mercoledì 13 gennaio 2010

Intervista a Charlotte Gainsbourg, TROIS Magazine



Esito positivo
2009, annata erratica per Charlotte Gainsbourg: premiata come interprete femminile a Cannes per il provante Antichrist, malmenata da Romain Duris in Persécution, doppiatrice di una creatura fantastica in Max et les maximonstres, l’attrice ha appena pubblicato IRM, il suo terzo album, realizzato da e con un Beck in stato di grazia. Finalmente liberatasi dalla pesante eredità paterna, conferma le sue evidenti doti di cantante e vi si libra con una rara generosità. Incontro con un’artista affrancata. 

Il suo nuovo album si intitola IRM, in riferimento agli esami medici che ha dovuto subire due anni fa. Perché ha scelto questo titolo? 

Alla fine si è imposto da solo, in maniera molto spontanea. Era quello più rivelatore. Mi piace molto ciò che significa: “Imagerie à Resonnance Magnétique”, è allo stesso tempo molto poetico e molto clinico. Concilia la scrittura immaginifica, umana, terrestre di Beck e il lato più percussivo del disco – tutti questi suoni un po’ robotici dell’apparecchio a risonanza magnetica che abbiamo campionato nel pezzo omonimo. Ho fatto molte visite in una specie di cassone rumoroso: mi sono abituata ai suoni che ne provenivano, sono addirittura arrivata a trovarli onirici, trascendentali. Forse questa reazione era una maniera di proteggermi.. All’inizio della nostra collaborazione ho inviato questi suoni che ho trovato su un sito medico a Beck. A lui l’idea è piaciuta parecchio e ha iniziato ad utilizzarli in maniera musicale. 

Questo inizio in ogni caso dimostra bene ciò che la distingue, nella canzone come al cinema, dove riesce costantemente a fare della sua vulnerabilità apparente una forza, un motore. 

Non ho una prospettiva corretta rispetto a ciò, ma è vero che quando sono arrivata a Los Angeles per registrare il disco ho cercato di portare con me più bagagli possibili. L’incidente (Charlotte ha avuto un incidente di sci nautico nel 2007, ndt) mi era appena successo, ero ancora moralmente molto fragile, questo deve avere avuto delle ripercussioni sull’ album. Beck si è molto ispirato a ciò che sentivo, come se fosse entrato nel mio cervello. 

La registrazione è durata circa due anni, a Los Angeles appunto. In che misura questa città ha contribuito alla realizzazione del disco? 

La prima volta che ci sono stata, a sedici anni, avevo l’impressione di essere su di un’autostrada. Durante la registrazione c’è stato un periodo abbastanza lungo in cui uscivo dalle riprese di Antichrist e mi ritrovavo molto isolata, laggiù. E’ una città allo stesso tempo alienante e creativa. Credo che una buona parte degli artisti che abitano a L. A. peschino nell’insofferenza verso quel luogo un po’ della loro ispirazione, che l’artificialità di quel posto faccia nascere delle opere molto profonde, è un processo strano. Da parte mia, mi sentivo molto turista. A volte la mia famiglia è potuta stare con me, vivevo a casa di Beck, c’era un ambiente molto piacevole e disteso: restare tutto il tempo sotto il sole con quel cielo blu che non si muove mai.. credo che questo abbia colorato l’album. 

Il suo secondo album, 5:55, è stato realizzato in collaborazione con gli Air, un duo che conosce bene ed apprezza Beck. Cosa distingue secondo Lei questi musicisti? 

Gli Air si sono creati un universo a sé, estremamente singolare. L’album che abbiamo fatto insieme era forse un po’ più “prodotto”, molto statico. Eravamo in uno studio, loro suonavano con degli strumenti veri.. ho l’impressione che Beck sia più permeabile, più sperimentale. Pizzica in tutti gli stili, li fa propri, si serve di tutto l’immaginabile e non: Klacsons, giocattoli, corde.. Diciamo che ho avuto l’impressione di entrare nel mondo degli Air, mentre Beck mi è sembrato aver fatto un passo verso di me. Si è lasciato trasportare, a livello di testi e musica. 

In un’intervista ha dichiarato che un album di suo padre, Gainsbourg Percussions, aveva particolarmente ispirato la registrazione di IRM.

Sì, ma non è stata un’influenza consapevole. Mi sentivo cantare con i cori di New York, queste voci chiarissime, decise, che mi hanno molto motivata.. IRM è un album con una notevole presenza di percussioni. Con Beck ogni volta partivamo da un ritmo: la batteria, i tamburi, sono le basi di partenza della maggior parte dei pezzi, sulle quali si sono arrampicati gli altri strumenti. Dal momento in cui questi ritmi prendevano una tinta africana, carnale, tribale, io reagivo spontaneamente. Non avendo un linguaggio molto musicale, mi era indubbiamente più facile aderire a questo genere di ritmi. Beck mi ha fatto ascoltare molto blues, Robert Johnson, cose così.. Io da parte mia gli ho passato qualche colonna sonora, "Le troisième homme", "Smile" di Chaplin, ma non ci ha sviluppato sopra granchè. 

In ognuno dei suoi dischi le sue origini francesi sono distillate, come sospese: in 5:55 le si poteva indovinare solo grazie al riferimento ad una compagnia aerea, qui alcuni titoli sono cantati in francese, tra cui una reprise di un oscuro cantante del Québec.

E’ Beck che mi ha fatto scoprire questa canzone allucinante, "Le chat du café des artistes" di Ferland, così ricca, così divertente.. Siamo rimasti piuttosto fedeli all’originale. Beck mi spingeva a scrivere in francese mentre io tendevo a voltarmi verso il blues, verso ciò che non mi somiglia. Nella canzone "Voyage" mi ha chiesto di tradurre delle parole che aveva in testa e le ha assemblate in modo abbastanza sornione. L’altro titolo in francese, "La Collectionneuse", proviene dal mio amore per un poema di Apollinaire che si prestava bene ai temi dell’album. Cantare in inglese mi risulta più facile. In francese ho un riferimento diretto a mio padre, troppo pesante. Non riesco a scrivere di per me, è come se fossi dentro uno scafandro. Fare un album per me deve restare un atto ludico, un divertimento. 

Dopo un’esposizione alla Cité de la musique, un film in onore di suo padre, realizzato da Joann Sfar, uscirà a breve sul grande schermo. Che sensazione le danno questi omaggi? 

Sono fiera che ci sia così tanto amore per la sua vita e la sua opera ma preferirei non immischiarmene. Ho smesso di lavorare al progetto di un museo a lui dedicato perché non ne avevo le forze. Bisognava che pensassi a me, a preservarmi, a conservare una parte di segreto in ciò che lo concerne, dato che tutti sanno tutto di lui, persino più di me. Io so quello che lui mi ha raccontato, non ho letto nessuna sua biografia, posseggo ciò che lui ha voluto darmi e dirmi. E basta. 

Il mese scorso nelle nostre pagine il suo compagno, Yvan Attal, affermava: “Quando si è attori si ha voglia che un ruolo ci costi qualcosa”. Parlava della propria esperienza in "Rapt" ma anche della sua in "Antichrist" di Lars Von Trier.

A me piace lo sforzo. Ho avuto molto piacere durante le riprese di "Antichrist", un piacere un po’ masochista è vero, di dolore ed eccitazione mescolati. Essere in crisi per due mesi è molto liberatorio, anche se non potrei farlo tutti i giorni. E’ per questo che non amo fare un film appresso all’altro, non saprei più dove e quando riposarmi mentalmente. E’ piacevole sentirsi svuotati dopo aver girato. 

Ha prestato la voce ad un personaggio in "Max et les maximonstres" di Spike Jonze, un esercizio a metà strada tra il cinema e la canzone. 

Non avevo mai fatto del doppiaggio prima di allora. Questo film mi ha proprio sedotta, mi ha riportato certi ricordi d’infanzia, era piuttosto magico. C’è qualcosa di molto intimo nel registrare un album: si trasporta molto di sé nel canto e nei testi, si scava in ciò che si è. Il cinema, al contrario, significa camuffarsi, travestirsi, proteggersi in qualche modo. L’interesse è di portarci le proprie emozioni. 

In "Persécution" di Patrice Chéreau il suo personaggio è maltrattato da quello di Romain Duris. Essere attori è una forma di persecuzione consentita? 

E’ accettare di essere perseguitata da un regista ma anche aver voglia di dare. In "Antichrist" interpretavo sia la vittima che l’aguzzino mentre in "Persécution" soltanto la vittima. Patrice Chéreau ha una maniera molto strana di dirigere, come un terzo attore dietro la telecamera, una sorta di direttore d’orchestra animale.

Trois Couleurs, MK2 Magazine N.77



Intervista: Auréliano Tonet

Traduzione: Carlo Ligas

lunedì 11 gennaio 2010

La Merditude des Choses di Felix Van Groeningen - 2009

Tragicomicamente, la vita. Senza scalini, senza pause o sfumature nei cambi di registro, nessun rallentie nei saliscendi sulle montagne russe del trash più oltraggioso, il trash la cui faccia resta inflessibilmente di bronzo, senza vergogna di sorta, che continua ininterrottamente a dare il peggio di sé, anche quando sembra essere davvero troppo, anche quando ci si aspetterebbe una reazione e invece l’ unica direzione resta una pervicace inflazione. Vertice europeo di un isoscele immaginario che vede la sua base correre aldilà dell’ oceano tra Lebowski e The Simpsons, il terzo lungometraggio di Felix Van Groeningen affonda le mani nella terra fredda e bagnata delle Fiandre, nel substrato di una cultura lontana dagli splendori e dalla prosopopea della capitale d’Europa, in una società drammaticamente appiattita su sé stessa, scoraggiante e scorreggiante, follemente anarchizzata da quello che sembra essere l’ unico, invalicabile ed immortale burattinaio di tutti i destini: l’ alcool.
Tratto da un recente best seller dell’ editoria fiamminga, il film applica la struttura classica del ricordo biografico dello scrittore ancora inedito che rivede il suo passato ed in esso le ragioni del suo presente, risalendo fino alla prima metà degli anno ’80 nella piccolissima provincia belga, schiacciata sotto cieli grigi e pennellata in toni slavati da una telecamera a spalla che mette lo spettatore accanto ai protagonisti ed alle loro bieche consuetudini. Nei suoi ricordi l’ Io narrante Gunther (Valentijn Dhaenens ne è l’interprete adulto, visibilmente un attore molto preparato, con punte di elevato talento palpabile nei numerosi soliloqui di pensiero, nonostante l’osticità della lingua) racconta l’humus della sua educazione-formazione, trascinata con l’anima tra i denti in una famiglia composta dal padre (la madre non ha resistito a lungo) ed i suoi tre zii (tutte interpretazioni molto più che suffucienti, caratteri tagliati con l’ascia, un look degno dei periodi più bùi dell’ heavy metal ma capaci di sciogliersi in lacrime davanti ad una "Pretty woman" live di Roy Orbison), tutti, benchè più che adulti, a vivere nella casa natale con una madre disperatamente capace di reggere l’assurdo menage.
Svezzato a birra schiumante un orgoglio costantemente sbandierato di far parte di loro, di essere uno Strobbe, benchè tale lignaggio non comporti che instabilità finanziaria e psichica, il giovane Gunther, dotato di una sensibile capacità critica, ed una crescente volontà di sfuggire dal "merdaio" circostante, affronterà con naturale disincanto delle prove durissime regalategli dal suo frizzante entourage quali condividere la stanza con uno zio votato a conquiste femminili che consuma nel letto accanto al suo e che non esiterà a sedurre la giovane di cui Gunther si innamora, assistere fieramente a colossali bevute agonistiche con esponenti della sua famiglia, per una volta, sugli allori, o ancora essere respinto dal suo unico amico in quanto discendente di una famiglia di "marginali", o svegliare suo padre crollato la notte in una pozza di vomito. Ed è probabilmente proprio questo il focus dell’ opera premiata dalla Quinzaine a Cannes: l’archetipo della paternità fallita che cerca giustificazioni dappertutto e mai comprenderà le colpe che invece albergano dentro di sé: "Odio due donne: una mi ha messo al mondo, l’altra sta per partorire mio figlio." Così si esprime il Gunther adulto dopo aver invano tentato di sfuggire alla paternità e presentendone l’ insormontabile impegno, mentre i piani continuano delicatamente ad oscillare tra presente e passato fino alla sua piccola rivincita morale nei confronti di un destino fino ad allora votato alla disfatta, come un personaggio di Zola costretto per genetica a restare tra gli ultimi e che rianalizzando e raccontando il suo vissuto lo esorcizza, raggiungendo il suo desiderio di vivere dei suoi racconti, mentre continuano ad affiorare i ricordi, ininterrotti come bollicine in una grossa coppa di birra belga, ancora scura ma, dopo tanto tempo, meno amara.

Voto: 7
Carlo Ligas