mercoledì 21 marzo 2012

Unisci i puntini - Elementi pop di storia # 01 Maus, di Art Spiegelman



Elementi pop di storia #01 - Maus, di Art Spiegelman

Ho l'impressione che sull'immaginario popolare intorno al fumetto, aleggi l'insensata e tacita convinzione che il graphic novel sia un'espressione artistica di secondo livello, non una possibile terra di mezzo tra letteratura e cinema, non una importante risorsa creativa e didattica, ma una semplice (a volte più intensa, a volte più arty) distrazione ludica.
Eppure quando si tratta di un lavoro di talento, di grandissimo spessore, dove sia il materiale letterario che quello illustrativo sono a livelli altissimi (Come in Will Eisner, Art Spiegelman, Joe Sacco, Gipi, Hugo Pratt, Alan Moore, Moebius, Andrea Pazienza ecc. ecc.) , il fumetto può diventare come un fiume in piena che straripa, inonda la nostra coscienza e muta la nostra geografia. Come dice Goffredo Fofi: "In principio era Maus: il fumetto dimostra di poter essere storia orale e riflessione antropologica: di poter affrontare argomenti gravi e gravissimi; di poter competere con romanzi e film, apparendo persino più profondo e necessario, più fortemente evocativo e riflessivo. Oggi non c'è campo del sapere con il quale il graphic novel non abbia voluto cimentarsi (fino alla rappresentazione visiva del nascosto e dell'inespresso) o genere letterario o cinematografico di cui non abbia cercato di riprendere la tradizione adattandola al suo specifico, a volte con molta maggior libertà della letteratura. "
Maus (Maus: A Survivor's Tale) è un graphic novel di Art Spiegelman, ambientato durante la seconda guerra mondiale ed incentrato sulla tragedia dell'Olocausto, sulla base dei racconti del padre dell'autore, un sopravvissuto ad Auschwitz.

(Luca Tanchis)

Intervista a Spiegelman: "Fumetti per ragazzi, perché imparino la storia contro i nuovi Bush"

Quattro volte la faccia di Einstein Albert (che prima è grigia e poi si colora, che da sorridente s’incupisce) alla parete racconta il lavoro meticoloso di un artista, di un disegnatore, di un romanziere, le variazioni di un umore, di una sensibilità, una ricerca d’espressione, le approssimazioni. 
Art Spiegelman, americano, nato a Stoccolma, cresciuto nei Queens, figlio di ebrei, è stato definito l’inventore della Graphic Novel, del grande romanzo a fumetti, ma lui chiede subito l’esame del dna: non se la sente, forse, di attribuirsi il merito da solo, spiega che in fondo si tratta di un fumetto dietro l’altro anche se la storia è tutta in testa, mentre ci accompagna lungo i muri tutt’attorno della Galleria Nuages di Milano (in via del Lauro), che da oggi ospita una sua mostra (già vista a Parigi, alla Galerie Martel, di Rina Zavaagli moglie di Mattotti, altro maestro italiano amico di Spiegelman). Certo, dopo di lui, dopo il capolavoro Maus, il “romanzo grafico”, il “romanzo a fumetti” sono diventati prove di molti, esercizio visto e rivisto e talvolta con ammirazione (malgrado, spesso, ripetesse l’orrore della guerra). In galleria, sul tavolo, Baci da New York, introduzione di Paul Auster. In Italia è stato pubblicato dalla stessa Nuages.
Racconta per immagini dieci anni di storia: la storia del tormentato amore tra Spiegelman e la più famosa rivista Usa, The New Yorker. Anche gli amori più esaltanti possono finire e, come è noto, un bel giorno Spiegelman decise che era il momento di finirla: si tenne la moglie, Francoise Mouly, suo art director proprio al New Yorker, mollò il giornale, come in genere si fa con le macchine. Divergenze politiche, artistiche, soprattutto gran voglia di libertà, che si può ancora difendere anche se costa parecchio: «Non mi piacciono direttori sopra la testa...». I buoni matrimoni si lascian alle spalle cose buone: non solo lacrime. Vedi certe copertine, certi disegni, ironici, grotteschi, violenti, mai consenzienti, mai consolatori: il poliziotto ridente che spara con l’arma d’ordinanza al baracchino del tiro a segno (le armi e l’America), la frequentatrice inesausta delle mostre di successo, i beati contemplatori del fungo atomico dalle terrazze festanti della Grande Mela, la fucilazione “al sesso” di Clinton. C’è della gran pittura oltre l’invenzione grafica e narrativa («Io sono un grafico - insiste Spiegelman»). Una tavola colpisce per la faccia stordita, al solito, di Bush con le orecchie a sventola e sopra la scritta «Emergency Session of the United Cartoon Workers of America».

Art Spiegelman, l’autore di una delle più belle storie sull’Olocausto, Maus, quella che la rese celebre anche da noi, quasi venti anni fa ormai (ma fu per lui un lavoro lunghissimo, interminabile) teme sempre il peggio e teme che i casi si possano ripetere. E i lavoratori del fumetto che possono fare?

«A un certo punto abbiamo pensato che si dovessero realizzare storie per gli adulti, per sottrarre il fumetto ad una sorta di marginalità. E fu la festa della creatività, mille idee. Eravamo un gruppo di artisti e pensavamo a grandi progetti. Fu così che nacque Raw Magazine. Adesso s’è capito che i fumetti li si dovrebbe riservare ai ragazzi, perchè tornino finalmente a leggere e soprattutto a riflettere. Altrimenti ci risiamo con Bush o con un altro Bush...».

Ma non bastano le tante forme di comunicazione che ci ritroviamo attorno?

«Ci regalano immagini. Diciamo: l’immagine di Obama che ci spiega che cosa sarà la sua riforma sanitaria. Ma bisogna stare attenti, scrutare alle spalle di Obama, per capire se rispuntano le case farmaceutiche».

Un bel paradosso:siamo sommersi da mail, email, sms, mms, eccetera eccetera eccetera, per non capire nulla?

«Adesso sembra che si proceda così: pit, pit, pit, ooh, pit, pit pit, ooh, ooh. Un tasto che batte dopo l’altro e ogni tanto a bocca aperta per la meraviglia...Chissà che cosa avremo mai visto. Il fumetto è riflessione, osservazione, somma di pensieri e di fatti, addirittura compressione di pensieri e di fatti. È il problema che si sono posti persino gli amanuensi di fronte ai caratteri mobili di Gutenberg: qualcosa di meccanico, di ripetibile all’infinito prendeva il posto della scrittura, che è fisica, che è fatica, che è costruzione lenta».

Come le tavole del fumetto. Un tentativo sull’altro per raggiungere la forza narrativa, cercando non solo le parole, non solo i segni, anche lo spazio giusto. Spiegelman fuma una sigaretta dopo l’altra. All’obiezione che il fumo fa male ha già risposto:

«Senza sigarette non avrei mai scritto Maus».

Che è appunto il suo capolavoro. Storia della Shoah, degli ebrei topi perseguitati dai gatti nazisti, qualche volta aiutati, qualche volta traditi dai tedeschi maiali, storia ricostruita attraverso la vicenda del padre, vittima con la madre, vittima in eterno, della persecuzione. Un libro da leggere e da rileggere, da guardare e riguardare: non è questione di “stile” (e Spiegelman rifiuta sempre le questioni di “stile”), ma è per la sottigliezza tenace dello sguardo che ricostruisce i mille fronti e i mille rivoli della tragedia e che moltiplica le responsabilità.

È già stato chiesto mille volte: perché il topo a rappresentare l’ebreo? Quel muso a punta, quasi un triangolo, che nella morte si rovescia e si sovrappone a disegnare la stella di David. Il topo la perseguita?

«È da una vita che mi sento inseguito da una gigantesco topo».

Potrebbe essere finita così?

«No, perchè ci sono altri mille pensieri, mille disegni, mille topi, che potrebbero popolare un altro volume. Chissà. Prima o poi nascerà...Mi sento il beneficiario e insieme il custode di Maus. In fondo mi hanno chiesto in tanti di provare a creare Maus terzo, Maus quarto...».

Non ci sarà la vendetta. Cercherà altre strade, altri contenuti?

«Se uno fa una cosa una volta passa per inventore, se prova a ripetersi rischia di passare per pazzo. Poi tutto può accedere: se un lavoro corto, che adesso mi piace, diventa lunghissimo, perchè si esplorano altre strade, perchè si racconta di più, perchè si cerca magari il movimento, va bene».

Crede in Obama?

«L’ho votato con entusiasmo. Prima o poi dovrà deludere».

Per ora, malgrado le crisi, l’America è tranquilla, però.

«È come se si godesse il grasso di riserva».

Che cosa insegue quando racconta?

«La chiarezza. Quando si guarda un quadro di Goya, poi si esclama: ecco, ho visto anch’io come lui».

Per disegnare Maus, s’è ispirato a materiale iconografico?

«Ai disegni dei deportati: hanno avuto il privilegio di esserci davvero».



Maus, di Art Spiegelman, Ed. Einaudi, 2010
(Intervista di Oreste Pivetta, Settembre 2009)

lunedì 12 marzo 2012

Michel Houellebecq, The Art of Fiction No. 206 - The Paris Review, un'intervista


“Le piacciono gli Stooges?” Mi ha chiesto Michel Houellebecq al secondo giorno d’intervista. Ha poggiato la sua sigaretta elettrica (che si era appena illuminata di un rosso vivace al suo inalare, spandendo vapore invece che fumo) e si è alzato lentamente dal suo divano in stile giapponese. “Iggy Pop ha scritto dei testi basandosi sul mio romanzo La possibilità di un’isola” – “Mi ha detto che è l’unico libro che gli sia piaciuto negli ultimi dieci anni”. Il più celebre scrittore francese vivente ha aperto il suo MacBook e la voce roca della leggenda del punk ha riempito la cucina scandendo “It’s nice to be dead”.
Michel Houellebecq è nato nell’isola francese della Réunion, poco lontano dalle coste del Madagascar, nel 1958. Come menzionato nel suo sito ufficiale (www.houellebecq.info ndt), suo padre, spirito bohèmien, anestesista e guida alpina, “perse presto ogni interesse nella sua esistenza”. Non ha fotografie di sé bambino. Dopo un breve soggiorno presso i nonni materni in Algeria, ha vissuto dall’età di sei anni con la nonna paterna nel nord della Francia. Dopo un periodo di disoccupazione e depressione, che gli hanno procurato numerosi soggiorni presso delle unità sanitarie psichiatriche, Houellebecq trova un impiego come tecnico di supporto presso il parlamento francese (i deputati erano “dolcissimi”, racconterà).
Poeta sin dai tempi dell’università, ha redatto nel 1991 uno studio molto autorevole su H.P. Lovecraft, scrittore americano di fantascienza. A trentasei anni pubblica il suo primo romanzo, Estensione del dominio della lotta, che racconta della noiosa e schiacciante vita di due programmatori di computers. Il racconto suscitò un seguito da culto e spinse un gruppo di fans a fondare Perpendiculaire, una rivista basata su un movimento battezzato dagli stessi fondatori “depressionismo”. (Houellebecq, che accettò un posto onorario in seno alla testata, dichiarò di non aver capito le loro teorie e che, francamente, non gliene importava). La sua opera successiva, Le particelle elementari (1998), un misto di considerazioni sociali e descrizioni sessuali trancianti, ha venduto 300.000 copie in Francia e fatto di lui una star internazionale della letteratura. Così è cominciata la diatriba ancora fervida tra coloro che collocano Houellebecq nel solco della tradizione realista tracciato da Balzac e quelli che non lo ritengono nient’altro che un irresponsabile nichilista (uno sconcertato critico del New York Times definì il racconto come “una lettura profondamente ripugnante”, un altro la descrisse come “uno sgradevole barcollamento tra l’osceno e lo psicotico”). Lo staff del Perpendiculaire si offese particolarmente per quella che vedevano come una denuncia reazionaria del movimento di liberazione sessuale e lo espulse dal direttivo della rivista.
Parecchi anni dopo, sua madre, che riteneva di essere stata descritta in maniera ingiusta nel racconto, ha pubblicato un memoriale di 400 pagine. Per la prima ed ultima volta nella sua vita, Houellebecq ha ricevuto una solidarietà incondizionata da parte dei media francesi, costretti ad ammettere che anche il ritratto severo della mamma-hippie che scaturiva dal romanzo non rendeva un’idea precisa del complesso carattere che emergeva dalla sua autobiografia di una donna che, durante la presentazione del suo libro, era arrivata a chiedere: “Chi non ha mai considerato almeno una volta il proprio figlio un patetico idiota?”
Nel 2001 Houellebecq pubblica Piattaforma, storia di un’agenzia di viaggi che decide di promuovere prevalentemente il turismo sessuale in Thailandia. Nel racconto, questa vicenda sfocia in un attacco terroristico da parte di fondamentalisti islamici. Certi punti di vista espressi dal protagonista (“ogni volta che ho notizia della morte di un terrorista o di un bambino palestinese o di una donna incinta morta ammazzata nella striscia di Gaza, provo un fremito di entusiasmo al pensiero di un musulmano in meno”) sono valsi a Houellebecq feroci accuse di misoginia e razzismo, peraltro già affrontate in passato, con suo grande rammarico. “Come riesce ad avere il sangue freddo per scrivere certe cose?” gli ho chiesto. “Oh, è facile – mi ha risposto – fingo di essere già morto”.
Durante un’intervista per la promozione di Piattaforma, Houellebecq fece una delle sue dichiarazioni più famigerate: “..e la religione più stupida resta comunque l’Islam”. Fu perseguito da un’associazione che si batte per i diritti umani per istigazione all’odio razziale ma vinse la causa in nome della libertà d’espressione. “non credo che i musulmani siano diventati d’improvviso suscettibili ad ogni offesa” ha spiegato. “Sapevo degli ebrei che sono pronti a trovare degli strali antisemiti ovunque ma dai musulmani francamente non me l’aspettavo.” Nel 2005 pubblica La possibilità di un’isola che racconta di una futura razza di cloni.
Data la reputazione di Houellebecq di bevitore e corteggiatore d’intervistatrici, ero un po’ turbata al momento di bussare alla porta del suo appartamento uso foresteria a Parigi. Devo però ammettere che durante i due giorni spesi insieme è stato scrupolosamente educato e forse persino timido. Era vestito di una vecchia camicia di flanella e calzato di pantofole, soffriva visibilmente del suo eczema cronico. Ha passato la maggior parte del tempo seduto sul suo divano a fumare (stava cercando di smettere coi suoi quattro pacchetti al giorno, ragion per cui la sigaretta elettrica). Abbiamo chiacchierato in francese e, occasionalmente, in inglese, lingua che conosce molto bene. Ogni mia domanda finiva in un suo silenzio tombale, durante il quale fumava e teneva gli occhi chiusi. Più di una volta mi sono chiesta se non si fosse addormentato. Infine la risposta emergeva in un’esausta monotonia, forse ancora più affaticata al secondo giorno. Gli scambi di posta elettronica che hanno fatto seguito all’intervista erano invece estrosi e affascinanti.
Houellebecq ha ricevuto molti dei più celebri riconoscimenti letterari francesi, tuttavia non ha mai vinto l’ambito Goncourt che, secondo numerosi esponenti dell’establishment letterario francese, gli è stato finora negato a torto. Ha inoltre pubblicato numerosi volumi di poesia e di saggi. Alcuni dei suoi poemi sono stati messi in musica; lo stesso Houellebecq li ha interpretati in numerosi locali parigini. Anche la first lady francese, la cantante ed autrice Carla Bruni - Sarkozy, ha inciso una canzone che trova ispirazione nelle sue poesie. Più recentemente ha collaborato con Bernard Henry Lévy, altro intellettuale che l’opinione pubblica francese adora disprezzare, nella stesura a quattro mani di Nemici pubblici, uno scambio epistolare tra i due. Il suo ultimo racconto, La carta e il territorio, è uscito in Francia a settembre.

Chi sono i suoi precursori letterari?
Me lo sono chiesto, recentemente. La mia risposta è che principalmente sono stato influenzato da Baudelaire, Nietzsche e Schopenhauer, Dostoevskij e, appena dopo, da Balzac. Sono state persone che ammiro. Mi piacciono molto anche altri poeti romantici come Hugo, Vigny, Musset, Nerval, Verlaine e Mallarmé, sia per la bellezza delle loro opere che per la loro terrificante intensità emotiva. Ma mi sono anche chiesto se le mie letture giovanili non fossero forse più importanti.
Per esempio?
In Francia, i due grandi classici per bambini sono Jules Verne e Alexandre Dumas. Ho sempre preferito Verne. Di Dumas mi annoiava l’aspetto prettamente storico. Verne aveva una visione del mondo dettagliata, che apprezzavo molto. Tutto del mondo sembrava interessargli. Fui molto colpito anche dalle favole di Andersen. Mi sconvolgevano. Poi c’era Pif il cane, un fumetto pubblicato dalle Edizioni Vaillant e sponsorizzato dall’allora partito comunista. Ho realizzato solo molto tempo dopo, rileggendoli, che molte delle avventure di Pif erano intrise di morale comunista. Per esempio, in un episodio un uomo preistorico voleva sfidare lo stregone di turno in combattimento e spiegava ai membri della tribù che non avevano bisogno di un sacerdote e che non c’era alcun bisogno di temere i fulmini. Era una serie molto innovativa e di ottima qualità. Ho letto Baudelaire particolarmente giovane, intorno ai tredici anni, ma lo shock della mia vita è stato Pascal. Avevo quindici anni, ero in gita con la scuola in Germania, il mio primo viaggio all’estero, e stranamente mi ero portato appresso i Pensieri di Pascal. Fui sconvolto da questo passaggio: “Immaginate un gruppo di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali ogni giorno sono uccisi davanti agli occhi degli altri". Quelli ancora in vita vedono la loro futura condizione nei primi e, guardandosi gli uni gli altri con pena e disperazione, aspettano il loro turno. Questa è l’immagine dell’esistenza umana”. Credo che mi toccò così profondamente perché ero stato cresciuto dai miei nonni. Improvvisamente realizzai che sarebbero presto morti. Così ho scoperto la morte.
Quali altri autori l’hanno influenzata?
Ho letto molto della fantascienza di Lovecraft e Simak. City è un capolavoro. Aggiungerei Kornbluth e Lafferty.
Cosa la attira della fantascienza?
Credo di aver bisogno di una pausa dalla realtà, di tanto in tanto. Nella mia scrittura, mi reputo un realista che esagera un pochino. Ma se c’è una cosa che mi ha sicuramente influenzato, è l’utilizzo di differenti punti di vista in The Call of Cthulhu di Lovecraft: il suo inizio da diario, la parte centrale di fantascienza seguita dalla testimonianza dell’idiota locale. La sua influenza è palpabile ne Le particelle elementari, dove passo dalla discussione della biologia animale al realismo, fino alla sociologia. Se non fosse per la fantascienza, tutte le mie influenze apparterrebbero al XIX secolo.
Del XIX secolo le piacciono particolarmente i riformatori sociali, specialmente Auguste Comte, fondatore del Positivismo.
Molte persone considerano Comte illeggibile perchè si ripete fino alla follia. E, dal punto di vista medico, non ne era di certo lontano. Per quel che ne so, è stato l’unico filosofo a tentare il suicidio. Si gettò nella Senna a causa di una delusione d’amore. Ne fu salvato e passò sei mesi in un manicomio. E parliamo del padre del Positivismo, corrente considerata come una delle vette del Razionalismo!
Lei si è descritto come un “vecchio calvinista dito-nel-culo”. Che cosa intendeva?
Ho tendenza a pensare che il bene ed il male esistano entrambi e che la loro quantità in ognuno di noi sia immutabile. Il carattere morale delle persone è stabilito, fisso, fino alla fine. Questa teoria non è lontana da quella calvinista della predestinazione, nella quale le persone già alla nascita hanno un destino prestabilito sulla loro dannazione o salvezza, senza di conseguenza poter fare niente per modificarlo. E mi ritengo un bisbetico “dito nel culo” perchè mi rifiuto di discostarmi dal metodo scientifico o di credere che esista una più grande “verità” dietro la scienza.
Lei ha una preparazione scientifica alle spalle. Dopo il liceo, ha studiato agronomia. Cos’è l’agronomia?
È tutto ciò che ha a che fare con la produzione del cibo. L’unico piccolo progetto di cui mi sono occupato è stato una mappatura della vegetazione della Corsica, il cui intento era di recensire delle zone atte all’allevamento di ovini. Avevo letto che studiare agronomia poteva aprirmi la strada su ogni tipo di carriera: evidentemente era un’asserzione ridicola. La maggior parte della gente che compie quel genere di studi finisce col lavorare in ambienti prettamente inerenti all’agricoltura, con alcune divertenti eccezioni. Due dei miei colleghi per esempio sono diventati sacerdoti.
Le sono piaciuti i suoi studi?
Moltissimo. In effetti, stavo per diventare un ricercatore. È uno degli episodi più autobiografici de Le particelle elementari. Il mio lavoro sarebbe stato quello di individuare modelli matematici applicabili alla popolazione ittica del lago Nantuan nella regione Alpi-Rodano. Ma, stranamente, rinunciai, azione molto stupida d’altronde poichè dopo, trovare lavoro, fu un’impresa impossibile.
Poi è finito a fare il programmatore di computer. Aveva esperienze in questo settore?
Lo ignoravo completamente. Ma all’epoca c’era un’enorme richiesta di programmatori e pochissime scuole di formazione. Quindi mi fu relativamente facile inserirmi in quel settore. Ma ne ebbi un rigetto pressochè immediato.
Che cosa l’ha spinta a scrivere il suo primo racconto, “Estensione del dominio della lotta”, che parla di un programmatore di computer e delle sue amicizie sessualmente frustrate?
Non avevo mai letto niente che dichiarasse esplicitamente che entrare nel mondo del lavoro equivale a mettere un piede nella fossa e che, da quel momento, niente di particolarmente interessante succede e si è obbligati a fingere di provare interesse nel proprio lavoro. E che, inoltre, alcune persone riescono ad avere una vita sessuale e altre no, solo perchè alcuni sono più attraenti. Volevo riconoscere che se la gente non ha una vita sessuale soddisfacente non è a causa di scelte morali ma semplicemente perchè sono brutti. Una volta detto, suona piuttosto ovvio, certo, ma mi andava di dirlo.
Il povero, reietto Tisserand è un personaggio molto intenso.
È un buon personaggio. In effetti, sono sorpreso che tragga tanto interesse nel personaggio facendo leva sulle sue frustrazioni sessuali. Il successo di Tisserand è dato da una grande educazione.
Secondo il narratore di “Estensione del dominio della lotta”, “si odiano i giovani”.
Questa è l’altra parte della fregatura. La prima è l’aspetto professionale, il fatto che nient’altro di nuovo ti succederà. La seconda è che a partire da quel momento queste nuove persone, i figli, faranno esperienze e prenderanno il tuo posto. Questo ci conduce direttamente all’avversione naturale di un padre verso i propri figli.
Del padre e non della madre?
Sì. Si produce una sorta di cambiamento fisiologico e psicologico in una donna dal momento in cui è incinta. È biologia animale. I padri invece non trasmettono in pratica nulla alla loro progenie. Intervengono dei processi ormonali che nessuna cultura potrà mai modificare che in generale fanno che le donne amino i bambini e che agli uomini non ne importi nulla.
E il matrimonio?
Credo che ci sia un brusco contrasto per la maggior parte delle persone tra la vita da giovani, all’università per esempio, dove incontrano un sacco di gente, e la vita nel mondo del lavoro, momento a partire dal quale, in generale, non incontrano più nessuno. La vita diventa monotona. Di conseguenza la gente si sposa per avere un minimo di vita personale. Potrei articolare ma credo che sia già abbastanza chiaro.
Quindi il matrimonio non è altro che una reazione a…?
A una vita fondamentalmente solitaria.
Ha avuto molte difficoltà a trovare qualcuno che pubblicasse “Estensione del dominio della lotta”. Perché il romanzo era rifiutato dalle case editrici?
Non ne ho idea. Ma credo che non assomigliasse a niente che era pubblicato in quel periodo. Le Clézio, per esempio, era considerato un grande scrittore all’epoca.
Che cosa pensa di Le Clézio, vincitore del Nobel per la letteratura nel 2008?
Non l’ho letto. Ho provato e mi sono annoiato. Ma fra ciò che era pubblicato c’era parecchia arte della mancanza d’arte, scrittori nella tradizione del nouveau roman ma niente sulle persone che avevano un lavoro comune, un lavoro d’ufficio.
Quindi lei non è un sostenitore del “nouveau roman”?
Ogni tanto mi piace avallare qualche teoria materialista. Una di queste è che i Livres de poches (edizioni tascabili, economiche NDT) hanno completamente rivoluzionato la trasmissione della cultura, rendendola più internazionale e meno coesiva. Non ho mai studiato letteratura all’università. I libri della corrente del nouveau roman non erano pubblicati in edizioni tascabili, quindi non li ho mai letti se non molto più tardi. Troppo tardi in effetti: il cervello ha la tendenza ad atrofizzarsi.
E cosa pensa della poesia?
Credo che la poesia sia l’unica espressione letteraria attraverso la quale un autore può davvero influenzarti, perché un poema lo leggi e lo rileggi talmente tante volte che letteralmente scava dentro di te. Molti hanno letto Baudelaire. Io ho avuto l’esperienza meno usuale di leggere tutto Corneille. Nessuno legge Corneille, io sono capitato su una certa quantità di classici che abbia, per qualche ragione, amato. Amo l’alessandrino, il classico verso dodecasillabo. Quando ero all’università, ho scritto molto in tetrametro, misura che ha affascinato molti altri poeti. Hanno detto “ehi, non è male! Perché non scrivere in versi classici?”. Si può fare.
Pensa di essere altrettanto poeta che narratore?
In realtà no. È triste da ammettere ma quando cominci a scrivere romanzi di successo hai l’impressione che gli editori pubblichino le tue poesie per carità. La cosa diventa imbarazzante.
Ma lei inserisce dei poemi in ogni romanzo.
Ma non funziona. Ho sempre provato a farlo, ma senza successo.
Lei ha detto: “Lo scontro tra poesia e prosa è una costante della mia vita. Se obbedisci all’impulso poetico rischi di diventare illeggibile, se gli disobbedisci sei pronto per una carriera da bravo racconta storie”.
 Forse do l’impressione di provare un leggero disprezzo per il raccontare delle storie, che è vero ma solo in parte. Per esempio, adoro Agatha Christie. Segue le regole del genere ma occasionalmente riesce a scrivere in modo molto personalizzato. Nel mio caso, credo che sia il processo opposto. Io non obbedisco alle regole, non comincio da una trama, ma ad un certo punto mi dico “dai, insomma.. ci deve essere una storia..”. mi controllo. Ma non rinuncerò mai ad un meraviglioso passaggio solo perché non quadra nella narrazione.
Cosa pensa del suo primo racconto, oggi?
È brutale, ma bello. È stato l’inizio della mia lunga relazione con Les Inrockuptibles che l’hanno amato istantaneamente.
Les Inrockuptibles?
È una rivista che si occupa un quarto di musica, un quarto di cinema, un quarto di letteratura e un quarto di varie ed eventuali. Quando fu lanciato (come mensile nel 1986 e come settimanale nel 1995) terrorizzò i media francesi perché era così manifestamente migliore di tutto ciò che si stampasse all’epoca. I settimanali tradizionali, con i loro supplementi letterari, apparvero d’improvviso ridicoli al suo cospetto. Chiunque contasse a Parigi nel mondo intellettuale era ai loro piedi. Purtroppo, nessuno dei fondatori aveva un vero senso manageriale ed ora non è più stampata. (ne esiste una versione on line: www.lesinrocks.com NDT).
Quali erano i suoi princìpi fondatori?
 Si può dire che ce ne fosse solo uno: mostrarci la realtà del mondo, le cose che succedono “ora”, nel profondo della vita della gente.
Nel 1998 ha pubblicato il suo secondo romanzo “Le particelle elementari”, storia delle tragiche vite sentimentali di un brillante scienziato e del suo fratellastro sessualmente represso. Cosa l’ha spinta a scriverlo?
La vera ispirazione sono stati gli esperimenti di Alain Aspect del 1982. Coi suoi ricercatori dimostrò il paradosso di EPR (Einstein-Podolsky-Rosen NDT), ovvero che quando le particelle interagiscono, i loro destini si legano tra loro. Quando si agisce su di una di esse, l’effetto si ripercuote istantaneamente sulle altre, anche in caso di grosse distanze che le separino. Scoprire che se due entità entrano in relazione anche solo una volta allora lo saranno per sempre mi sconvolse. Questo marca un cambiamento filosofico fondamentale. Sin dalla scomparsa del credo religioso nella filosofia moderna, la corrente che l’ha dominata è stata il materialismo che sostiene che siamo soli e riduce l’umanità alla biologia. Un’umanità calcolabile come un colpo al biliardo, irrimediabilmente deteriorabile. Questa visione è messa in discussione dal paradosso di EPR. Quindi la storia era ispirata da quest’idea: quale potrebbe essere la prossima mutazione metafisica. Senz’altro dovrà essere meno deprimente del materialismo che è, ad essere onesti,  molto deprimente.
Com’è passato da quest’idea alla stesura della storia?
Ho cominciato dal personaggio principale, Michel, un ricercatore di fisica. Poi, il fatto di provare ancora rimorso per aver fatto fuori troppo presto Tisserand nel mio primo romanzo, mi ha condotto a Bruno, che di Tisserand è un estensione. Questa volta ho deciso di approfondirne l’aspetto biografico, cosa che è stata molto piacevole. Meno per Michel, per il quale ho dovuto documentarmi parecchio.
Ha fatto molte ricerche sulle teorie quantistiche?
Oh, è stato terribile. Ricordo libri così difficili da costringermi a rileggere la stessa pagina tre volte di fila. Non fa male fare degli sforzi intellettuali di tanto in tanto, ma dubito che lo rifarei.
Quali erano i suoi intenti in questo romanzo?
Cosa volevo realmente era ricreare delle scene che fossero come dite voi anglofoni “heartbreaking”.
Cosa intende?
La morte della ragazza di Michel era molto commovente, credo. Era proprio il genere di episodi che volevo.
E perché proprio questo genere?
Perché è ciò che preferisco nella letteratura. Per esempio la fine de “I Fratelli Karamazov”: non solo non riesco a leggerle senza piangere ma non riesco nemmeno a pensarci senza scoppiare in lacrime! Questo è ciò che ammiro di più, la capacità di commuoverti a tal punto. I due complimenti che preferisco sono: “mi ha fatto piangere” e “l’ho letto tutto in una notte”.
Ovviamente l’attenzione dei media è stata richiamata dalle numerose scene di sesso.
Non sono del tutto sicuro che in quel romanzo ci sia un numero di scene di sesso inconsueto. Non credo che lo choc provenisse da questo, credo piuttosto che a scioccare sia stato il fatto di aver descritto il fallimento sessuale, di aver scritto di sessualità in maniera non glorificante, non celebrativa. Ho principalmente descritto una realtà di base: una persona gonfia di desideri sessuali che non può soddisfare. Questo è ciò che alla gente non piace sentire. La sessualità deve essere positiva. Mostrare delle fantasie sessuali frustrate è osceno. Ma è anche la verità. La vera domanda è: chi ha diritto alla sessualità? Non capisco, per esempio, come gli insegnanti possano sopravvivere con tutte queste giovani ragazze che definirei allarmanti. Se le donne diventano turiste del sesso questo è forse ancor più sordido, vergognoso, un tabù più grande di quando sono gli uomini a farlo. Come se, qualora una professoressa passasse una mano sulla coscia di uno studente, fosse un atto più scabroso, più difficile da raccontare.
Un ritornello costante dei suoi romanzi è che il sesso ed il denaro sono i due valori dominanti del mondo moderno.
È strano, ho cinquant’anni e ancora non mi sono fatto un’idea se il sesso è una cosa buona o no. Ho dei dubbi simili anche al riguardo del denaro. Quindi è interessante che io sia considerato uno scrittore ideologico. Mi sembra piuttosto di esporre i miei dubbi. Ho delle convinzioni: per esempio il fatto che puoi pagare per andare con una donna, cosa che credo essere buona. Non si può negare, un immenso segno di progresso.
Si riferisce alle prostitute?
Sì, sono assolutamente favorevole alla prostituzione.
Perché?
Perché tutti vincono. Non mi interessa particolarmente ma credo che sia una buona cosa. Molti inglesi o americani pagano e sono felici. Le ragazze sono felici. Fanno un sacco di soldi.
Come fa a sapere che le ragazze sono felici?
Perché parlo con loro. È molto difficile perché poche parlano inglese ma ci parlo, spesso.
Cosa mi dice dell’idea più comunemente sostenuta dall’opinione pubblica che queste donne siano vittime costrette in queste circostanze?
Le dico che non è vero. Non in Thailandia per esempio, è stupido obiettare su questo.
Dicono che lei sia tendenzialmente di destra poiché ne “Le particelle elementari” sembra schierarsi contro il liberalismo degli anni sessanta. Cosa ne pensa?
Fondamentalmente penso che non si possa fare granché per contrastare i cambiamenti sociali più radicali. Può essere considerato un peccato che la famiglia intesa come aggregato stia scomparendo. Si potrebbe argomentare che questo non fa che aumentare la sofferenza umana. Purtroppo però, spiacevole o no che sia, non possiamo farci niente. Questa è la differenza tra me ed un reazionario: non ho nessun interesse a far tornare indietro le lancette dell’orologio, semplicemente perché penso che sia impossibile. Possiamo soltanto osservare e descrivere. Ho sempre amato l’assunto di Balzac secondo il quale l’unica intenzione di un romanzo deve essere quella di mostrare i disastri causati dai cambiamenti di valori.
Di sé ha scritto di essere un ateo non solo religioso ma anche politico. Può approfondirci questo concetto?
Non credo che i politici abbiano una grossa influenza sulla storia. Credo che i fattori principali siano tecnologici e, meno frequentemente, religiosi. Non credo che i politici possano avere una vera importanza storica, eccetto quando provocano catastrofi in stile napoleonico. D’altronde non credo che la psicologia individuale possa avere alcun effetto sui movimenti sociali. Questa mia opinione si può trovare più o meno espressa in ogni mio romanzo. Parlavo proprio stamane con un caro amico a proposito del Belgio, un paese che non funziona. E nessuno capisce perché, da un punto di vista psicologico, giacché gli stessi belgi sembrano voler far in modo che le cose vadano bene, ma niente, non migliorano. Il paese va viepiù scomparendo. Siamo quindi costretti ad ammettere che ci sono delle potenti forze sociologiche all’opera che non possono essere spiegate in termini di psicologia individuale.
L’accoglienza ricevuta da “Le particelle elementari” la sorprese?
Sì. Ad esser sincero mi aspettavo un risultato simile al mio primo romanzo, un successo di critica con vendite modeste. Invece è stato un momento cruciale della mia vita, ero in condizione di poter smettere di lavorare.
La critica francese è irritata da quello che considerano come un cinico sfruttamento dei media da parte sua per lanciare i suoi libri, cominciato proprio con “Le particelle”. Quale era la sua attitudine all’epoca?
Pensavo che per vendere molti libri bisognasse presenziare parecchio sui media, ed è vero che ero davvero intenzionato a fare molti soldi, in modo da abbandonare il mio lavoro. Questo è l’unico vantaggio nell’essere ricchi, avere la libertà dei propri giorni, unico ma fondamentale. Poi non sono del tutto convinto che i media facciano vendere libri.
Cosa li fa vendere allora?
Il passaparola. Al momento, per esempio, Marc Levy è il best seller in Francia e non lo si vede mai in televisione.
“Le particelle elementari” è anche il romanzo che ha focalizzato i critici sulla sua vita personale a causa dei numerosi punti in comune che i protagonisti sembravano avere con l’autore. Sembra però che lei abbia trovato irritante il loro ridurre tutto all’aspetto biografico.
Sì, è fastidioso perché nega ciò che è il tratto essenziale dei romanzi, ovvero che i personaggi evolvono autonomamente nella storia. In altre parole, si parte con pochi fatti concreti e si lascia che la storia scorra nel suo momentum. E più lontano vai, più piacevolmente ti ritrovi ad allontanarti dalla realtà. Non si può raccontare la propria storia. Puoi usarne degli elementi ma non potrai mai immaginare di controllare cosa quel personaggio farà da lì ad un centinaio di pagine più tardi. La sola cosa si può fare è dare ai personaggi i propri gusti letterari: niente di più facile, basta far loro aprire un libro!
A proposito della sua vita, lei ha recentemente scritto di aver avuto un’infanzia felice con sua nonna.
Sì, mia nonna paterna. Ho vissuto con lei trai i sei ed i diciotto anni. Ci furono due momenti, il primo, che fu davvero felice, tra i sei ed i dodici. Abitavamo nella campagna di Yonne, correvo in bicicletta, costruivo dighe. Leggevo molto. Non c’era tanta TV. Si stava bene. Poi però ci trasferimmo a Crécy-en-Brie. Andandoci ora, non ne avrebbe un’immagine corretta: era molto più rurale all’epoca, oggi ci si trovano piuttosto strutture suburbane. Non mi ci trovavo bene. Troppa gente; mi piaceva la solitudine della campagna. Ma ad essere sinceri, l’adolescenza non è mai più bella dell’infanzia..
E sua nonna era comunista?
Era un ideale sovrastante: all’epoca chiunque provenisse da una certa classe sociale votava per il partito comunista senza avere la minima idea di chi Marx fosse. Era un voto di classe.
Lavorava, sua nonna?
No, era in pensione.
E cosa aveva fatto di mestiere?
Aveva lavorato nelle ferrovie, credo che fosse capostazione.
Era legato a sua nonna?
Sì, l’amavo molto.
Lei ha un considerevole senso dell’ironia, sua nonna era altrettanto divertente?
No, lei non scherzava molto.
Era materna?
Sì, i suoi quattro figli l’adoravano, era stata un’ottima madre.
Vedeva spesso i suoi genitori?
Mia madre molto poco, mio padre più sovente, specie durante le vacanze d’estate e di Natale.
Aveva un rapporto intimo con suo padre?
Non tanto, no. Era un uomo difficile da avvicinare; era una persona strana, un solitario in realtà. In ogni caso gli ero più vicino che a mia madre, posso dire di averlo conosciuto meglio.
Fino all’età di sei anni lei ha vissuto invece con i suoi nonni materni in Algeria; si ricorda la sua primissima infanzia?
Molto poco. Ho dei vaghi ricordi di parchi giochi e foglie.. ricordo anche l’odore dei lacrimogeni, che mi piaceva; mi sovviene ancora qualche immagine della guerra, cannoni per le strade..
Ne era spaventato?
No, per niente. I bambini sono divertiti da questo genere di cose.
C’era da leggere nelle case dove è cresciuto?
I miei nonni non leggevano nulla. Non erano persone istruite.
Com’è cambiata la sua vita dopo “Le particelle elementari”?
La più grande conseguenza del libro, a parte il denaro e la possibilità di non avere un lavoro dipendente, è che sono diventato conosciuto a livello internazionale. Ho smesso di essere un turista, per esempio, giacché i miei tour promozionali soddisfano ampiamente la mia voglia di viaggiare. Col risultato che ho potuto visitare dei paesi che normalmente non sono mete turistiche, come la Germania.
Perché dice questo?
Nessuno fa turismo in Germania, e si sbagliano perché non è così male.
Il turismo è il centro del suo terzo romanzo “Piattaforma”, che racconta di un’agenzia di viaggi che decide di promuovere il turismo sessuale.
La cosa più difficile di un romanzo è il punto di partenza, l’espediente che lo fa cominciare. E neanche un buon espediente è garanzia di successo. Credo che da questo punto di vista Piattaforma sia un po’ fallimentare, per quanto il turismo sia un eccellente punto di vista per capire il mondo.
Cosa la affascinava dell’industria turistica?
Trovo che sia un piacere assoluto leggere le guide turistiche, specialmente la guida Michelin e le sue descrizioni di posti che so che probabilmente non visiterò mai. Passo molto tempo a leggere la descrizione dei ristoranti, mi piace il vocabolario che impiega. Mi piace la maniera in cui presenta il mondo. Amo la descrizione della felicità della scoperta. Inoltre ci sono alcune domande di fondo che ho cominciato a pormi. “la Cina in sette giorni” per esempio. Come scelgono le differenti tappe? Come fanno a trasformare il mondo reale in un mondo gradevole, commestibile?
Ci racconti di Pattaya, in Thailandia, dove il tour sessuale ha luogo.
Ero completamente innamorato di Pattaya, dove si svolge la fine del libro. Tutti vanno lì. Gli anglosassoni, ci vanno. I Cinesi, ci vanno. I Giapponesi. Gli Arabi. Questa era la cosa più strana. Fu qualcosa letto proprio in una guida turistica a spingermi a fare un viaggio in Thailandia. Diceva che in un particolare hotel di Bangkok le prostitute indossavano dei veli per accattivarsi la clientela araba. Trovai affascinante questa adattabilità. Ci sono molte ragazze franco-algerine che lasciano i loro quartieri popolari per andare a prostituirsi a Pattaya. Col risultato che le “Thai girls” parlano francese con l’accento delle banlieues. Ci sono karaoke-bar per i Giapponesi, ristoranti rigonfi di vodka per i Russi. E c’è pure un lato commovente in tutto questo, qualcosa tipo “viale del tramonto” che avvolge alcune di queste persone, specialmente i vecchi inglesi o americani. Lo senti che non riusciranno mai a ripartire. C’è qualcosa di molto toccante nel momento in cui le prime ragazze arrivano sui loro scooters e vedi questi anziani cominciare a spuntare, come tartarughe che camminano lentamente sulla sabbia. C’è qualcosa di molto strano in quella città.
L’attentato che i terroristi perpetrano al night club nel libro ha in qualche modo preannunciato l’attacco compiuto a Bali un anno dopo la pubblicazione del libro, in una discoteca frequentata da occidentali.
Non era impossibile da prevedere. Poteva succeder anche in Malaysia, un altro paese musulmano che annovera molte prostitute e clienti occidentali.
È sempre dell’opinione che la prostituzione sia qualcosa che convenga a tutti?
Beh, l’Islam dovrebbe scomparire, altrimenti non può funzionare.
Quindi, in un mondo perfetto, c’è posto per la prostituzione ma non per l’Islam?
Non ho mai parlato di un mondo perfetto, ho parlato di un mondo che non sia un disastro.
Perché considera “Piattaforma” un fallimento?
Non c’è un’analisi sufficiente dell’industria turistica. E un personaggio, Valérie, è soverchiante sulla narrazione. Non che ci potessi fare granché: il personaggio di Valérie mi piaceva ed è preponderato e, come risultato, il personaggio maschile ne è risultato un po’ blando.
Ha dichiarato che le riviste letterarie non si sono concentrate sufficientemente sui personaggi.
Una cosa preziosa dei lettori ordinari è che talvolta sviluppano dei sentimenti per i personaggi. Questo è qualcosa a cui la critica non fa mai riferimento. È uno scandalo. I critici anglosassoni fanno delle ottime recensioni delle trame ma neanche loro si soffermano sui personaggi. I lettori, invece, lo fanno in maniera disinibita.
E cosa ci dice dei suoi detrattori? Potrebbe riassumerci brevemente cos’ha contro la stampa francese?
Prima di tutto, loro mi odiano molto più di quanto io non odi loro. Ciò che biasimo non sono le loro recensioni negative. È che parlano di cose che non hanno niente a che vedere coi miei libri – mia madre, il mio esilio fiscale – e che mi hanno caricaturato talmente da farmi diventare il simbolo di tutta una serie di atteggiamenti quantomeno spiacevoli: cinismo, nichilismo, misoginia. La gente ha smesso di leggere i miei libri perché si sono già fatti un’idea di me. In un certo qual modo, questo è valido per tutti. Dopo due o tre romanzi, uno scrittore può anche aspettarsi di non essere più letto, avendo i critici formattato le menti dei lettori.
Quando ha cominciato a scrivere?
È difficile da dire. Ci davano da scrivere dei saggi creativi a scuola, del tipo “descrivi un pomeriggio d’ autunno”, ed è vero che provavo un gusto spropositato nel comporli, al punto di averne ancora conservati. Inoltre tenevo un diario, anche se no sono del tutto sicuro di cosa ci scrivessi, credo di essere stato più incline a descrivere i miei sogni piuttosto che la mia vita di tutti i giorni.
Qual è il suo metodo di scrittura oggi?
Mi sveglio in piena notte, verso l’una del mattino, scrivo da mezzo addormentato, in uno stato di semi-coscienza. Parallelamente al bere caffè divento più cosciente e scrivo finché non sono stanco di farlo.
Di cos’altro ha bisogno per scrivere?
Flaubert diceva che si ha bisogno di un’erezione permanente. Io non ne vedo l’esigenza. Ho bisogno di fare quattro passi di tanto in tanto, questo sì. Altrimenti, in termini alimentari - dietetici, il caffè funziona, questo è vero. Ti porta attraverso tutti gli stadi della coscienza. Cominci semicomatoso. Scrivi. Ne bevi un altro po’ e la tua lucidità aumenta ed è in quello stato a metà strada, che può durare delle ore, che possono succedere cose interessanti.
Pianifica i suoi romanzi?
No.
Non sa cosa succederà da una pagina all’altra?
Non programmo niente.
Cosa ci dice del suo stile? Lei ha l’abitudine di utilizzare delle giustapposizioni brutali e a volte divertenti, per esempio: “il giorno che mio figlio si è suicidato, ho fatto un’omelette al pomodoro”.
Questo non è propriamente ciò che definirei stile, è solo la maniera in cui percepisco il mondo. Ho una specie di nevrosi che mi spinge verso questi contrasti improvvisi. Non è così diverso dal Punk. Gridi ma moduli un po’. Ne sono stati fatti anche studi universitari.
Qual è la conclusione di questi studi?
Ho una un fraseggio di media lunghezza, ricco di interpunzione. In altre parole, le mie frasi sono medio – lunghe ma frammentate in una varietà di modi. Una cosa che la gente odia sono gli avverbi. Io ne uso molti. C’è un’altra cosa che ha origine probabilmente dal fatto che alla base mi senta un poeta e non un romanziere: i redattori vorrebbero sempre elidere le ripetizioni, io amo le ripetizioni. La ripetizione fa parte della poesia. Quindi non mi disturba ripetermi. In effetti, credo di essere lo scrittore contemporaneo più ripetitivo in assoluto.
Le piace molto citare i nomi dei prodotti di consumo. Per esempio “Spigola al cerfoglio Monoprix Gourmet” (Monoprix: catena di supermercati NDT)
 “Spigola al cerfoglio..” è gradevole, attraente.. è ben descritto. Uso i nomi dei prodotti anche perché fanno, obiettivamente, parte del mondo in cui vivo. Ma è vero che ho tendenza a citare i prodotti che hanno i nomi più seducenti. Nel suo esempio la parola cerfoglio è molto attraente.. anche se non hai idea di cosa sia il cerfoglio ti mette voglia di mangiare qualcosa dove sia presente.. è carino.
Ha scritto che una delle sue fonti di ispirazione sono le storie che le persone le raccontano della propria vita. Apparentemente agli sconosciuti piace confessarsi con lei.
Credo che sarei potuto essere un ottimo psichiatra perché dò l’impressione di non giudicare. Cosa che credo essere vera. Certe volte sono molto scioccato da quello che la gente mi racconta. Ma non lo dò a vedere.
Ha scritto una biografia di H.P. Lovecraft, ciò che più colpisce sono le similitudini tra la sue disastrose storie d’amore e quelle dei protagonisti dei suoi libri.
Sì, la donna è coraggiosa e dinamica e fa il possibile perchè le cose funzionino mentre l’uomo è uno sfigato incompetente.
Qual’è il suo concetto di possibilità d’amore tra uomo e donna?
Ho avuto occasione di dire che la questione dell’esistenza dell’amore nei miei romanzi ha lo stesso peso delle interrogazioni suscitate a proposito dell’ esistenza di Dio nei romanzi di Dostoevski.
L’amore potrebbe non esistere più?
Questa è la domanda del momento.
E cosa ne sta causando l’estinzione?
L’idea materialista che nasciamo soli, viviamo soli e muoriamo soli. Non è per niente compatibile con l’amore.
“La possibilità di un’isola” si conclude in un mondo in rovina abitato da cloni solitari. Cosa l’ha spinta ad immaginare una realtà così sinistra, in cui gli uomini vengono clonati prima di raggiungere l’età adulta?
Sono persuaso che il femminismo non sia in fondo politicamente corretto. Trovo i suoi fondamenti  attuali per giunta molto più maligni e osa anche confondersi, cosa avversa agli anziani militanti. La questione della dominazione tra uomo e donna è relativamente secondaria – importante, certo, ma secondaria – rispetto a ciò che ho provato a descrivere in questo romanzo, ovvero che oggi siamo intrappolati in una società di bambini. Bambini vecchi. La scomparsa della trasmissione del patrimonio significa che un uomo oggi è un rudere inutile. La cosa a cui diamo maggior importanza oggi è l’essere (o apparire) giovani, ciò non può che rendere la vita automaticamente deprimente perchè la vita consinte, in fondo, in nient’altro che diventare vecchi.
Nella prefazione de “La possibilità di un’isola” lei cita una giornalista che a quanto pare le è stata fonte d’ispirazione per il romanzo. Può spiegarci?
Era un periodo molto particolare. Mi trovavo a Berlino in un caffé presso un lago, aspettavo qualcuno per un’ intervista. L’atmosfera circostante era molto calma. Erano le dieci del mattino. Nessuno intorno. La giornalista tedesca è arrivata e, cosa che mi sembrò strana, si comportava in modo strano. Non aveva un registratore e non prendeva appunti. Disse: “Ho sognato che lei era dentro una cabina telefonica, dopo la fine del mondo, e parlava a tutta l’umanità ma senza sapere se qualcuno ascoltasse o meno.” Come in un brutto film di Zombies. E questo ci porta alla premessa del libro: un clone che scrive un diario con l’intenzione di lasciarlo ai suoi successori.. Ho provato ad immedesimarmi nella situazione: io che, dopo la fine del mondo, parlo da una cabina telefonica senza in realtà sapere se dall’altra parte del filo c’è qualcuno ad ascoltarmi o se parlo da solo, solo per il gusto di sentire la mia voce. Mi è sembrata una metafora impressionante, valida per ognuno dei miei romanzi. C’è voluto un po’ di tempo perchè l’idea desse i suoi frutti. Nel frattempo scrissi i l mio terzo romanzo. Poi ho comprato un appartemento nel Sud della Spagna e mi ci sono recato durante l’inverno, in Gennaio. Le spiagge deserte mi davano l’impressione di essere solo, ai confini dell’umanità. Ho scritto le prime pagine, poi nulla più, per un bel pezzo.
Come è arrivato ad interessarsi alla setta di Raël che ha poi inspirato la bizzarra setta religiosa del libro?
Ho comprato dei testi religiosi e sono stato ad una sessione di orientamento per non-Raëliani.
E cos’è successo?
C’erano dei dibattiti col profeta che ci ha detto che le cose sarebbero andate di meglio in meglio, grazie alla scienza. È un misto di ottimismo totale sulla scienza e antimoralismo sessuale. Questo è ciò che principalmente attrae i partecipanti. Parlano di extraterrestri molto più sviluppati di noi in termini di ricerca che ci faranno dono della loro ricetta per la felicità tecnologica.
Perchè il personaggio principale è un attore comico?
Principalmente per due motivi: ero stato in un villaggio turistico in Turchia ed avevo assistito ad uno di quei talent show a cui partecipano gli stessi ospiti. C’era una ragazzina – avrà avuto quindici anni – che cantava un pezzo di Céline Dion ed era evidente che per lei era molto, molto importante. “Ci tiene proprio!” mi son detto vedendola. La cosa dvertente è stata che l’indomani ho visto la stessa ragazzina che sedeva sola al tavolo durante la colazione: “Di già la solitudine della star!” ho pensato. Ho avuto la sensazione che qualcosa di quel genere avrebbe potuto decidere i destini di una vita intera. L’attore ha esperienze simili: scopre all’improvviso di poter far divertire le folle e questo gli cambia la vita. Il secondo è che all’epoca conoscevo la redattrice capo di un magazine che mi invitava sempre a degli eventi molto fashion con gente tipo Karl Lagerfeld.. Volevo qualcuno che potesse far parte di quel mondo.
Come ogni buon comico, lei affronta senza esitazione l’argomento socio-politico più sensibile del momento con punte d’irriverenza che sfiorano l’insulto. Ma è divertente e fa ridere a crepapelle.
La fa ridere perchè l’insulto non fa altro che sottolineare un’evidenza. Potrà essere poco consueto nella letteratura ma non lo è di certo nella vita privata. “Dai, diciamocelo, l’Islam è un’idiozia” è qualcosa che qualcuno direbbe serenamente in privato. Questa sorta di dichiarazioni irrisorie e grossolane credo facciano parte della cultura francese. Per esempio, un’amica mi raccontava di una sua conoscente, molto brutta, fervente sostenitrice del diritto all’aborto. Mi ha detto: “non voglio essere meschina, ma credo che comunque nessuno vorrà  mai metterla incinta”. Nelle conversazioni i francesi usano spesso questo cinismo velenoso. Ci riconosco una sorta di buonsenso che apprezzo.
Lei sembra avere un talento speciale per insultare gli altri. Prova piacere a farlo?
Sì. Devo ammettere che è molto liberatorio.
Dice di essere molto fiero di aver fatto della parte finale de “La possibilità di un’isola” un trionfo poetico. È il momento in cui il clone scappa dalla sua zona sotto controllo e vaga nel deserto alla ricerca di un altro clone.
Personalmente amo molto l’ultima parte di quel romanzo. Non credo che somigli a niente di ciò che ho fatto prima, eppure nessuna critica ha mai sottolineato quest’aspetto. È difficle spiegarmi, ma ho la sensazione che ci sia qualcosa di davvero bello in quell’ultima parte. Delle porte si aprono ed è subito un altro mondo. Quando ho scritto quel passaggio non stavo pensando granchè alla storia in sé, ero completamente “intossicato” dalla bellezza delle mie stesse parole. Ci fu una preaparazione speciale per quel passaggio. Per due settimane ho smesso di scrivere e non ho fatto niente di niente. Non ho visto nessuno ne’ parlato con nessuno. In generale non devi smettere di scrivere nel bel mezzo di un romanzo; se smetti per fare qualcos’altro, è una catastrofe. In questo caso però ho smesso per non fare niente, soltanto per sentire accrescere il desiderio di riprendere.
Ha detto di essere ciclotimico. Cosa significa?
Significa fare costantemente andata e ritorno tra la depressione e la gioia. Ma alla fine, non credo di essere davvero depresso.
Cos’è allora?
Solo non molto attivo. La verità è che se sto a letto a non far niente, sto bene. Non credo che questo si possa chiamare depressione.
E cosa le evita di soccombere a quello che lei definisce il suo più grande pericolo, ovvero starsene imbronciato in un angolo a ripetere all’infinito che tutto fa schifo?
Per il momento il mio desiderio di essere amato è sufficente per spingermi all’azione. Voglio essere amato nonstante i miei difetti. Non è esatto descrivermi come un provocatore; un vero provocatore è qualcuno che dice cose in cui spesso non crede, solo per scioccare. Io provo a dire quello che penso. E se mi accorgo che quello che sto pensando potrebbe creare disappunto allora lo dichiaro con vero entusiasmo. E nel profondo, voglio essere amato malgrado tutto ciò.
Ovviamente, non c’è nessuna garanzia che possa durare.
I suoi scambi epistolari con Bernard-Henri Lévy, “Nemici pubblici”, sono stati tradotti negli Stati Uniti. Cosa vi ha spinto a pubblicarli?
È cominciato come un gioco, non avevo mai fatto niente di simile. Ciò che importa è cosa ci ha spinto a continuare ed eventualmente pubblicare, che in realtà è una cosa molto semplice: abbiamo pensato che il risultato fosse interessante.
Perchè non vive in Francia?
In parte per pagare meno tasse ed in parte per imparare la vostra magnifica lingua, Signora. E anche perchè l’Irlanda è bellissima, specie la costa occidentale.
Non per scappare dal suo Paese?
No. Sono partito all’apice di una gloria indiscussa, senza nemici.
E come giudica il mondo Anglosassone?
Possiamo affermare che questo è il mondo che ha inventato il capitalismo. Ci sono società private che competono per consegnare la posta, raccogliere i rifiuti. Le pagine finanziarie dei giornali sono molto più numerose di quanto non lo siano nel resto d’Europa. Un’altra cosa che ho notato è che donne e uomini sono molto più distanti. In ristorante per esempio puoi vedere spesso delle donne che cenano insieme. Trovo che i francesi siano molto più latini da questo punto di vista: una cena “unisex” è considerata il più delle volte noiosa. In un hotel in Irlanda ho visto, durante la colazione, un gruppo di uomini che sedevano insieme e parlavano di golf. Hanno finito, si sono alzati e sono stati rimpiazzati da un gruppo di donne che parlava d’altro. Come se fossero specie separate che si incontrano occasionalmente a scopi riproduttivi. C’è un passaggio che mi è piaciuto molto in un romanzo di Coetzee: uno dei personaggi pensa che la sola cosa che interessa sua figlia lesbica sia la marmellata di pere selvatiche. L’omosessualità è solo un pretesto: lei e la sua partner non fanno più sesso e si dedicano a cucinare ea decorare la casa. Forse c’è una verità potenziale data dal fatto che alla fine sono le donne ad aver dimostrato sempre un maggiore interesse per le confetture e le tendine.
E gli uomini? Cosa crede che interessi loro?
I bei culetti. Mi piace Coetzee, anche lui dice le cose piuttosto brutalmente.
Lei sostiene di avere un lato americano. Cosa ce lo dimostra?
Ho ben poche prove. C’è il fatto che se vivessi in un contesto americano probabilmente avrei scelto una Lexus, che ha il miglior rapporto qualità-prezzo. Più vagamente, ho un cane che so essere molto popolare negli Stati Uniti, un Welsh Corgi. Una cosa che non condivido è quest’ossessione americana per i seni prosperosi, cosa che, devo ammettere, non mi entusiasma. Ma un garage per due macchine? Lo voglio. Uno di quei frigoriferi con macchina del ghiaccio incorporata? Anche. Ciò che li interessa, interessa anche me.
Il suo attesissimo prossimo romanzo “La carta e il Territorio” è in uscita in Francia, ma se ne sa molto poco. Ho letto che si tratta di un tomo di 500 pagine che “esamina la società contemporanea attraverso il prisma del successo di un artista”. Apparentemente lei è uno dei personaggi. È corretto?
Le pagine sono solo 450. Il protagonista è un artista. Houellebecq resta un personaggio secondario, malgrado la sua presenza complichi notevolmente la struttura del romanzo. Vorrei evitare di aggiungere altro.
Quale crede che sia il fascino delle sue opere, malgrado la loro brutalità?
Ci sono diverse risposte. La prima è che sono ben scritte. Un’altra è che danno una vaga sensazione di dire la verità. La terza, che è la mia preferita, è perché sono intense. C’è bisogno di intensità. Di tanto in tanto si ha bisogno di abbandonare l’armonia. Persino di tradire la verità. Abbracciare energicamente delle cose eccessive, quando se ne sente il bisogno. Ora mi sembro San Paolo.
Cosa intende?
Queste sono dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la carità” (Cit. Lettera ai Corinzi, NDT). Per me sarebbe così: “la bellezza, la verità e l’intensità; ma di tutte la più grande è l’intensità”.
Lei ha scritto, sempre sulla biografia di H. P. Lovecraft, che “nessuna creazione estetica può esistere senza una parte di volontaria cecità”.
Sì, è vero, bisogna scegliersi una “famiglia”, per così dire. Bisogna esagerare un po’..
Quale considera essere la sua “famiglia”?
Potrà sorprenderla ma sono convinto di far parte della famiglia dei Romantici.
Prevedeva che questa sua affermazione potesse sorprendere?
Sì, ma la società si è evoluta, un Romantico di oggi è diverso da uno del passato. Tempo fa leggevo Democrazia in America di De Tocqueville. Sono convinto che se prendesse da una parte un Romantico del vecchio ordine e dall’altra ciò che De Tocqueville aveva predetto che sarebbe successo alla letteratura a seguito dello sviluppo della democrazia – ovvero avere l’uomo comune come soggetto principale, un fortissimo interesse nel futuro, usare un vocabolario il più realistico possibile – otterrebbe.. me.
Qual è la sua definizione di Romantico?
È qualcuno che crede in una felicità senza limiti, eterna e a portata di mano. Che crede nell’amore. E nell’anima, cosa che stranamente mi concerne, malgrado non smetta mai di dire il contrario.
Lei crede in una felicità eterna, senza limiti?
Sì. E non lo dico soltanto per essere provocatorio.

Intervista di: Susannah Hunnewell, Paris Review
Traduzione di: Carlo Ligas