elementi pop di storia # 03 The Pacific, di Steven Spielberg


Elementi pop di storia #3: The Pacific, di Steven Spielberg, Tom Hanks, Gary Goetzman

'The Pacific' e 'Generation Kill', due serie televisive come uno studio bellico sulla volontà di onnipotenza espansionistica a stelle e strisce, ma anche due stili di narrazione nettamente differenti, metafora di una partenza ruggente e giustificabile a prima vista, e di un approdo svuotato da qualsivoglia urgenza democratica e morale.
The Pacific è una serie ambientata nel '42 che racconta la presa del Pacifico, dallo sbarco di Guadacanal (come 'The thin red line' di Malick) fino a Iwo Jima (teatro delle bandiere e delle lettere di Eastwood). Prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, insieme al network HBO, non nasconde nulla della poetica spielberghiana, il mostruoso dispiegamento tecnico, l'esposizione spudorata dell'invincibilità americana con nemici schiacciati e uccisi come formiche (solo al nono episodio si intravede una rapida parvenza di umanizzazione dei giapponesi con una esplicita citazione di 'Full Metal Jacket'), la sacra famiglia statunitense che a casa aspetta e produce, come anello mitologico che tutto tiene. 
Anche il commento sonoro di Hans Zimmer è senza freni, un miele epico che cola quasi ininterrottamente per tutti i dieci episodi. Non è tanto il messaggio (che potrebbe anche interessare relativamente), ma è il linguaggio visivo senza ambiguità, tecnicamente irresistibile nel disseminare esaltazione verso simboli che sembrano sposare e giustificare politiche imperialiste piuttosto 'invasive'.
Un prodotto commerciale perfetto, si dirà, ma considerando Spielberg uno dei grandi del nostro tempo, viene da chiedersi quando mai si abbandonerà a un fare più libero, più vicino a A.I. - Intelligenza artificiale o L'impero del sole che a opere venate di committenze patriottiche o genetiche.


Luca Tanchis

martedì 11 ottobre 2011

Bref, di Kyan Khojandi & Navo


Insomma, Marla è una con cui mi vedo. Un giorno mi fa: "tu non sei come tutti gli altri.." Non ne sono tanto sicuro perchè, come tutti gli altri: Quando mangio il tiramisù, tossisco per colpa del cioccolato in polvere, ho già inviato una seconda mail con nell'oggetto "con l'allegato è meglio!", ho già smontato una molletta da bucato, mi sono già frugato le tasche dicendo "mi spiace, non ho monete", sperando che le mia chiavi non facessero rumore, mi serve un'ora per rimettere il copri-piumino, ho già cominciato i labirinti dei giornalini dalla fine, ho soffiato su qualcosa che era caduto per terra prima di mangiarlo, ho già messo dell'acqua a bollire, l'ho dimenticata, l'ho rimessa, l'ho ridimenticata, l'ho rimessa ancora, mi sono fatto un tè e ho dimenticato di berlo, mangio senza volerlo la carta dei panini, la plastica degli involtini primavera e l'alluminio del cioccolato, a casa ho una scatola di caricatori di cellulari che non mi servono più, ho già odorato i miei calzini per sapere se potevo rimetterli, faccio sempre troppa pasta, mi prometto di smettere di fare troppa pasta, allora metto meno pasta e non mi basta, ho 15 "Vale" e 11 "Peppe" in rubrica, ho detto di aver sentito parlare di qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare, non conosco la mia taglia dei pantaloni, ho decine di mezze bottiglie d'acqua accanto al letto ma non oso più berle, conservo sempre le ricevute quando pago con la carta di credito per paura che mi rubino il numero ma non ho mai controllato se sulla ricevuta c'è il numero, mi sono chiesto se c'era una telecamera nel bagno di casa dei miei amici, non so mai quale bottone del citofono apre la porta allora li schiaccio tutti, ho già messo una chiave USB prima in un senso, poi nell'altro, poi nell'altro ancora, mi sono detto che sono come tutti gli altri, allora come tutti gli altri ho risposto: "Certo che no.. io non sono come tutti gli altri.."


Bref, di Kyan Khojandi & Navo

Traduzione di: Carlo Ligas