lunedì 28 settembre 2009

Del perduto amor e non solo: Moloko - Statues (2003)

“No, I won't interfere
I'm the only sound you'll ever need to hear
Listen to my breath so near
Allow me to be every noise in your ear”

Statues è il prodotto di due ex-amanti che collaborano un'ultima volta prima di intraprendere strade diverse. Poco meno di un'ora per posare sul filo dieci sfere con identità diverse che stanno tra loro in forte relazione. Musica e parole cucite insieme elegantemente per comunicare un distacco, una disillusione, un desiderio che non è mai appagato completamente: la passione, seppure incontrollabile, è sempre rivolta a qualcosa di perso, di sfuggito.
Familiar feeling sembra riprendere il filo dal successo più limpido dei Moloko, The time is now, con il climax iniziale dei violini ad anticipare il ritmo acceso e senza rullante, basso molto presente e suoni acustici (notevole anche il remix di Martin Buttrich). Come on ironizza, scandita da un pattern di batteria inchiodato. Cannot contain this con i pad di tastiera soffici e l'elettronica della ritmica, tende il minore su una dimensione più eterea e sofisticata. La title track Statues, lenta e densa, ha delle aperture di violini sul finale di un'intimità che solo dissonanze accostate con amore possono offrire: parla di statue, separate e immobili. Forever more è l'opposto della precedente: i suoni crescono e si gonfiano, così come il ritmo scandito da rullanti che ricordano la dance anni '90. Ma ancora una volta è l'abbandono a farla da padrone. Segue l'rnb di Blow By Blow, dal sapore anni '80, mentre 100% fotografa il mix di acustico, ritmo ed elettronica ricercato dagli ultimi Moloko. The only ones rallenta, ma solo nel tempo: arpe e fiati la fasciano dedicandola ai “prone to addiction, users, jokers and the joke”, per poi atterrare su I want you, ultima dinamite sostenuta del disco, ballabile e passionale. Gli archi aprono e chiudono anche i 10 minuti di Over and Over, epilogo riepilogo dell'album, disilluso, rassegnato eppure così denso di passione e violini sul pattern infinito di basso e batteria, dalle parole quasi sospirate e dall'arpeggio di chitarra che fa da sfondo alla scena. L'atmosfera è quella di una fine, non di un lieto fine incolore.

I Moloko sono:
Roisin Murphy (voce) e Mark Brydon (produzione, basso e altro).
Poco menzionati dalla critica, purtroppo, gli altri due musicisti cardine della band: Eddie Stevens, tastierista e arrangiatore eclettico e scabinato, stile arancia meccanica: synth, violini e fiati trascinanti. Paul Slowly, batterista unico, raffinato e potente.

Massimo "Mancio" Mancini

sabato 26 settembre 2009

Non ma fille, tu n'iras pas danser (Making Plans For Lena) diChristophe Honoré (2009)

Forse è vero. Forse è vero che l'amore ed il bene sono l'ascissa e l'ordinata dello stesso piano cartesiano. E di conseguenza essi implicano, per natura, le loro stesse tendenze all'infinito, positive e negative. E' quindi algebricamente possibile che ad elevati valori di uno ne corrispondano di infruttuosi nell'altro, vale a dire che un eccesso di amore, benché miri al bene, in assoluto può nuocere. Questa almeno sembra essere la tesi proposta da Christophe Honoré in questa commedia delicata e dispersiva. Lena (una Chiara Mastroianni sulla cui bellezza, ipocritamente, sorvolerò, assolutamente trasparente e vera, in piena maturità artistica) è una madre poco lontana dalla nevrastenia, fresca di divorzio, che raggiunge la sua famiglia nella campagna francese, in piena estate, meravigliosa girandola di tinte tenui, messa in risalto con discrezione ed efficacia dalle luci in opera. Qui, e non soltanto qui, comincia a scoprire la trafila di piccoli espedienti ed escamotages messi in atto da tutti i suoi cari per assecondarle una vita a loro (e per sua stessa ammissione) anche a suo avviso non perfettamente lineare. In questi pochi giorni bucolici si definiscono gli incroci che compongono la scarna trama, con angolazioni ben mirate sulle vite dei familiari di Lena: una splendida coppia di genitori (elevata interpretazioni di entrambi, Marie-Christine Barrault e Fred Ulysse), una sorella non meno in preda ad improvvisi rigurgiti di malumore (Marina Foïs, brava, molto brava) ed un fratello, Julien Honoré, sul quale il regista (suo fratello nella vita?) ha disegnato delle note di ironia ingenua, un personaggio integralmente votato alla pace d'animo ed alla serenità disincantata, forse per questo invidiato dalle sorelle al punto di lamentarsene, consigliandogli testualmente: "Sois négatif, de temps en temps!!".
Molto piacevole anche se più defilata l'interpretazione di Marcial Di Fonzo Bo, marito frustrato e frustrante di Frédérique, che si cala agilmente nel ruolo di un uomo a disagio come un porta-ombrelli sistematicamente scambiato per una pattumiera. Ma dove veramente chi ha curato il cast ha indovinato, è senz'ombra di dubbio nel ruolo di Nigel, marito (ex) di Lena, Jean-Marc Barr, millimetrico nel dosare i sentimenti espressi, propri di un uomo sicuro, un capitano che naviga senza timori in acque agitate che non lo spaventano affatto. Lena si troverà quindi a respingere quest'onda di cure amorevoli profuse dal suo entourage, reagendo spesso con indispettito infantilismo a quelle che ritiene essere invadenti dimostrazioni d'affetto. La trama resta però scucita, anche quando gli scenari ritornano in città, dove Lena riprende a frequentare un ragazzo più giovane (un Louis Garrel quasi caricaturale, ritagliato da una rivista per teenagers degli anni '90) più per disperazione che per vero trasporto, senza riuscire mai a riprendere in mano le redini della sua vita. Da sottolineare un'inspiegabile digressione di una decina di minuti, in pieno cuore del film, sulla rappresentazione in costume di una favola, con tanto di ballerini e suonatori bretoni, architettura già messa in atto dal regista in opere precedenti, assolutamente incomprensibile, appiccicata malissimo sul ritmo già zoppicante del film. Il titolo internazionale è Making plans for Lena, tratto da "Making plans for Nigel" degli XTC di Andy Partridge, canzone che Nigel fa sentire ai figli in un vecchio giradischi gracchiante.
Voto: 6
Carlo Ligas 

domenica 20 settembre 2009

À L'Intérieur (À L'Intérieur) di Alexandre Bustillo e Julien Maury(2007)


"Voi scendete, scendete, miserevoli vittime
scendete per la strada dell'infinito inferno!
Colate in fondo all'abisso, dove tutti i crimini,
flagellati da un vento che non viene dall'etere,
ribollono alla rinfusa con un rombo d'uragano.
Correte al fine ultimo dei vostri desideri,
folli ombre; mai potrete la vostra rabbia placare
e nascerà il castigo dai vostri stessi piaceri."
(Donne Dannate, Charles Baudelaire)


Quanta empietà visiva verso il femminino in questo capolavoro horror, contro la sua iconografia depositaria della vita, dell'amore. Qui dentro, À L'Intérieur, si devasta qualsiasi caposaldo etico e si lavora quasi esclusivamente di rappresentazione. E che messa in scena! Molte inquadrature fisse in campo medio esasperano la violenza invece che diluirla, al contrario di un montaggio frenetico di primi piani così abusato nel genere (che vorrebbe suggerire un effetto che, invece, regolarmente dilegua e annacqua). 
Tutto il film pulsa di riprese geometriche e misurate, concentrate sull'orrore, fortificate da un devastante commento sonoro, essenziale e affilato come le forbici protagoniste del film. 
Questa innovativa scelta autoriale e registica compenetra una sceneggiatura semplice, quasi da atto unico, da vecchia scuola horror americana (Carpenter, Raimi, Craven) regalandoci un risultato unico e sovversivo. Un film potentissimo, una macchina da guerra irrequieta e invasiva: per stomaco, cuore e nervi d'acciaio. 
Due eccezionali interpreti: una Beatrice Dalle sulfurea, come fosse una Diamanda Galas satanica e scellerata, e una Alysson Paradis (la sorellina di Vanessa) stanca, sofferente, perfetta nella parte della piccola madonnina del travaglio.


Quello di Alexandre Bustillo e Julien Maury è l'incubo più bello che abbia visto negli ultimi anni, definirlo un film di genere è decisamente riduttivo. Come in "Frontière(s)" (Frontiers - Ai confini dell'inferno) di Xavier Gens e nel molto bello "Haute tension" (Alta tensione) di Alexandre Aja, le donne sono protagoniste assolute. Nel film di Bustillo e in quello di Gens difendono la loro maternità, in quello di Aja la loro libertà sessuale. I primi due riflettono prepotentemente anche sui disordini sociali e razziali delle banlieue parigine e non passa inosservata nel film della coppia Bustillo-Maury, la scena del poliziotto che trascina, ammanettato al polso, un giovane franco-algerino dentro la casa degli orrori. Un Giano bifronte che sancisce il fallimento di un'impresa, la dis-integrazione? La vecchia generazione che non accetta di essere sostituita?
Ma anche senza volerci vedere troppe cose dentro, questa pellicola rimane il perfetto simulacro della claustrofobia: À L'Intérieur del ventre, della casa, della società e del dolore.


Luca Tanchis

domenica 13 settembre 2009

Nemico pubblico n. 1 - L'istinto di morte (2008) L'ora della fuga (2009) di Jean-François Richet


Il primo capitolo di Richet, "L'istinto di morte", dedicato alla vita del più famoso criminale francese Jaques Mesrine, mi aveva lasciato perplesso sia per una messa in scena oltremodo mimetica, vicina al docufilm, sia per una regia spoglia di guizzi visionari. Inoltre la recitazione di Vincent Cassel era eccessivamente misurata, come se l'attore francese avesse il terrore di strabordare il confine della macchietta come invece faceva allegramente Gerard Depardieu, in una delle sue peggiori comparsate, nei panni del gangster Guido. Forse è stata la natura stessa del biopic a richiedere tutta questa attenzione per la ricostruzione non agiografica dell'irrefrenabile gangster, ma sta di fatto che il primo capitolo poteva essere interpretato come un mezzo passo falso, privo di elettricità e profondità, o come una fin troppo calibrata e lunga rincorsa verso la seconda parte, "L'Ora Della Fuga". Era giustificata una preparazione così manieristica, quasi parodistica nelle scenografie e costumi, così trattenuta nello scavo dei personaggi, nei riguardi della parte finale della vita di Mesrine? È fin troppo evidente la costruzione di un dispositivo a scatto che rende la prima parte quasi solo accessoria.


A vedere la vitalità registica e interpretativa de "L'Ora della Fuga" pochi sono i dubbi che permangono; il capitolo finale è oltre due ore di grande cinema d'azione. Con un Cassel imprendibile sia per la police che dalle gabbie di una possibile empatia tra il pubblico e il suo personaggio. Vincent elude questo pericolo dando prova di una consumata arte del gesto, di una grande lucidità nei confronti del personaggio, e Richet lo evita invece, screditando con chirurgica precisione le velleità pseudo-politiche di Mesrine. Quella vanagloria con la quale il gangster voleva ammantare le sue reiterate efferatezze; vestirsi da Robin Hood per trasformare, con l'aiuto dei media, il suo carnevale magalomane e anfetaminico in qualcosa di necessario. Il miglior attore francese in attività (Mathieu Amalric) e l'attrice piu sexy (Ludivine Sagner), fanno da spalla a Cassel con perfetta misura dei toni e degli spazi e Richet, pur omaggiando il polar francese di Melville, Delon e Lino Ventura (soprattutto " Le Cercle Rouge"), rende tutta la seconda parte nervosa, aggressiva, che mai indugia in un'oasi di perfetta messa a fuoco, regalandoci un personaggio sfuggente anche dallo schermo e consegnandoci, dulcis in fundo, l'esecuzione di Mesrine in una scena ordita con una sapienza stilistica che lascia senza fiato. Mesrine ( che si pronuncia Mèrin, come ripete più volte Cassel) è un uomo evaso dal carcere tre volte, sfuggito a mille agguati e inseguimenti, ma che non riuscirà ad evitare la fuga dal suo mito, dalla sua volontà di potenza. Corre incontro al suo baratro con la consapevolezza dell'istinto tragico e con l'incoscienza e la solitudine dei folli.


L'istinto di morte - Voto: 6
L'ora della fuga - Voto:8


Luca Tanchis