martedì 9 settembre 2014

Pasquale Panella, Una è la Canzone


Questo libro è già impaginato, adesso, mentre scrivo la prima frase, che è questa. Sono mesi e mesi che Mauro Ronconi mi chiede di dire qualcosa sulla canzone. Sono mesi e mesi che io non ho nulla da dire. 
Oggi è un giorno di maggio (il libro è impaginato) e Mauro mi dice: "Fammi un regalo". 
Ecco il regalo, è come se avessi in mano il pacchetto. Lo vedo, così come si vedono subito le cose immaginate quando sono semplici: hanno la prontezza degli inganni ad apparire, la scherzosa insolenza degli abbagli a sparire. La carta che lo riveste, benissimo piegata, è rossa. Cosa vuol dire rossa?
Vuol dire che sto dicendo la verità. Il nastro che lo infiocca è verde. Cosa vuol dire verde? Non vuol dire niente, non vuol dire altro. 

Vedo tutto, vedo perfino le mie mani. E fanno quattro, sommate a quelle con le quali, dita sulla tastiera, sto scrivendo.
So tutto, vedo tutto, vedo anche quello che non c'è. Una cosa non so: cosa ci sia nel pacchetto. Io non so, non so cosa sia "parlar di canzone". Mi è capitato di dirne tante, sopra/sotto, a destra/a sinistra, in alto/in basso; e poi mi è capitato di dirne poche, un po' al di sopra, un po' al di sotto, un po' più a destra, un po' più a sinistra, un po' più in alto, un po' più in basso (sembrava che stessi comodo, seduto, e che dessi indicazioni a una bella sistematrice di oggetti su mensole, per poi vedere l'effetto, e l'effetto era come si muoveva lei); e poi non ne voglio dire più.

Sì, faccio il muso, faccio il capriccioso, insomma state accorti: è capace che vi rivolti la minestrina canzone sulla testa, stelline e tutto. Sono mesi e mesi che non so, e adesso non so nemmeno quale sia il regalo. 
O, forse, il regalo è questo: nastro e carta, colori complementari, parole e musica. Ho tra le mani, e tra poco non più, la curiosità di sapere cosa c'è dentro. E adesso eccola a voi.

Cos'è la curiosità? E' mettersi a disposizione di ciò che non si sa cosa sia. 
E la curiosità è attesa, attesa di sé, di un sé che non sa. Se uno lo sapesse, gli si inumidirebbero gli occhi. Se uno sapesse dell'attesa di sé, non se uno sapesse cosa c'è dentro. Quel che c'è dentro si può anche polverizzare, anzi deve, può scoppiare con un piccolo sussulto della scatola, che trasmette un battito, solo un battito in più, dispari, nel petto di chi la riceve; può essere un orologio il cui vetro si frantuma e il cui tempo si ferma. 
Allora lì dentro c'è qualcosa come una piscina, come un lago, come un sonno, come braccia aperte, una cosa nella quale si può cadere, ma non come l'estate o le palestre, non come quei frustrati tuffi da turista, non come il sonno per mettere sopra di noi la notte come una pietra sopra.

No, c'è qualcosa di definitivo, come un abbandono in sè, come un cadere tra le braccia proprie, a braccia aperte tra le stesse braccia aperte; poi le braccia come l'acqua si richiudono. L'acqua è semplice, come un essere umano che dorme, lasciamo perdere le vigliacche insinuazioni sui sogni che hanno già scimunito parecchie generazioni, lasciamo le alghe alle alghe, stringano tra loro i loro soffocanti legami, lasciamo il fondo al fondo. Cosa c'è oltre il fiocco e la carta? Non c'è niente, ma ci puoi cadere dentro.

E cosa senti? Magari, anche qui, qualcosa di simile al niente: inconsistente un abbandono. Conoscete due abbandoni nella vita, l'abbandono che non sopportate e l'abbandono che desiderate. Questo abbandono qui è quello che volete, che desiderate, è il magnifico senso di negazione del resto. Come succede solo quando ci si butta, ci si sperpera in quella cosa delle quale non so che dire, e della quale qui non parlo: la canzone. 

E' lì che voi cadete tra le vostre braccia. E' lì che siete soli volendolo essere.
Conoscete in cuor vostro la segreta smentita di una di quelle pusillanimi avventure imprenditoriali della mistificazione: la musica che aggrega (già è brutto il verbo) statisticamente. La musica forse sì, al più basso livello di sigla opportunista di un'appartenenza, che è derelitta collusione con organizzazione e impresariato (il pubblico alle volte è manager pagante), ma la canzone no.

Chi fa veramente una canzone, il suo artefice, è colui che l'ascolta, e l'ascolta come un richiamo finalmente egoista, escludendo il resto. E non c'entra la musica, le parole non c'entrano.
Non c'entra il bello e il brutto: una canzone è bella e brutta nello stesso momento, il suo momento. E' come il nulla.
Forse può giudicarla soltanto chi, quella canzone, non l'ama, e dice: non vale niente. E chi non ama quelle che un altro ama, giudicherà quelle dell'altro: non valgono niente.

E' così, va bene così, è vero così. Ma, nella tua canzone, chi c'entra sei solo tu. 
Ti ascolti ascoltare, tu sei tu, e in te non c'è più posto per non esserlo, diventi un segreto.
Una canzone è di uno solo al mondo, e quell'uno è il mondo, tutto torna, tutto gira, come la terra e i dischi e, forse, l'universo, del quale tu sei il centro.

Pasquale Panella

(prefazione di: 100 dischi ideali per capire la NUOVA CANZONE ITALIANA, di Mauro Ronconi, Editori Riuniti 2002)

Vergogna, di J.M. Coetzee



 


Colui il quale si convince di comprendere, fin troppo a fondo, il mondo, improvvisamente o per gradi, si rende conto che l’acquisizione di tale coscienza è vana. Rincorrendo questa vanità si lasciano le terre conosciute e sicure. Incomincia così l’anti-epopea di David, il suo addentrarsi nelle terre selvagge. In questo altro mondo gli orpelli vanno persi, le gerarchie di ieri, i valori quantitativi e la fede in una formula narrativa diacronica si dissolvono. Sarcasmo, apparente senso di superiorità e falso cinismo precipitano in semplice disperazione. Ecco allora incombere sui piccoli l’ombra poderosa di Dio.
Qualcosa del genere è quanto ho tratto dalla lettura di Vergogna, il romanzo di J.M.Coetzee.
Forse Vergogna è un romanzo sulla presenza di Dio, presenza fatta di prepotente assenza. Può darsi sia un romanzo su un tale che invita il sommo fattore a venir fuori, a farsi avanti: convinto che il senso del tutto si possa dispiegare lungo la narrazione di ognuno di noi (come si stende un tappeto in un corridoio), scopre con amarezza che non è così, imparando, infine, che il suo rappresentarsi è invece più simile ad un’epifania, ad uno squarcio impietoso sulla realtà. Il senso profondo di Dio, scoprirà David, irrompe come uno scandalo, apre una breccia sulla trama che il protagonista ha costruito di sé.
David gode di buona salute, la sua mente è lucida. Di professione è – o è stato – uno studioso, e l’erudizione, a tratti, lo avvince ancora. Vive nei limiti del suo reddito, nei limiti del suo carattere, nei limiti delle sue capacità sentimentali. È felice? Secondo i normali criteri di valutazione, sì, ne è convinto. Ma non ha dimenticato l’ultimo coro dell’Edipo: non dire di un uomo che è felice finché non è morto.
Il protagonista della storia non vuole più far parte di quel luogo rassicurante, rappresentato dalla sua classe di riferimento, la borghesia colta di un paese tuttavia votato alla frontiera. Avverte di aver perso l’originario senso di unicità e intraprende dunque un’azione di rottura. La risposta alla noia è la sfida.
[…] non c’è stata premeditazione. È cominciata come un’avventura, una di quelle piccole avventure insperate che capitano agli uomini di un certo tipo, che capitano anche a me e mi fanno sentire vivo. Mi scusi se ne parlo in questo modo, ma voglio essere franco.
E così la storia di Coetzee affonda nel dilemmatico rapporto che lega l’individuo alla massa. Il protagonista intuisce che qualcosa in lui va perdendosi, qualcosa a cui deve opporsi. L’intelligenza, la cultura, il riconoscimento sociale si rivelano come inutili orpelli nello scontro per l’emersione dall’indistinto. La massa (sia essa intesa come ceto, etnia o genere) è l’indistinto, ciò che agisce verso il singolo individuo, l’agente che pretende da lui la capacità di fondersi in soluzione. Il problema narrativo nasce quando si inceppa questa possibilità di soluzione, quando la labile alchimia si rompe. David allora compie un atto che tradisce il suo ruolo, ha una relazione con una sua studentessa. Così prende piede Vergogna.
Egli abbandona quindi il mondo civilizzato, dove la vera natura di un uomo può essere nascosta a lungo, anche la vigliaccheria e l’incapacità di ribellarsi fino in fondo.
David parla italiano, parla francese, ma né l’italiano, né il francese lo salveranno nel cuore dell’Africa nera. È inerme, una specie di personaggio da vignetta, un missionario in tonaca e casco coloniale che aspetta, mani giunte e occhi al cielo, mentre i selvaggi blaterano il loro idioma incomprensibile, preparandosi ad immergerlo nel calderone bollente. Il lavoro missionario: che cosa ha lasciato quell’immensa impresa di nobilitazione dell’uomo? Niente, si direbbe.
Mentre leggevo Vergogna, mi è più volte tornato in mente un discorso che una volta mi fece un terapeuta dei mali dello spirito, una metafora che chiamava in causa il mondo dei lupi. Esistono tre tipi di lupi, mi disse: il maschio alfa, il gregario e il lupo solitario. Il primo conquista la supremazia sugli altri usando qualunque mezzo, tuttavia è costretto a piegarsi alle regole che strutturano il branco, lo deve fare comunque. Per quanto grande possa essere il suo potere, non potrà in ogni caso risparmiargli l’istintiva certezza che, presto o tardi, giungerà un nuovo maschio alfa che lo vincerà. I gregari, intanto, lottano per occupare i gradini di un mondo gerarchico, ma evitano lo scontro con il maschio dominante, a meno che non avvertano i segni propizi all’usurpazione della sua posizione. Nel loro mondo inesatte valutazioni possono costare care. Infine viene il lupo che vaga da solo. Tenendo d’occhio il branco, si muove a distanza ravvicinata e attende il momento giusto per violare l’harem del maschio dominante: sperando in una sua distrazione, ingraviderà le femmine. L'intraprendenza del lupo solitario, quindi, salva il branco dai rischi del sangue stanco. Quale di queste categorie potrebbe riferirsi a David?
E così è arrivato, il giorno della prova. Senza preavviso, senza fanfare, eccolo lì, e lui ci è dentro. Il cuore gli martella il petto con tale violenza che persino quell’organo ottuso deve aver capito. Riusciranno, cuore e proprietario, a superare la prova?
Il trauma accade d’improvviso, senza che David lo possa prevedere. Due nativi adulti e un ragazzino irrompono nella casetta colonica della figlia Lucy: è violenza.
È sul pavimento del bagno, il bagno della casa di Lucy. Stordito riesce a mettersi in piedi. La porta è chiusa, la chiave sparita. Si siede sulla tazza e cerca di riprendersi. La casa è silenziosa; i cani abbaiano, ma più per dovere, si direbbe, che per la smania di mordere.
Se nel mondo intellettuale, a cui David apparteneva, la posizione del lupo solitario poteva essere considerata come una scelta avventurosa, dignitosa, carica di possibilità, quando questo mondo viene abbandonato, l’uomo bianco di città è posto di fronte alle concrete conseguenze di tale scelta.
La giornata non si è ancora spenta, anzi è viva e vegeta. Guerra, atrocità: questa giornata inghiotte nella sua gola nera qualunque parola si usi per cercare di impacchettarla.
I fatti narrati da Coetzee mettono in crisi le vite in cui non si sono prese delle posizioni nette, coerenti con il contesto in cui si vive. In questa storia si smascherano tante forme di dissimulazione della debolezza, mettendo a nudo l’insufficiente potere barbarico del protagonista, la sua incapacità di affermarsi. Se nel mondo urbano e intellettuale, che ha abbandonato, le occasioni di confronto brutale potevano essere evitate, così non accade nella nuova realtà in cui giunge. La scelta di vita solitaria, a cui David approda, si potrebbe forse ricondurre all’insufficienza di forza brutale necessaria al rovesciamento del maschio alfa, è forse questa la ragione per la quale odia i gregari: loro rappresentano quella debolezza di cui non si riesce a liberare. Fatto sta che David, in qualunque condizione, è tagliato fuori dal branco.
In Vergogna il tempo è una variabile interessante; il protagonista infatti cerca le motivazioni utili all’azione riferendosi anche all’unità di tempo percepita. Ecco perché David guarda di continuo al mondo degli animali; non comprendendo appieno il mondo degli uomini, fantastica sulla condizione di questi esseri, in qualche modo anela alle loro risorse. Il cervello animale, a cui David si affida per la sopravvivenza, ragiona solo su coordinate del qui e ora. Quando si crea una necessità, un allarme, un’informazione ambientale quest’organo risponde subito e adeguatamente. Mette in moto succhi, umori e tensioni, preparando la macchina alla guerra. Ciò nonostante i guai nascono quando entrano in gioco i filtri delle emozioni umane, e David è suo malgrado un uomo; ecco allora il lungo rettile del tempo muovere le sue spire, e l’uomo sgomento, percepisce nel qui e adesso l’irruzione del passato. Questa lunga biscia atavica, cresciutaci dentro fin dal nostro concepimento, si muove stimolata da ciò che percepiamo, creando delle anse fra le sue spire, che, dalla percezione animale, sono falsate come appartenenti al qui e ora. Esse però non sono altro che echi del passato, appena percepibili eppure potenti. Il loro innesco è causato da un fenomeno di risonanza, (come risuonano fra loro le corde di una chitarra): l’emozione di un vissuto lontano irrompe in un’epifania sincronica. In un attimo David, cinquantaduenne, ritorna un bambino abbandonato, o forse un vecchio, debole e indifeso.
Il tremito e la debolezza non sono che i segni iniziali e più superficiali del trauma. Ha la sensazione che dentro di lui sia rimasto contuso e ferito un organo vitale, forse addirittura il cuore. Per la prima volta ha un assaggio della vecchiaia, quando diventerà un uomo spossato, senza speranze, senza desideri, indifferente al futuro. Abbandonandosi su una sedia di plastica in mezzo al puzzo di piume di pollo e mele marce, sente l’interesse per il mondo defluirgli dal corpo goccia a goccia. Forse ci vorranno settimane, anche mesi, prima di restare dissanguato, ma il fluido vitale sta fuggendo. E quando questo processo si sarà compiuto, di lui non resterà che l’involucro di una mosca in una ragnatela, fragile al tocco, più leggero della pula, pronto per essere trascinato per altri lidi.
Penso che Vergogna tracci il percorso di una peregrinazione di un uomo, che non trova la forza di affrontare la realtà relazionale, che non vince l’horror vacui e non si abbandona al tuffo dentro al magma del sé. Forse solo alla fine intuisce che il riscatto può avvenire nel riconoscimento dell’altro, ma questa possibilità gli sfugge ancora.
Ama sua figlia, ma ci sono momenti in cui vorrebbe che fosse una creatura più semplice: più semplice e più schietta. L’uomo che l’ha violentata, il capobanda, era così. Come una lama che taglia il vento.


Davide Ferreri


Vergogna (Disgrace), di J. M. Coetzee, Einaudi (2000) (trad. di Gaspare Bona)

Catherine E. Morgan, Tutti i viventi



C'è un luogo letterario dove gli eventi dell'esperienza umana assumono una risonanza profonda, tanto da accedere, nei casi migliori, a una dimensione quasi epica, mantenendo allo stesso tempo la concretezza e la vicinanza stretta agli elementi naturali. Quel luogo letterario è il Sud degli Stati Uniti, culla di tanti capolavori che nulla hanno perso della loro forza, e mai la perderanno, per le ragioni sopra citate. Sul solco di questa tradizione si pone Tutti i viventi, opera d'esordio della giovanissima Catherine E. Morgan, uscita nel 2010, salutata dalla critica come opera di grande maturità espressiva. 
Protagonista del romanzo è la giovane Aloma, un'orfana cresciuta "in un luogo buio, in una contea buia di uno stato buio"; la ragazza sogna la fuga e la libertà, che per lei coincidono con la scoperta della musica e con il sogno di diventare una pianista. A scompigliare i piani di Aloma arriva un ragazzo taciturno, Orren, dagli occhi chiari segnati da rughe e la voce incolta. Lui la porta via sul suo furgone al tramontare del sole per lunghi giri fra le campagne, nei quali i due ragazzi sperimentano un po' maldestramente la fusione dei corpi con un'urgenza scarna di parole, come il paesaggio arso dal sole:
("si avvinghiavano, i corpi spogliati dagli abiti, le bocche aperte verso l'altro come uccellini implumi, e in quella fusione non pensavano al tempo, non pensavano alle differenze").
Quando la famiglia di Orren viene sterminata in un terribile incidente automobilistico, il ragazzo chiede ad Aloma di seguirlo nella fattoria dei genitori, e di aiutarlo nella gestione della piantagione di tabacco della quale è ormai unico responsabile. I due giovani si ritrovano all'improvviso alle prese con qualcosa di più grande di loro, in una casa cadente dove uno dei due si sente legato indissolubilmente al ricordo dei cari, che occhieggiano dalle foto incorniciate, straziato ma ruvidamente radicato in quella terra scabra, "sbiancata sotto il sole in una polvere gessosa", e l'altra si sente prigioniera, privata ingiustamente dei sogni della giovinezza. La nuova vita della ragazza amante della musica è fatta di giornate che si susseguono tutte uguali tra la fatica estenuante del lavoro e il silenzio opprimente della solitudine, laddove esplode la violenza di un gallo impazzito che artiglia entrambi i ragazzi, simbolo di una natura ostile e difficile da domare, e anche il sesso fra i due, nel letto matrimoniale che fu dei genitori, si fa sempre più rabbioso:
("lo spinse via scocciata, e, per un istante, ebbe la voglia sfrenata di colpirlo sul viso e sul petto per averla trascinata lì, al misero margine delle montagne, l'unico posto al mondo che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, dove non c'era nulla che funzionasse, dove tutto si consumava fino all'osso.").

L'inquietudine di Aloma la spinge a tentare una fuga oltre i confini della proprietà, in una chiesa locale dove conosce il pastore della comunità, Bell, colui che le offre la possibilità di suonare l'amato pianoforte. La ragazza si sorprende a vagheggiare un sogno d'amore insieme al pastore, amore che sia più corrispondente alla sua natura intima e ai suoi sogni. Desiderio di fuga che si rivelerà illusorio. In un finale bellissimo, lento, dalle cadenze quasi bibliche, Aloma realizza quanto lei e Orren siano legati in modo profondo e oscuro, per un bisogno reciproco che entrambi non riescono a decifrare completamente, ma che, semplicemente, si impone. Perchè forse vivere è l'accettazione del proprio destino, un destino che si lega strettamente a quello di tutti i viventi, come dice il versetto dell'Ecclesiaste posto in apertura del romanzo:
"Questo è un male in tutto ciò che si fa sotto il sole: hanno tutti la stessa sorte, e inoltre il cuore dei figli degli uomini è pieno di malvagità e la follia risiede nel loro cuore mentre vivono, poi se ne vanno a morte. Finchè uno è unito a tutti i viventi c'è speranza, perchè un cane vivo val meglio di un leone morto."
Echi di Curson Mc Cullers e di Flannery O' Connor, si è detto a proposito della Morgan, ma anche echi faulkneriani, nella rappresentazione di un luogo ai confini del mondo, nell'attenzione a personaggi marginali e perdenti alle prese con il mistero dell'amore, del dolore, della morte. E' una grazia poetica aspra, quella della Morgan, una scrittura, la sua, di precisissimo nitore, attenta a ogni singolo dettaglio concreto dell'esperienza umana. L'autrice riesce a trasmettere al lettore contemporaneo, immerso nell'acquario della società "liquida", la sensazione precisa dell'importanza della fatica, del sudore, del sesso; il valore ineliminabile del contatto diretto con il reale.


Laura Anfossi



C. E. Morgan, Tutti i viventi (All the living) - Einaudi Supercoralli, 2010