lunedì 30 novembre 2009

Nemico Pubblico (Public Enemies) di Michael Mann - 2009

L’ultimo film di Michael Mann è il nocciolo di una vita vissuta alla velocità della luce, le ultime otto settimane spericolate del rapinatore di banche John Dillinger, e la sintesi della sua evoluzione artistica, della perfezione formale nell’utilizzo del digitale, dei suoi inimitabili codici narrativi - qui asciugati all’osso.
La mitologia del regista americano, quella fatta di duellanti che si sfidano, si confondono, si mescolano e si immedesimano nella controparte (Manhunter, Heat, Collateral, Miami Vice), viene incalzata fino ad un punto di non ritorno, sia a livello formale che dal punto di vista narrativo. Resteranno delusi gli amanti del gangster-movie tradizionale e chi ancora chiede ad una pellicola la crescita di tensioni classiche, l’eterodossia dell’esposizione, del conflitto e dello scioglimento. Ci sono anche qui, ma in maniera diversa, esposte in una poetica che, sin dagli esordi della serie televisiva di “Miami Vice” , non scende al minimo compromesso, che usa il genere e i budget hollywoodiani (quest’ultima fatica è costata 
80 milioni di dollari) per la sua personale riflessione sulla tecnica e il linguaggio cinematografico. Il suo digitale è una nuova lingua, un territorio liminare, che richiede un abbandono totale, ma che contraccambia con un esperienza estetica ed emotiva unica.




E’ una nuova immersione, non esistono più soggettive o controcampi: siamo costantemente adagiati sul corpo della messa in scena, viaggiamo sicuri su ogni scheggia, su ogni sguardo, come una remora sullo squalo. La camera accarezza continuamente il muso delle vetture in movimento, le sparatorie sono riprese a pochi centimetri dalla canna del fucile, come fossero una falsa soggettiva dell'automobile, del proiettile e ne diventassimo la traiettoria. Non siamo più spazio inerme da impressionare ma parte in causa di un iperrealismo di foggia straordinaria. Tutto pare sparpagliato, sezionato, un puzzle che cola e ci macchia di transitorio, di energia che si perde, sprofonda e si trasforma. La tecnica che si usa e la storia che si racconta si compenetrano, sembrano un tutt’uno: un salto nel vuoto. Pallottole che deflagrano sui muri, sulle finestre, rumori, urla, spari (piace molto l’assenza di accompagnamento musicale durante le sparatorie, asciuga la violenza in un realismo ancora più ipertrofico) nessuna visione d’insieme, con un uso devastante della fotografia di Dante Spinotti, fatta di cromatismi, sfumature, chiaroscuri sovraesposti (con una sparatoria nel bosco da antologia). Tutte le figure sono prese nell’atto di uscire dal campo, le inquadrature decentrate, in una sospensione tra l’esserci e il nulla. Una corsa ripresa dalla metà fino al traguardo. Senza partenza e rincorsa. I muscoli della storia già tesi, pieni di acido lattico: solo coinvolgimento, azione e dannazione, spargimento di sangue e di baci. Eppure, tra forma e apologo, ne deriva un totale esaltante. Ogni scena, ogni inquadratura è l’essenziale di quell’attimo, ogni gesto netto e rapido ma poroso di conseguenze e rimandi.



E in questa “sfuggenza” poteva essere travisata anche l’interpretazione di Johnny Deep, quando invece la sua aderenza a Dillinger non è fatta di attriti ma di intima sicurezza, nessuna posa classica e persistente da gangster di genere ma l’espressione pulita di un durante, la calma assoluta di un uomo ben conscio di essere un fantasma con un destino già scritto, da raggiungere con rassegnato furore.

Deep/Dillinger è un apparizione che sfugge via anche dalla trama, un attentato all'iconografia epica; quasi invisibile come nella scena al cinema, dove tutti vedono la sua foto segnaletica proiettata sul grande schermo ma non lui seduto nelle file centrali. Come nella splendida sequenza in cui entra, trasparente, nel commissariato di polizia senza essere riconosciuto o come muore all’uscita del cinema, dopo aver visto un film a lui ispirato, fluttuando, danzando leggero tra la folla, mentre la sua nemesi, Melvin Purvis (un Christian Bale preciso ed essenziale), fino a quel momento implacabile, è talmente impacciato da non riuscire neppure ad estrarre la pistola. Johnny Deep recita uno spettro, uno sconosciuto che passa davanti alla piccola digitale di Michael Mann mentre quest’ultimo scatta forsennatamente foto ricordo del 1934 perché la macchina del tempo sta per ripartire.


Come dice Ghezzi, in un momento di lucidità, “questo è il cinema che ci tocca senza che lo guardiamo, che lo riconosciamo”, che arriva per vie traverse e magiche. Charles Winstead (il marmoreo Stephen Lang), l’agente che ha ucciso Dillinger con un colpo di pistola alla nuca, porta a Billie Frechette (una bellissima Marion Cotillard) le ultime parole del suo amato in fin di vita: ”Di’ a Billie da parte mia “Bye Bye Blackbird”. Poi chiude la porta della stanza per i colloqui e chiude il film. Il sogno futurista del regista di Chicago, termina come il più classico dei film di John Ford, come fosse un rispettoso passaggio delle consegne tra un glorioso, antico modo di raccontare e queste nuove visioni arse dalla febbre.

Voto: 8,5
Luca Tanchis

lunedì 9 novembre 2009

Antichrist (Antichrist) di Lars Von Trier - 2009


Antichrist (Antichrist), di Lars Von Trier (2009)

Il figlio di una coppia muore tragicamente, cadendo da una finestra rimasta aperta, mentre i due genitori stanno facendo l'amore. Il marito, psicoterapeuta, decide di aiutare personalmente la moglie a superare il trauma, pur conscio della non ortodossia del comportamento. I due decidono di ritirarsi in una casa nel bosco di Eden allo scopo di vincere e superare le paure recondite della moglie, legate alla presunta malignità della natura. Il percorso terapeutico porta a svelare l'ambiguità della donna, che aveva passato l'estate precedente con il figlioletto proprio a Eden, per scrivere una tesi sulla persecuzione delle donne identificate come streghe. Quando il marito scopre le pulsioni distruttive della moglie, la vicenda diventa follemente tragica e si consuma in una spirale di crescente violenza semi-cosciente.

Regista: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier

Stars: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg, Storm Acheche Sahlstrøm


LUI (Willem Dafoe) e LEI (Charlotte Gainsbourg) sono marito e moglie, mentre fanno l’amore il figlio molto piccolo precipita da una finestra lasciata aperta. Il dolore e il senso di colpa è fortissimo, LEI cade in una depressione popolata da incubi e, al risveglio da uno dei peggiori, il marito psicanalista le domanda :“Cosa stavi sognando?” “Il bosco” “E’ strano perché tu eri quella che voleva sempre andare nel bosco. Cosa ti fa paura del bosco, cosa ti spaventa?” “Tutto quanto” “Dimmi cosa pensi che ti possa capitare nel bosco” “Eden”. LUI quindi decide di portarla nell’Eden, una baita immersa nel bosco, dove lei mesi prima, in compagnia del bambino, ha preparato la sua tesi di laurea sulla stregoneria.


Si è parlato di un lavoro nato per curare la depressione in cui era caduto Lars Von Trier, ma il risultato è ben lontano dall’essere un vaso colmo di spleen accessorio, dove sono delegate le brume di una fase cupa; piuttosto pare abitato da tutta la cosmogonia del regista danese. Dentro c’è tutta la sua maestria, la sua pittura, la sua letteratura, le sue visioni, i suoi omaggi (il film è dedicato a Tarkovskij) e soprattutto la sua maestosa abilità nel domare strutturalmente questo sfarzo di materiali. Si guardi il ralenty estenuante della camminata nel bosco: lentissima, effettuata con una macchina da presa speciale, così pigra da sembrare una fotografia, così lenta da innescare i nostri neuroni, accendere il nostro sguardo su ogni punto dell’inquadratura per l’assenza di movimento: “Io faccio sempre lo stesso film, racconto le mie paranoie e fissazioni (come il sesso) che sono le stesse di quando ero un ragazzino: cambio solo la forma, il genere cinematografico...Cambio anche le identità esterne dei personaggi: mi hanno sempre accusato di misoginia e in Antichrist “lei” si interessa della persecuzione delle streghe, ho seguito per un po’ la terapia cognitiva e “lui” è un analista...Le mie opere dicono che l’uomo vuole essere stupido e che, riuscendoci, distrugge ogni cosa. Per quanto riguarda il mio “ritrovarmi” nei personaggi femminili, penso dipenda da come ci si sente all’interno delle categorie e dei ruoli sessuali: sinceramente, io mi sento femminile per la sensibilità e l’attenzione alle emozioni umane. Non ho idea da cosa dipenda, dovrei indagare nella mia storia familiare e personale e non voglio farlo. So che è così fin dai primi titoli, anche se - passatemi il termine - con gli anni penso di essere “penetrato” sempre più nella psicologia femminile. Mi trovo anche molto bene con le mie attrici, in genere...”(L. Von Trier)
E’ il film stesso che trasuda femminino da ogni immagine. Ferisce nel rovo delle mille spine determinate dalla splendida fotografia iper-risoluta, acquieta nel ventre caldo, persuasivo, dei campi lunghi e nei meraviglioso giochi e rimandi pittorici: Bosch, Bruegel, Durer, Dorè. 
Definire Von Trier misogino è stupido. Tutto quello che faccio nel film volevo farlo, e mentre lo facevo ne ero assolutamente consapevole. Sono convinta che il mio personaggio sia il riflesso di Lars. Non mi ci sono proiettata; la perdita di un figlio sarebbe stata insopportabile per me. E’ in Lars che mi sono proiettata.” (C. Gainsbourg)


LUI e LEI non hanno nome, interessano solo in quanto esseri umani con le loro reazioni, sono due perfetti archetipi. La naumachia tra uomo e donna è la battaglia di Von Trier stesso: la sua lucida razionalità di intellettuale contro la sua sensibilità straziata di artista. “Io sono lui, nel film: Lars è “lei”. I problemi fisici e psicologici e il panico che io/”lei” sentiamo sono i suoi. Credo sia per questo che mi sono unita completamente, affidata totalmente a lui. E ho spesso avuto l’impressione che a lui succedesse la stessa cosa. Con Von Trier sul set non hai la sensazione di lavorare: non provi, non ripeti le scene, non hai una sceneggiatura, se gli fai domande non risponde, non discute con te del film. E questo è bello, ti lascia molto più libera alla fine. Per esempio ho iniziato a “studiare” solo quindici giorni prima di cominciare le riprese.” (C. Gainsbourg)
Il senso di staticità e immobilità di cui è pervaso il film è altresì segno dell’inattuabilità di giungere ad una espiazione attraverso le pastoie di un dolore comune; la coerenza logica, la scienza, di LUI non argina la piena emotiva, ancestrale, di lei : il Caos regna. Una volpe parla, una cerva dà alla luce un cucciolo già morto, le ghiande piovono minacciose sul tetto dell’Eden e gemmano sulla carne di LUI. LUI e LEI entrano in un altro luogo dove a governare sono le forze del male, l’incomunicabilità, la radice di una dissonanza primigenia.


Quando lui viene circondato da un brulicare di donne senza volto (streghe?), sono giunte a salvarlo o a condannarlo? Dobbiamo redimerci o resistere alla potenza, alla febbre, alla voglia di un diluvio amniotico che ci riporti nel grembo di Madre Natura? L’Anticristo è l’uomo che non si libera del suo raziocinio per essere invaso, tracimato, immerso nella sensualità femminile e istintiva della natura?
La grandezza di questo film risiede nell’esistenza di un autore che finalmente, dentro una scatola formale perfetta, non argomenta di basse contese tra uomini, lotte per possessi, dolori contingenti, minima moralia (come se poi ci fossero vincitori e vinti…), il regista danese mira più in alto, dove è facile essere derisi o travisati, essere scambiati per Barabba. Ma in tutta questa canicola di voci (sincere o prevenute), risalta, senza ombra alcuna, la sua grandezza stilistica, il suo approcciare il mezzo cinematografico con una capacità visionaria al contempo classica e modernissima, chiusa in alcune forme narratologiche eppure aperta (a film terminato l’Eden è ancora lì, quella natura vischiosa e onnivora continua a germogliare e trasformare), sfruttando tutte le possibilità dinamiche dell’inquadratura come sanno fare pochi altri.


Come le streghe del “Macbeth”, Lars, coadiuvato da due attori incredibili, ci prepara un brodo infernale:

"PRIMA STREGA: Tre volte il gatto-tigre ha miagolato.

SECONDA STREGA: Tre volte e una il riccio ha mugolato.

TERZA STREGA: L'arpia grida: E' l'ora, è l'ora."

Gorgoglia il suo immenso calderone, e questa miscela stregonesca è folta, densa e fantastica. Corposa è la sua violenza espressionista con cui si impossessa voracemente della ferita tra uomo e donna e ne dà un equivalente: non c’è scorcio o un parziale, ma un eterno “primo piano interiore” dedicato al nostro mistero come esseri umani. A fine film abbiamo l’impressione che, se chiudessimo per un istante gli occhi, ci sentiremo sprofondare, intrappolati nel ventre di una verde Madre Natura, avvinghiati a tutto quello che abbiamo amato e che non abbiamo compreso appieno. “ Lars è accusato di puntare alla cieca provocazione, fine a se stessa? Lars è un autore... Per quanto mi riguarda io non mi faccio domande: mi basta sapere cosa vedo, cosa mi accadrà, cosa mi succede intorno...sì il mio cervello è aperto a tutto. Io sono la storia, perché dovrei sapere altro? Credo sia questione di autoconsapevolezza, in questo modo mi sento un po’ meno responsabile e un po’ più libero. Perché dover motivare tutto? Nel mondo ci sono anche cose bellissime che è impossibile spiegarsi. Come risponde Bob Dylan in un documentario su di lui, a chi gli chiede insistentemente le motivazioni di un brano, «è una canzone, la mia canzone». Chi non coglie questa soggettività, uccide la poesia.” (W. Dafoe)¹


Postilla iconografica: Stanco e malato, mentre era a Nizza, Edvard Munch rammenta con lucidità l'attimo in cui è germinata l'idea de 'L'urlo': "Camminavo lungo la strada (in un punto panoramico di Oslo chiamato Ekeberg) con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse improvvisamente di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la Natura."

Voto: 9
Luca Tanchis

Note:
¹ (Tutte le dichiarazioni di Lars Von Trier, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg sono tratte dalla rivista Duellanti, ottobre 2009)

venerdì 6 novembre 2009

Il Nastro bianco (Das Weisse Band) di Michael Haneke (2009)

Se non fosse per il bianco e nero, ogni singolo fotogramma di questo film potrebbe essere ritagliato, incorniciato e venduto in maniera fraudolenta come un’opera di Grant Wood. E’ infatti un’ inarrestabile serie di scenari spaventosamente incantevoli e solitari, magicamente desolanti e dispersivi, nei campi di grano, nella sterminata campagna coperta di neve e di sole, fino ai primi piani strettissimi su volti inespressivi di pelli d’alabastro, ingabbiati nella colpa celata, nell’austerità del rigore. Una regìa meravigliosamente stabile e statica quella espressa da Haneke: camere immobili su grandi piani dove i personaggi si muovono come in un vero e proprio dipinto animato ed incolore, o fisse su porte chiuse da cui, assieme ai protagonisti, entrano ed escono orribili dubbi, scivolano come fredde correnti d’aria sospetti inconfessabili, atroci, diaboliche, graffianti paure. L’ultima palma d’oro compie un salto felino sul male assoluto, il male nel suo stadio primordiale, universale ed antropologico, il più umano e disumano allo stesso tempo: la sua scoperta, la sua pratica, la sua messinscena compiaciuta e viscerale, feroce. Un salto che lo proietta ben aldilà del brusìo creato dall’assegnazione del premio da parte di una giuria la cui presidentessa (Isabelle Huppert) si è vista solo qualche anno fa assegnare il titolo di miglior attrice sulla croisette per un film (La pianista) diretto dallo stesso Haneke. 

In un minuscolo villaggio protestante della Germania del nord di inizio novecento, strutturato su di una ferrea piramide gerarchica, dove il potere temporale e quello spirituale si sostengono, complici, e annientano ogni forma di diversificazione ed ogni evoluzione dallo status quo feudale, d’improvviso sinistri e angosciosi episodi cominciano a colpire gli esponenti di questo apparentemente intoccabile ordine sociale: il medico, simbolo della pubblica sanità ma autore di sordide azioni private, il capo dei massai, brutale amministratore del giogo che opprime i lavoratori, il Pastore, garante della morale che non può che passare dalla severità e dalla reciprocità dell’azione-punizione, fino al suo apice, il Barone, padrone di cielo e di terra, colpito nell’intimità della sua famiglia. La cronaca di quegli anni viene narrata da una morente voce fuori campo, quella dell’ allora giovane istitutore, piombato in seno a questa comunità rurale ed in braccio agli oscuri eventi che la colpiscono come scudisci sulle sue certezze più profonde e fragili.
L’analisi della violenza che ne scaturisce è lucida e terrificante, braccante negli angoli meno visitati dalle letterature di ogni genere, schiacciante nel constatare che il male è insito nella nostra coscienza e che quest’ultima ne fa l’uso che farebbe un cefalopode del suo inchiostro: schizzarlo via con rabbia come difesa, estremo tentativo di confondere la realtà, mistificarla, affinché nulla sia più comprensibile. Saranno quindi gli stessi strumenti di questi esercizi abusivi di potere a ritorcersi contro chi li detiene: la mano vendicativa del divino, la corrosiva diffidenza verso gli altri, l’esclusione della diversità non omologata al volere comune. Lasciando l’unico diritto alle congetture, l’autore abbandona la storia in preda ad un evento altresì tragico (la Grande Guerra), rivoltando ogni punto di vista, fiondandolo verso la medesima atmosfera di terrore imminente, con il medesimo virulento male a dettarne i tempi, abile direttore d’orchestra, a suo agio anche su scala planetaria, come lo era stato nel particolare, nel microscopico inferno creato incarnando un nastro bianco di purezza.

Voto: 8
Carlo Ligas

martedì 3 novembre 2009

SIN NOMBRE (SIN NOMBRE) DI Cary Fukunaga (2009)


Non è facile parlare di cinema. Non perchè il primo coraggiosissimo lungometraggio di Cary Joji Fukunaga (padre giapponese, madre svedese, nato negli USA e vissuto in tre continenti) non sia una buona prova della settima arte, al contrario, ma perchè tali e viscerali sono le emozioni suscitate da rendere forse meno determinanti certi dettagli, seppur rimarcabili. Questo film (premiato alla regìa al Sundance e dalla giuria a Deauville) è un nodo stretto alla gola dalle tematiche affrontate, talmente taglienti da lasciare in imbarazzo al solo realizzare che tutto ciò non è plausibile, ne’ verosimile. E’ vero. E su questa terribile alternativa si struttura il film: delinquere o fuggire. Il terribile fenomeno delle Maras del centroamerica, che non sono delle bande di teppisti in lotta intestina come spesso si tende a vederle in occidente ma delle effettive ed efficienti organizzazioni criminali ramificate (fino a L.A. nel film, dove in realtà la prima è nata da immigrati salvadoregni, la "Salvatrucha" o "13" o "MS 13", protagonista del film) che controllano lo stesso traffico di migranti verso gli Stati Uniti, i loro connotati terribili di protettività e supplenza sociale laddove le famiglie o lo stato sono presenti a stento nel vocabolario, la loro capacità di affiliazione nei giovanissimi, Smiley ha ad occhio e croce dieci anni quando viene affiliato con tredici secondi di pestaggio (buon per lui non aver scelto la principale rivale, la 18..) e qualche giorno in più quando ammazza per la prima volta, il senso gerarchico dei tatuaggi come galloni, delle armi da fuoco costruite con tubi idraulici, l’irreversibilità del morire per la Mara o farsene uccidere. Il controcanto è dato da una flebile speranza, figlia indesiderata della disperazione e dell’istinto più bieco, non la volontà di raggiungere qualcosa ma la schiacciante consapevolezza di non poter fare altrimenti.
"Sin Nombre" ricalca il percorso del Road Movie senza forzare i tempi, con silenziosi passaggi introspettivi perfettamente tristi: Sayra è una ragazzina che rincontra il padre già espulso dagli U.S.A. e con lui tenta il viaggio della speranza su di un treno (e "su di un treno" significa proprio sul tetto). Il "marero" Willy ("Casper", nome di battaglia) è un giovane ormai perduto al quale la stessa Mara ha portato via la cosa più preziosa, che su quel treno ci finisce per obbedienza, salvo poi compierci l’irreparabile e non poter più tornare indietro, restandoci sopra, anch’egli privo di alternativa. La sottile ombra lunga della pellicola sta nell’aver mostrato il "prima" del problema dell’immigrazione, la terribile selezione naturale di intemperie, fame, polizia di frontiera come setaccio per i pochissimi che in realtà raggiungeranno la meta. Non ponendosi come intento principale quello di fornire un ulteriore punto di vista e analisi sui problemi che stanno nel "poi", ovvero le difficoltà di integrazione, la ghettizzazione, argomenti già ampiamente discussi, anche cinematograficamente.


Una fotografia vivace accompagna virtuosamente la storia, rossa sul sangue profuso, disperso come un allucinante voodoo sacrificale. Verde sulla jungla, bellissima e sconfinata, a dispetto della disarmante assenza di prospettive che si respira attraversandola. Gialla di polvere sul dolore e sul costante amaro che costringe ad ingoiare, mentre questi due fragili destini si uniscono, spinti dall’umana necessità del bene, del buono, come universale arsura d’amore, che dissetandoli li avvelenerà.

Voto: 7
Carlo Ligas

martedì 27 ottobre 2009

Gonzales - Solo Piano (2004 - Kitty Yo), di Massimo "Mancio" Mancini


"Many whispers behind a laugh"


La produzione musicale attuale vive al 95% di apparenza, al 4,99999% di sostanza. Ma questi sono giudizi. Con Gonzo i generi non servono perchè sono presi a calci. Gonzales non è da nessuna parte. È semplicemente su una sedia, forse anche con l'alito alcolico. 
Stressato, piange e ride. Davanti a lui un piano. Beninteso, non compone, non nel senso intelletualistico e sistematico del termine. Semplicemente si apre. Così, dopo aver passato un decennio a produrre idee per dischi che vanno dal pop elettronico all'hip-hop, confezionando live performances eccentriche e guadagnandosi la fama di "schizzato", Gonzales stupisce tutti e rutta al mondo se stesso nudo a mezzo piano: Solo piano.



Non altro che 16 acquarelli. Il suono nitido del piano dal registro caldo, si sentono le meccaniche che lavorano: espediente voluto, perchè hanno sapore di marionetta e compongono intimamente le note stesse. 
Non è possibile parlare di questo disco dall'esterno. Basta con le concretizzazioni. Ascoltatevelo, entrateci. Fatevi del bene, o del male. Concedetevi poco più di 35 minuti di 16 sussurri agrodolci, intimi come il tramonto quando lo guardate da soli, o se volete il tè fumante mentre fuori diluvia e la vita chiede spiegazioni.



In pillole: c'è un girare intorno al minore che crea una sospensione, quasi interrogativa, accresciuta dalla brevità dei brani. Gogol è la summa di tutto questo e apre le danze, mistica come una Gnossienne. Ma l'ironia appare già nel maggiore del tema centrale. E basta...non è possibile oggettivare oltre. Gogol, Dot, Armellodie, Gentle Threat (fatevi avvolgere dal calore dei suoi toni bassi, al buio possibilmente, non abbiate paura, chiudete gli occhi, è terapeutica), Salon Salloon, Basamati e One note at a time sono la carta da parati che al momento tappezza le mie serate. 

Hanno tirato in ballo Satie come ispirazione. Gonzales non solo deve conoscerlo, ma lo vive, perchè genuinamente, non da falsario, produce degli shock emozionali intensissimi che rievocano l'autore delle Gymnopedies e delle Gnossiennes. 
Ma questi shock non sono prestiti: sono suoi. Intimo, dolcissimo, a tratti di un'ironia spiazzante e anche teatrale, ma senza finzione. Non ci troverete solo una cosa: banalità. Fatevela voi la recensione.



Massimo "Mancio" Mancini

Bio:
Chilly Gonzales, pseudonimo di Jason Charles Beck (Montréal, 20 marzo 1972), è un pianista canadese residente a Parigi.
Sebbene sia molto conosciuto per il suo primo album (MC ed elettronica), è anche pianista, produttore e cantautore. Collabora regolarmente con i musicisti canadesi Feist, Peaches e Mocky. Ha inoltre collaborato con Jamie Lidell nell'album Multiply e con Buck 65 nell'album Secret House Against the World.
Dopo esperienze musicali eterogenee, nel 2004 Gonzales rivela un nuovo volto, con un album interamente strumentale, Solo Piano. Acclamato dal pubblico e dalla critica, si ispira al lavoro del pianista Erik Satie. Rimane il disco più venduto di Gonzales.
È fratello del compositore Christophe Beck.

domenica 18 ottobre 2009

ANDROMEDA (The Andromeda Strain) DI ROBERT WISE (1971)



Nel 1971 Robert Wise, dopo i grandi successi di " Ultimatum Alla Terra", "Lassù Qualcuno Mi Ama", "West Side Story" e "Tutti Insieme Appassionatamente", gira questo affascinante lungometraggio di fantascienza non lontana dai canoni di una realtà plausibile, tratto da un romanzo di Michael Crichton (che nel film fa un piccolissimo cameo). Una misteriosa minaccia arriva dallo spazio a bordo di un satellite rientrato sulla terra e precipitato vicino a una cittadina nel deserto dell' Utah. Sceneggiatura robusta e ambientazioni curate unite a una regia di grande stile, che nell'inquadratura coniuga elementi geometrici e pseudo-tecnici in uno splendido gioco modernista, ne fanno un lavoro seducente. Riuscita pure la caratterizzazione sfumata dei personaggi, con dei funzionali, piccoli, particolari che nella stragrande maggioranza degli script odierni di genere, viene tralasciata a vantaggio degli effetti speciali o del montaggio triturato, così perdendo spesso il transfert con i protagonisti. Certo alcune scene e alcune lungagini denunciano chiaramente l'età del film, ma comunque rimane una splendida sensazione di allarme emotivo e di piacere estatico che lo collocano nella fortezza delle opere classiche senza età. Nel 2008 Ridley Scott ha prodotto una versione tv in due puntate dello stesso romanzo.


Voto: 7,5

Luca Tanchis

giovedì 15 ottobre 2009

Mères et filles di Julie Lopes-Curval (2009)


                               
Il principale merito che si deve riconoscere alla giovane e promettente Julie Lopes-Curval, oltre ovviamente quello di aver diretto con sapienza questo gradevolissimo lungometraggio, è senz’ombra di dubbio l’ essere riuscita a conciliare e far coesistere due entità vicine ed affini ma storicamente restìe all’andare a braccetto: il femminismo e la femminilità, attraversando con discrezione e buongusto tre generazioni di donne. L’espediente è semplice e per questo molto efficace: Audrey, (meravigliosa Marina Hands) è una trentenne subissata dal suo lavoro che dal Canada ritorna a casa (le coste aquitane dei rossi rubino) per rendere visita ai suoi genitori e per dedicarsi in un contesto più sereno ad un nuovo importante progetto di lavoro, trascinandosi appresso una valigia di malinconia ed un cofanetto con un piccolo segreto; da subito appare radicato il contrasto con la madre Marine (Catherine Deneuve, che sa sempre scegliere con attenzione i propri ruoli), apparentemente insanabile, sempiterno nei risvolti freudiani del caso, al punto di far decidere alla protagonista di trasferirsi in quella che fu la casa natale della madre, ormai inabitata. E’ qui che Audrey trova nascosto un vecchio quaderno di ricette e confidenze manoscritte dalla nonna, scappata illo tempore abbandonando la famiglia e provocando uno scandalo ancora riecheggiante, un impronunciabile taboo familiare. In questo momento comincia il confronto a tre vite delle donne (“madri e figlie” appunto) durante il quale la nipote si affascina progressivamente alla figura della nonna, una donna troppo moderna per l’epoca in cui ha vissuto, cercando pazientemente di far rivedere a sua madre le severe opinioni edificate artificialmente per reggere al trauma dell’abbandono.

Assolutamente lodevole la maniera in cui la regista confeziona tutto questo: nessuna interruzione della trama con ruvidi flashbacks bensì microscopici incontri quasi surreali tra Audrey e Louise (la nonna, chiamata per nome da tutti, quasi a voler marcare il distacco); usando quindi l’abitazione come passaggio spazio-temporale tra le due realtà storiche così diverse. A tal proposito va sottolineato l’impeccabile lavoro di costumi e decori che con sobrietà fanno andata e ritorno verso la metà del ‘900 nel giro di veramente pochi secondi, accentuando garbatamente il progresso sociale tenacemente raggiunto dalle donne, senza pertanto alcuna velleità ”rivoluzionaria” ma testimoniandone la perseveranza quotidiana. Il film scorre in una certa atmosfera di ipnosi dalla quale ci si risveglia solo nel momento in cui, stupiti, ci si rende conto di aver partecipato ad una meravigliosa inchiesta condotta portando i sentimenti come uniche prove.
Colonna sonora di prestigio, con pescaggi fortunati nel tradizionale, nella classica e pezzi composti ad hoc per il film da Patrick Watson.



Voto: 7
Carlo Ligas

domenica 4 ottobre 2009

AMANTI CRIMINALI (Les amants criminels) DI François Ozon (1999)

“Noi che guardiamo siamo tutti criminali, siamo dei guardoni. E seguiamo l’undicesimo comandamento: “Non farti scoprire”.
(Alfred Hitchcock)

Alice e Luc sono due adolescenti della provincia francese, insieme uccidono Said, un loro coetaneo, e nella fuga si perdono (ritrovano) in una selva oscura.


Un crimine in società sancisce un legame più sacro e impetuoso di un matrimonio, di un amore proibito, di un figlio. La complicità di un omicidio è il vincolo che il magnifico Ozon, fondendo la favola con il noir, derubrica dalle efferatezze e consegna alle "honeymoons" sognate: come Malick ne “La rabbia Giovane”, come Van Sant in “Elephant” e, chiaramente, come Arthur Penn in “Bonnie and Clyde”. La cronaca di una deriva, dell’amore immaturo, fragile e dannato, suscitato dalla bellezza dei corpi e da “una magnifica sorsata di veleno” (Alice legge “Notte dell’Inferno” di Rimbaud in classe mentre guarda la vittima), sembra incantarsi felicemente alla fiaba del bosco. Tra orrori e iniziazioni etero e omosessuali, l’Orco che li cattura e segrega nella sua capanna, paradossalmente offre ad Hansel e Gretel un percorso di redenzione al riparo del mondo “realmente” implacabile. Per un attimo la convinzione che, grazie ad azioni sconsiderate, i loro sogni possano realizzarsi, si congiunge a grandiose, sublimate, inquadrature Ozoniane: tutti gli animali del bosco partecipano alla loro “prima volta”.
E qui la favola termina; come finisce l’adolescenza, all’improvviso, lasciando un recapito inesistente. Da qui in poi si entra in un altro paese, si sorpassa la dogana. L’ultima goccia amniotica si è asciugata, è evaporata dalla pelle imberbe di Luc e Alice. Dopo c’è il castigo, la fine, l’ultimo sguardo sugli amori impossibili.


Francois Ozon gira a un centimetro dalle pelle dei protagonisti (una bravissima Natacha Regner e un incredibile Jeremie Renier) con una tale lucidità che infine risulta più increscioso il nostro speculare su questi misfatti pruriginosi e catartici che i delitti dei giovani criminali. Come Hitchcock, il francese accresce la suspense della nerissima trama con un atto d’amore che sembra non compiersi mai, per colpa (merito) di una ragazza bionda, glaciale, persa, superiore.
Come Larry Clark è spietato nel rappresentare un mondo, quello dell’adolescenza, eccitato nella sua irresolutezza.
Come Resnais è talmente bravo da farci intravedere, sulla cornice, un documentario del film stesso con una fluidità che delinea la consistenza di questo grande metteur in scene.
Mentre guardiamo siamo dentro, siamo fuori, ne siamo pervasi. Ozon e il suo senso di artefatto (si veda la scena dell’atto sessuale tra Luc e Alice, circondati da animali posticci) sono una studiata premessa per poi assalirci, invadere noi e i protagonisti, dell’illuminazione e dell’epifania che schiude la consapevolezza.
Questo mimetismo con il reale, "come i disegni e le forme protettive degli animali, trascende lo scopo della rappresentazione, della sopravvivenza"¹, per regalarci il prestigio dell’illusionista e lo splendore di un cinema così lucidamente consapevole dei suoi meccanismi.


Voto: 8
Luca Tanchis



Note:
¹ La magia, la destrezza di mano e trucchi di vario genere hanno una parte non trascurabile nella sua narrativa. Servono a divertire o hanno anche un altro scopo?

L’inganno è praticato in maniera ancora più elegante da quell’altro V.N. che si chiama Natura Visibile. La scienza attribuisce una funzione precisa al mimetismo, ai disegni e alle forme protettive degli animali, eppure la loro perfezione trascende lo scopo elementare della mera sopravvivenza. Nell’arte lo stile individuale è sostanzialmente tanto futile e organico quanto un miraggio. La destrezza di mano cui lei accenna non è molto più della destrezza d’ala in un insetto. Un bello spirito potrebbe dire che mi protegge dai poveri di spirito. Lo spettatore riconoscente è pronto ad applaudire la grazia con cui l’artista mascherato si mimetizza con lo sfondo della Natura fino a scomparirvi. 

(Intransingenze, Vladimir Nabokov, ed. Adelphi, 1994)

lunedì 28 settembre 2009

Del perduto amor e non solo: Moloko - Statues (2003)

“No, I won't interfere
I'm the only sound you'll ever need to hear
Listen to my breath so near
Allow me to be every noise in your ear”

Statues è il prodotto di due ex-amanti che collaborano un'ultima volta prima di intraprendere strade diverse. Poco meno di un'ora per posare sul filo dieci sfere con identità diverse che stanno tra loro in forte relazione. Musica e parole cucite insieme elegantemente per comunicare un distacco, una disillusione, un desiderio che non è mai appagato completamente: la passione, seppure incontrollabile, è sempre rivolta a qualcosa di perso, di sfuggito.
Familiar feeling sembra riprendere il filo dal successo più limpido dei Moloko, The time is now, con il climax iniziale dei violini ad anticipare il ritmo acceso e senza rullante, basso molto presente e suoni acustici (notevole anche il remix di Martin Buttrich). Come on ironizza, scandita da un pattern di batteria inchiodato. Cannot contain this con i pad di tastiera soffici e l'elettronica della ritmica, tende il minore su una dimensione più eterea e sofisticata. La title track Statues, lenta e densa, ha delle aperture di violini sul finale di un'intimità che solo dissonanze accostate con amore possono offrire: parla di statue, separate e immobili. Forever more è l'opposto della precedente: i suoni crescono e si gonfiano, così come il ritmo scandito da rullanti che ricordano la dance anni '90. Ma ancora una volta è l'abbandono a farla da padrone. Segue l'rnb di Blow By Blow, dal sapore anni '80, mentre 100% fotografa il mix di acustico, ritmo ed elettronica ricercato dagli ultimi Moloko. The only ones rallenta, ma solo nel tempo: arpe e fiati la fasciano dedicandola ai “prone to addiction, users, jokers and the joke”, per poi atterrare su I want you, ultima dinamite sostenuta del disco, ballabile e passionale. Gli archi aprono e chiudono anche i 10 minuti di Over and Over, epilogo riepilogo dell'album, disilluso, rassegnato eppure così denso di passione e violini sul pattern infinito di basso e batteria, dalle parole quasi sospirate e dall'arpeggio di chitarra che fa da sfondo alla scena. L'atmosfera è quella di una fine, non di un lieto fine incolore.

I Moloko sono:
Roisin Murphy (voce) e Mark Brydon (produzione, basso e altro).
Poco menzionati dalla critica, purtroppo, gli altri due musicisti cardine della band: Eddie Stevens, tastierista e arrangiatore eclettico e scabinato, stile arancia meccanica: synth, violini e fiati trascinanti. Paul Slowly, batterista unico, raffinato e potente.

Massimo "Mancio" Mancini

sabato 26 settembre 2009

Non ma fille, tu n'iras pas danser (Making Plans For Lena) diChristophe Honoré (2009)

Forse è vero. Forse è vero che l'amore ed il bene sono l'ascissa e l'ordinata dello stesso piano cartesiano. E di conseguenza essi implicano, per natura, le loro stesse tendenze all'infinito, positive e negative. E' quindi algebricamente possibile che ad elevati valori di uno ne corrispondano di infruttuosi nell'altro, vale a dire che un eccesso di amore, benché miri al bene, in assoluto può nuocere. Questa almeno sembra essere la tesi proposta da Christophe Honoré in questa commedia delicata e dispersiva. Lena (una Chiara Mastroianni sulla cui bellezza, ipocritamente, sorvolerò, assolutamente trasparente e vera, in piena maturità artistica) è una madre poco lontana dalla nevrastenia, fresca di divorzio, che raggiunge la sua famiglia nella campagna francese, in piena estate, meravigliosa girandola di tinte tenui, messa in risalto con discrezione ed efficacia dalle luci in opera. Qui, e non soltanto qui, comincia a scoprire la trafila di piccoli espedienti ed escamotages messi in atto da tutti i suoi cari per assecondarle una vita a loro (e per sua stessa ammissione) anche a suo avviso non perfettamente lineare. In questi pochi giorni bucolici si definiscono gli incroci che compongono la scarna trama, con angolazioni ben mirate sulle vite dei familiari di Lena: una splendida coppia di genitori (elevata interpretazioni di entrambi, Marie-Christine Barrault e Fred Ulysse), una sorella non meno in preda ad improvvisi rigurgiti di malumore (Marina Foïs, brava, molto brava) ed un fratello, Julien Honoré, sul quale il regista (suo fratello nella vita?) ha disegnato delle note di ironia ingenua, un personaggio integralmente votato alla pace d'animo ed alla serenità disincantata, forse per questo invidiato dalle sorelle al punto di lamentarsene, consigliandogli testualmente: "Sois négatif, de temps en temps!!".
Molto piacevole anche se più defilata l'interpretazione di Marcial Di Fonzo Bo, marito frustrato e frustrante di Frédérique, che si cala agilmente nel ruolo di un uomo a disagio come un porta-ombrelli sistematicamente scambiato per una pattumiera. Ma dove veramente chi ha curato il cast ha indovinato, è senz'ombra di dubbio nel ruolo di Nigel, marito (ex) di Lena, Jean-Marc Barr, millimetrico nel dosare i sentimenti espressi, propri di un uomo sicuro, un capitano che naviga senza timori in acque agitate che non lo spaventano affatto. Lena si troverà quindi a respingere quest'onda di cure amorevoli profuse dal suo entourage, reagendo spesso con indispettito infantilismo a quelle che ritiene essere invadenti dimostrazioni d'affetto. La trama resta però scucita, anche quando gli scenari ritornano in città, dove Lena riprende a frequentare un ragazzo più giovane (un Louis Garrel quasi caricaturale, ritagliato da una rivista per teenagers degli anni '90) più per disperazione che per vero trasporto, senza riuscire mai a riprendere in mano le redini della sua vita. Da sottolineare un'inspiegabile digressione di una decina di minuti, in pieno cuore del film, sulla rappresentazione in costume di una favola, con tanto di ballerini e suonatori bretoni, architettura già messa in atto dal regista in opere precedenti, assolutamente incomprensibile, appiccicata malissimo sul ritmo già zoppicante del film. Il titolo internazionale è Making plans for Lena, tratto da "Making plans for Nigel" degli XTC di Andy Partridge, canzone che Nigel fa sentire ai figli in un vecchio giradischi gracchiante.
Voto: 6
Carlo Ligas 

domenica 20 settembre 2009

À L'Intérieur (À L'Intérieur) di Alexandre Bustillo e Julien Maury(2007)


"Voi scendete, scendete, miserevoli vittime
scendete per la strada dell'infinito inferno!
Colate in fondo all'abisso, dove tutti i crimini,
flagellati da un vento che non viene dall'etere,
ribollono alla rinfusa con un rombo d'uragano.
Correte al fine ultimo dei vostri desideri,
folli ombre; mai potrete la vostra rabbia placare
e nascerà il castigo dai vostri stessi piaceri."
(Donne Dannate, Charles Baudelaire)


Quanta empietà visiva verso il femminino in questo capolavoro horror, contro la sua iconografia depositaria della vita, dell'amore. Qui dentro, À L'Intérieur, si devasta qualsiasi caposaldo etico e si lavora quasi esclusivamente di rappresentazione. E che messa in scena! Molte inquadrature fisse in campo medio esasperano la violenza invece che diluirla, al contrario di un montaggio frenetico di primi piani così abusato nel genere (che vorrebbe suggerire un effetto che, invece, regolarmente dilegua e annacqua). 
Tutto il film pulsa di riprese geometriche e misurate, concentrate sull'orrore, fortificate da un devastante commento sonoro, essenziale e affilato come le forbici protagoniste del film. 
Questa innovativa scelta autoriale e registica compenetra una sceneggiatura semplice, quasi da atto unico, da vecchia scuola horror americana (Carpenter, Raimi, Craven) regalandoci un risultato unico e sovversivo. Un film potentissimo, una macchina da guerra irrequieta e invasiva: per stomaco, cuore e nervi d'acciaio. 
Due eccezionali interpreti: una Beatrice Dalle sulfurea, come fosse una Diamanda Galas satanica e scellerata, e una Alysson Paradis (la sorellina di Vanessa) stanca, sofferente, perfetta nella parte della piccola madonnina del travaglio.


Quello di Alexandre Bustillo e Julien Maury è l'incubo più bello che abbia visto negli ultimi anni, definirlo un film di genere è decisamente riduttivo. Come in "Frontière(s)" (Frontiers - Ai confini dell'inferno) di Xavier Gens e nel molto bello "Haute tension" (Alta tensione) di Alexandre Aja, le donne sono protagoniste assolute. Nel film di Bustillo e in quello di Gens difendono la loro maternità, in quello di Aja la loro libertà sessuale. I primi due riflettono prepotentemente anche sui disordini sociali e razziali delle banlieue parigine e non passa inosservata nel film della coppia Bustillo-Maury, la scena del poliziotto che trascina, ammanettato al polso, un giovane franco-algerino dentro la casa degli orrori. Un Giano bifronte che sancisce il fallimento di un'impresa, la dis-integrazione? La vecchia generazione che non accetta di essere sostituita?
Ma anche senza volerci vedere troppe cose dentro, questa pellicola rimane il perfetto simulacro della claustrofobia: À L'Intérieur del ventre, della casa, della società e del dolore.


Luca Tanchis

domenica 13 settembre 2009

Nemico pubblico n. 1 - L'istinto di morte (2008) L'ora della fuga (2009) di Jean-François Richet


Il primo capitolo di Richet, "L'istinto di morte", dedicato alla vita del più famoso criminale francese Jaques Mesrine, mi aveva lasciato perplesso sia per una messa in scena oltremodo mimetica, vicina al docufilm, sia per una regia spoglia di guizzi visionari. Inoltre la recitazione di Vincent Cassel era eccessivamente misurata, come se l'attore francese avesse il terrore di strabordare il confine della macchietta come invece faceva allegramente Gerard Depardieu, in una delle sue peggiori comparsate, nei panni del gangster Guido. Forse è stata la natura stessa del biopic a richiedere tutta questa attenzione per la ricostruzione non agiografica dell'irrefrenabile gangster, ma sta di fatto che il primo capitolo poteva essere interpretato come un mezzo passo falso, privo di elettricità e profondità, o come una fin troppo calibrata e lunga rincorsa verso la seconda parte, "L'Ora Della Fuga". Era giustificata una preparazione così manieristica, quasi parodistica nelle scenografie e costumi, così trattenuta nello scavo dei personaggi, nei riguardi della parte finale della vita di Mesrine? È fin troppo evidente la costruzione di un dispositivo a scatto che rende la prima parte quasi solo accessoria.


A vedere la vitalità registica e interpretativa de "L'Ora della Fuga" pochi sono i dubbi che permangono; il capitolo finale è oltre due ore di grande cinema d'azione. Con un Cassel imprendibile sia per la police che dalle gabbie di una possibile empatia tra il pubblico e il suo personaggio. Vincent elude questo pericolo dando prova di una consumata arte del gesto, di una grande lucidità nei confronti del personaggio, e Richet lo evita invece, screditando con chirurgica precisione le velleità pseudo-politiche di Mesrine. Quella vanagloria con la quale il gangster voleva ammantare le sue reiterate efferatezze; vestirsi da Robin Hood per trasformare, con l'aiuto dei media, il suo carnevale magalomane e anfetaminico in qualcosa di necessario. Il miglior attore francese in attività (Mathieu Amalric) e l'attrice piu sexy (Ludivine Sagner), fanno da spalla a Cassel con perfetta misura dei toni e degli spazi e Richet, pur omaggiando il polar francese di Melville, Delon e Lino Ventura (soprattutto " Le Cercle Rouge"), rende tutta la seconda parte nervosa, aggressiva, che mai indugia in un'oasi di perfetta messa a fuoco, regalandoci un personaggio sfuggente anche dallo schermo e consegnandoci, dulcis in fundo, l'esecuzione di Mesrine in una scena ordita con una sapienza stilistica che lascia senza fiato. Mesrine ( che si pronuncia Mèrin, come ripete più volte Cassel) è un uomo evaso dal carcere tre volte, sfuggito a mille agguati e inseguimenti, ma che non riuscirà ad evitare la fuga dal suo mito, dalla sua volontà di potenza. Corre incontro al suo baratro con la consapevolezza dell'istinto tragico e con l'incoscienza e la solitudine dei folli.


L'istinto di morte - Voto: 6
L'ora della fuga - Voto:8


Luca Tanchis

giovedì 6 agosto 2009

TWO LOVERS (Two Lovers) di JAMES GRAY - 2008




È tragicamente difficile uscire da alcuni film.
James Gray è l'eleganza fatta pudore e te ne accorgi quasi subito, nel momento in cui il suo magnifico sguardo indugia impressionista sulle cose semplici della vita, appena la cinepresa stringe sulle pietanze del pranzo di famiglia all'inizio del film. 
Sull'anima, quando, dopo il pranzo, Leonard (un Joaquin Phoenix lacerato, svagato, inadeguato: bravissimo) spiega a Sandra (Vinessa Shaw, perfetta nella parte della bella addormentante) perchè le sue foto in bianco e nero non comprendano che cose inanimate. 
E, più avanti, sui sentimenti, mentre Leonard scrive invisibilmente I LOVE YOU con la punta del suo dito sul braccio di Michelle (Gwyneth Paltrow sensuale, viziosa, decadente e irraggiungibile). 


D'altronde quello di Gray è lo stesso pudore del silenzio di un acquario. I movimenti di macchina e degli attori sono rarefatti e privi di gravità, come esseri marini in cattività sotto l'occhio di una luce al neon indifferente che illumina e mostra. 


Tutto sembra svolgersi in apnea, il film inizia con Leonard che esce dall'acqua dopo un disgraziato tentativo di suicidio, e finisce con Phoenix che cerca di ricomporre i cocci della sua vita raccogliendo un anello sulla riva della baia di Brooklyn. Nel mezzo gli incontri furtivi sulla terrazza, come in un grande aquarium avvolto nella luce plumbea di un inverno newyorkese, dove la pelle di Michelle e Leonard non aderisce mai completamente: i baci di Michelle sono in contumacia, quelli di Leonard già rassegnati. 
Un luogo spirituale sull'impossibilità di questo amore e magica visione partorita nel regista statunitense sia dalla lettura de "Le Notti Bianche" di Dostojevskij, che dall'omaggio all'omonimo film di Visconti.


Gray indaga sulla polarità dell'amore rimanendo ancorato al quotidiano, al trambusto di esperienze minime. Come nei film precedenti, pur scrutando altre tematiche (la famiglia, il denaro, il successo, le tradizioni), ma sempre occultando tutta la prosopopea hollywoodiana e suggerendo un senso più intimo e vero di fare cinema.


Un cinema complessivo ("Little Odessa", "The Yard", "I Padroni Della Notte") come un concept album musicale, dove il film successivo delinea e focalizza aspetti del precedente mostrandoti la grana sempre più fina di un talento così grande. "Il piacere è silenzioso, proprio come lo è lo stato di felicità", come dice Michel Houellebecq in "La possibilità di un'isola".
Lasciatemi qui ancora un istante.


Voto: 9
Luca Tanchis