venerdì 3 ottobre 2014

The Quiet Man At The Cinema (Un uomo tranquillo al Cinema)




  1. Youth Without Youth (2007) Francis Ford Coppola/ music: Osvaldo Golijov - (Main Theme)
  2. Lost Highway (1997) David Lynch/ music: Barry Adamson - Hollywood Sunset
  3. The Quiller Memorandum (1966) Michael Anderson/ music: John Barry - He Knows The Way Out
  4. Bittersweet Life (2005) Kim Ji-Woon/ music: Jang Young-Gyu Dalparan - Uh Doo Oon Bang
  5. Clean (2004) Olivier Assayas/ music:  Maggie Cheung - She Can't Tell You
  6. Les Choses De La Vie (1970) Claude Sautet/ music: Philippe Sarde - (Main Theme)
  7. The Tree of Life (2011) Terrence Malick/ music: Alexandre Desplat - River
  8. Beginners (2010) Mike Mills/ music: Bach - Cello Suite No.1 Prelude      
  9. The Girl With The Dragon Tattoo (2011) David Fincher/ music: Trent Reznor - While Waiting
  10. Pusher II (2004) Nicolas Winding Ref/ music: Keli Hlodversson - Sad Disco
  11. Zero Dark Thirty (2012) Kathryn Bigelow/ music: Alexandre Desplat - Maya On Plane
  12. Hotel (1967) Richard Quine/ music: Johnny Keating & Carmen McRae - This Hotel
  13. Il Casanova di Federico Fellini (1976) Federico Fellini/ music: Nino Rota - Pin Penin
  14. Coriolanus (2011) Ralph Fiennes/ music: Ilan Eshkan - Gelany Beno
  15. Wall Street Money Never Sleeps (2010) Oliver Stone/ music: David Byrne - Sleeping Up
  16. Ruby Sparks (2012) Jonathan Dayton e Valerie Faris/ music: Nick Urata - She Came To Me
  17. La Piscine (1969) Jacques Deray/ music: Michel Legrand - Chassé-croisé
  18. Mr. Klein (1976) Joseph Losey/ music: Egisto Macchi and Pierre porte - La Prefecture
  19. La Guerre Est Finìe (1966) Alain Resnais/ Music: Giovanni Fusco - Marianne    
  20. Petulia (1968) Richard Lester/ music: John Barry - Petulia (Main Title)
  21. Prisoners (2013) Denis Villeneuve/ music: Johan Johansson - The Candlelight Vigil
  22. Moonrise Kingdom (2012) diretto da Wes Anderson/ music: Alexandre Desplat - The Heroic Weather-Conditions of the Universe, Part 7
  23. Frances Ha (2013) Noah Baumbach/ music: Felix Laband - Falling Off A Horse
  24. Sous Le Sable (2000) François Ozon/ music: Philippe Rombi - Ouverture
  25. L'Amour Fou (2011) Pierre Thoretton/ music: Côme Aguiar - L'Amour Fou
  26. The Private Life Of Sherlock Holmes (1970) Billy Wilder/ music: Miklòs Ròzsa - (Main Theme)
  27. Fallen Angels (1995) Wong Kar Wai/ music: Massive Attack - First Killing (Karmacoma)
  28. Faust (2011) Aleksandr Sokurov/ music: Andrey Sigle - (Main Theme)
  29. Chopper (2000) Andrew Dominik/ music: Mick Harvey - (End Theme)
  30. Babel (2006) Alejandro González Iñárritu/ music: Gustavo Santaolalla - Iguazu
  31. Rosemary's Baby (1968) Roman Polanski/ music: Krzysztof Komeda - Rosemary's Lullaby
  32. Moon (2009) Duncan Jones/ music: Clint Mansell - Memories (Someone We'll Never Know)
  33. Hammett (1983) Wim Wenders/ music: John Barry - (End Credits)
  34. Shutter Island (2010) Martin Scorsese/ music: Max Richter & Dinah Washington - This Bitter Earth
  35. The Quiet Man (1952) John Ford/ music: Victor Young - Cottage Fireside (Forlorn)

martedì 9 settembre 2014

Pasquale Panella, Una è la Canzone


Questo libro è già impaginato, adesso, mentre scrivo la prima frase, che è questa. Sono mesi e mesi che Mauro Ronconi mi chiede di dire qualcosa sulla canzone. Sono mesi e mesi che io non ho nulla da dire. 
Oggi è un giorno di maggio (il libro è impaginato) e Mauro mi dice: "Fammi un regalo". 
Ecco il regalo, è come se avessi in mano il pacchetto. Lo vedo, così come si vedono subito le cose immaginate quando sono semplici: hanno la prontezza degli inganni ad apparire, la scherzosa insolenza degli abbagli a sparire. La carta che lo riveste, benissimo piegata, è rossa. Cosa vuol dire rossa?
Vuol dire che sto dicendo la verità. Il nastro che lo infiocca è verde. Cosa vuol dire verde? Non vuol dire niente, non vuol dire altro. 

Vedo tutto, vedo perfino le mie mani. E fanno quattro, sommate a quelle con le quali, dita sulla tastiera, sto scrivendo.
So tutto, vedo tutto, vedo anche quello che non c'è. Una cosa non so: cosa ci sia nel pacchetto. Io non so, non so cosa sia "parlar di canzone". Mi è capitato di dirne tante, sopra/sotto, a destra/a sinistra, in alto/in basso; e poi mi è capitato di dirne poche, un po' al di sopra, un po' al di sotto, un po' più a destra, un po' più a sinistra, un po' più in alto, un po' più in basso (sembrava che stessi comodo, seduto, e che dessi indicazioni a una bella sistematrice di oggetti su mensole, per poi vedere l'effetto, e l'effetto era come si muoveva lei); e poi non ne voglio dire più.

Sì, faccio il muso, faccio il capriccioso, insomma state accorti: è capace che vi rivolti la minestrina canzone sulla testa, stelline e tutto. Sono mesi e mesi che non so, e adesso non so nemmeno quale sia il regalo. 
O, forse, il regalo è questo: nastro e carta, colori complementari, parole e musica. Ho tra le mani, e tra poco non più, la curiosità di sapere cosa c'è dentro. E adesso eccola a voi.

Cos'è la curiosità? E' mettersi a disposizione di ciò che non si sa cosa sia. 
E la curiosità è attesa, attesa di sé, di un sé che non sa. Se uno lo sapesse, gli si inumidirebbero gli occhi. Se uno sapesse dell'attesa di sé, non se uno sapesse cosa c'è dentro. Quel che c'è dentro si può anche polverizzare, anzi deve, può scoppiare con un piccolo sussulto della scatola, che trasmette un battito, solo un battito in più, dispari, nel petto di chi la riceve; può essere un orologio il cui vetro si frantuma e il cui tempo si ferma. 
Allora lì dentro c'è qualcosa come una piscina, come un lago, come un sonno, come braccia aperte, una cosa nella quale si può cadere, ma non come l'estate o le palestre, non come quei frustrati tuffi da turista, non come il sonno per mettere sopra di noi la notte come una pietra sopra.

No, c'è qualcosa di definitivo, come un abbandono in sè, come un cadere tra le braccia proprie, a braccia aperte tra le stesse braccia aperte; poi le braccia come l'acqua si richiudono. L'acqua è semplice, come un essere umano che dorme, lasciamo perdere le vigliacche insinuazioni sui sogni che hanno già scimunito parecchie generazioni, lasciamo le alghe alle alghe, stringano tra loro i loro soffocanti legami, lasciamo il fondo al fondo. Cosa c'è oltre il fiocco e la carta? Non c'è niente, ma ci puoi cadere dentro.

E cosa senti? Magari, anche qui, qualcosa di simile al niente: inconsistente un abbandono. Conoscete due abbandoni nella vita, l'abbandono che non sopportate e l'abbandono che desiderate. Questo abbandono qui è quello che volete, che desiderate, è il magnifico senso di negazione del resto. Come succede solo quando ci si butta, ci si sperpera in quella cosa delle quale non so che dire, e della quale qui non parlo: la canzone. 

E' lì che voi cadete tra le vostre braccia. E' lì che siete soli volendolo essere.
Conoscete in cuor vostro la segreta smentita di una di quelle pusillanimi avventure imprenditoriali della mistificazione: la musica che aggrega (già è brutto il verbo) statisticamente. La musica forse sì, al più basso livello di sigla opportunista di un'appartenenza, che è derelitta collusione con organizzazione e impresariato (il pubblico alle volte è manager pagante), ma la canzone no.

Chi fa veramente una canzone, il suo artefice, è colui che l'ascolta, e l'ascolta come un richiamo finalmente egoista, escludendo il resto. E non c'entra la musica, le parole non c'entrano.
Non c'entra il bello e il brutto: una canzone è bella e brutta nello stesso momento, il suo momento. E' come il nulla.
Forse può giudicarla soltanto chi, quella canzone, non l'ama, e dice: non vale niente. E chi non ama quelle che un altro ama, giudicherà quelle dell'altro: non valgono niente.

E' così, va bene così, è vero così. Ma, nella tua canzone, chi c'entra sei solo tu. 
Ti ascolti ascoltare, tu sei tu, e in te non c'è più posto per non esserlo, diventi un segreto.
Una canzone è di uno solo al mondo, e quell'uno è il mondo, tutto torna, tutto gira, come la terra e i dischi e, forse, l'universo, del quale tu sei il centro.

Pasquale Panella

(prefazione di: 100 dischi ideali per capire la NUOVA CANZONE ITALIANA, di Mauro Ronconi, Editori Riuniti 2002)

Vergogna, di J.M. Coetzee



 


Colui il quale si convince di comprendere, fin troppo a fondo, il mondo, improvvisamente o per gradi, si rende conto che l’acquisizione di tale coscienza è vana. Rincorrendo questa vanità si lasciano le terre conosciute e sicure. Incomincia così l’anti-epopea di David, il suo addentrarsi nelle terre selvagge. In questo altro mondo gli orpelli vanno persi, le gerarchie di ieri, i valori quantitativi e la fede in una formula narrativa diacronica si dissolvono. Sarcasmo, apparente senso di superiorità e falso cinismo precipitano in semplice disperazione. Ecco allora incombere sui piccoli l’ombra poderosa di Dio.
Qualcosa del genere è quanto ho tratto dalla lettura di Vergogna, il romanzo di J.M.Coetzee.
Forse Vergogna è un romanzo sulla presenza di Dio, presenza fatta di prepotente assenza. Può darsi sia un romanzo su un tale che invita il sommo fattore a venir fuori, a farsi avanti: convinto che il senso del tutto si possa dispiegare lungo la narrazione di ognuno di noi (come si stende un tappeto in un corridoio), scopre con amarezza che non è così, imparando, infine, che il suo rappresentarsi è invece più simile ad un’epifania, ad uno squarcio impietoso sulla realtà. Il senso profondo di Dio, scoprirà David, irrompe come uno scandalo, apre una breccia sulla trama che il protagonista ha costruito di sé.
David gode di buona salute, la sua mente è lucida. Di professione è – o è stato – uno studioso, e l’erudizione, a tratti, lo avvince ancora. Vive nei limiti del suo reddito, nei limiti del suo carattere, nei limiti delle sue capacità sentimentali. È felice? Secondo i normali criteri di valutazione, sì, ne è convinto. Ma non ha dimenticato l’ultimo coro dell’Edipo: non dire di un uomo che è felice finché non è morto.
Il protagonista della storia non vuole più far parte di quel luogo rassicurante, rappresentato dalla sua classe di riferimento, la borghesia colta di un paese tuttavia votato alla frontiera. Avverte di aver perso l’originario senso di unicità e intraprende dunque un’azione di rottura. La risposta alla noia è la sfida.
[…] non c’è stata premeditazione. È cominciata come un’avventura, una di quelle piccole avventure insperate che capitano agli uomini di un certo tipo, che capitano anche a me e mi fanno sentire vivo. Mi scusi se ne parlo in questo modo, ma voglio essere franco.
E così la storia di Coetzee affonda nel dilemmatico rapporto che lega l’individuo alla massa. Il protagonista intuisce che qualcosa in lui va perdendosi, qualcosa a cui deve opporsi. L’intelligenza, la cultura, il riconoscimento sociale si rivelano come inutili orpelli nello scontro per l’emersione dall’indistinto. La massa (sia essa intesa come ceto, etnia o genere) è l’indistinto, ciò che agisce verso il singolo individuo, l’agente che pretende da lui la capacità di fondersi in soluzione. Il problema narrativo nasce quando si inceppa questa possibilità di soluzione, quando la labile alchimia si rompe. David allora compie un atto che tradisce il suo ruolo, ha una relazione con una sua studentessa. Così prende piede Vergogna.
Egli abbandona quindi il mondo civilizzato, dove la vera natura di un uomo può essere nascosta a lungo, anche la vigliaccheria e l’incapacità di ribellarsi fino in fondo.
David parla italiano, parla francese, ma né l’italiano, né il francese lo salveranno nel cuore dell’Africa nera. È inerme, una specie di personaggio da vignetta, un missionario in tonaca e casco coloniale che aspetta, mani giunte e occhi al cielo, mentre i selvaggi blaterano il loro idioma incomprensibile, preparandosi ad immergerlo nel calderone bollente. Il lavoro missionario: che cosa ha lasciato quell’immensa impresa di nobilitazione dell’uomo? Niente, si direbbe.
Mentre leggevo Vergogna, mi è più volte tornato in mente un discorso che una volta mi fece un terapeuta dei mali dello spirito, una metafora che chiamava in causa il mondo dei lupi. Esistono tre tipi di lupi, mi disse: il maschio alfa, il gregario e il lupo solitario. Il primo conquista la supremazia sugli altri usando qualunque mezzo, tuttavia è costretto a piegarsi alle regole che strutturano il branco, lo deve fare comunque. Per quanto grande possa essere il suo potere, non potrà in ogni caso risparmiargli l’istintiva certezza che, presto o tardi, giungerà un nuovo maschio alfa che lo vincerà. I gregari, intanto, lottano per occupare i gradini di un mondo gerarchico, ma evitano lo scontro con il maschio dominante, a meno che non avvertano i segni propizi all’usurpazione della sua posizione. Nel loro mondo inesatte valutazioni possono costare care. Infine viene il lupo che vaga da solo. Tenendo d’occhio il branco, si muove a distanza ravvicinata e attende il momento giusto per violare l’harem del maschio dominante: sperando in una sua distrazione, ingraviderà le femmine. L'intraprendenza del lupo solitario, quindi, salva il branco dai rischi del sangue stanco. Quale di queste categorie potrebbe riferirsi a David?
E così è arrivato, il giorno della prova. Senza preavviso, senza fanfare, eccolo lì, e lui ci è dentro. Il cuore gli martella il petto con tale violenza che persino quell’organo ottuso deve aver capito. Riusciranno, cuore e proprietario, a superare la prova?
Il trauma accade d’improvviso, senza che David lo possa prevedere. Due nativi adulti e un ragazzino irrompono nella casetta colonica della figlia Lucy: è violenza.
È sul pavimento del bagno, il bagno della casa di Lucy. Stordito riesce a mettersi in piedi. La porta è chiusa, la chiave sparita. Si siede sulla tazza e cerca di riprendersi. La casa è silenziosa; i cani abbaiano, ma più per dovere, si direbbe, che per la smania di mordere.
Se nel mondo intellettuale, a cui David apparteneva, la posizione del lupo solitario poteva essere considerata come una scelta avventurosa, dignitosa, carica di possibilità, quando questo mondo viene abbandonato, l’uomo bianco di città è posto di fronte alle concrete conseguenze di tale scelta.
La giornata non si è ancora spenta, anzi è viva e vegeta. Guerra, atrocità: questa giornata inghiotte nella sua gola nera qualunque parola si usi per cercare di impacchettarla.
I fatti narrati da Coetzee mettono in crisi le vite in cui non si sono prese delle posizioni nette, coerenti con il contesto in cui si vive. In questa storia si smascherano tante forme di dissimulazione della debolezza, mettendo a nudo l’insufficiente potere barbarico del protagonista, la sua incapacità di affermarsi. Se nel mondo urbano e intellettuale, che ha abbandonato, le occasioni di confronto brutale potevano essere evitate, così non accade nella nuova realtà in cui giunge. La scelta di vita solitaria, a cui David approda, si potrebbe forse ricondurre all’insufficienza di forza brutale necessaria al rovesciamento del maschio alfa, è forse questa la ragione per la quale odia i gregari: loro rappresentano quella debolezza di cui non si riesce a liberare. Fatto sta che David, in qualunque condizione, è tagliato fuori dal branco.
In Vergogna il tempo è una variabile interessante; il protagonista infatti cerca le motivazioni utili all’azione riferendosi anche all’unità di tempo percepita. Ecco perché David guarda di continuo al mondo degli animali; non comprendendo appieno il mondo degli uomini, fantastica sulla condizione di questi esseri, in qualche modo anela alle loro risorse. Il cervello animale, a cui David si affida per la sopravvivenza, ragiona solo su coordinate del qui e ora. Quando si crea una necessità, un allarme, un’informazione ambientale quest’organo risponde subito e adeguatamente. Mette in moto succhi, umori e tensioni, preparando la macchina alla guerra. Ciò nonostante i guai nascono quando entrano in gioco i filtri delle emozioni umane, e David è suo malgrado un uomo; ecco allora il lungo rettile del tempo muovere le sue spire, e l’uomo sgomento, percepisce nel qui e adesso l’irruzione del passato. Questa lunga biscia atavica, cresciutaci dentro fin dal nostro concepimento, si muove stimolata da ciò che percepiamo, creando delle anse fra le sue spire, che, dalla percezione animale, sono falsate come appartenenti al qui e ora. Esse però non sono altro che echi del passato, appena percepibili eppure potenti. Il loro innesco è causato da un fenomeno di risonanza, (come risuonano fra loro le corde di una chitarra): l’emozione di un vissuto lontano irrompe in un’epifania sincronica. In un attimo David, cinquantaduenne, ritorna un bambino abbandonato, o forse un vecchio, debole e indifeso.
Il tremito e la debolezza non sono che i segni iniziali e più superficiali del trauma. Ha la sensazione che dentro di lui sia rimasto contuso e ferito un organo vitale, forse addirittura il cuore. Per la prima volta ha un assaggio della vecchiaia, quando diventerà un uomo spossato, senza speranze, senza desideri, indifferente al futuro. Abbandonandosi su una sedia di plastica in mezzo al puzzo di piume di pollo e mele marce, sente l’interesse per il mondo defluirgli dal corpo goccia a goccia. Forse ci vorranno settimane, anche mesi, prima di restare dissanguato, ma il fluido vitale sta fuggendo. E quando questo processo si sarà compiuto, di lui non resterà che l’involucro di una mosca in una ragnatela, fragile al tocco, più leggero della pula, pronto per essere trascinato per altri lidi.
Penso che Vergogna tracci il percorso di una peregrinazione di un uomo, che non trova la forza di affrontare la realtà relazionale, che non vince l’horror vacui e non si abbandona al tuffo dentro al magma del sé. Forse solo alla fine intuisce che il riscatto può avvenire nel riconoscimento dell’altro, ma questa possibilità gli sfugge ancora.
Ama sua figlia, ma ci sono momenti in cui vorrebbe che fosse una creatura più semplice: più semplice e più schietta. L’uomo che l’ha violentata, il capobanda, era così. Come una lama che taglia il vento.


Davide Ferreri


Vergogna (Disgrace), di J. M. Coetzee, Einaudi (2000) (trad. di Gaspare Bona)

Catherine E. Morgan, Tutti i viventi



C'è un luogo letterario dove gli eventi dell'esperienza umana assumono una risonanza profonda, tanto da accedere, nei casi migliori, a una dimensione quasi epica, mantenendo allo stesso tempo la concretezza e la vicinanza stretta agli elementi naturali. Quel luogo letterario è il Sud degli Stati Uniti, culla di tanti capolavori che nulla hanno perso della loro forza, e mai la perderanno, per le ragioni sopra citate. Sul solco di questa tradizione si pone Tutti i viventi, opera d'esordio della giovanissima Catherine E. Morgan, uscita nel 2010, salutata dalla critica come opera di grande maturità espressiva. 
Protagonista del romanzo è la giovane Aloma, un'orfana cresciuta "in un luogo buio, in una contea buia di uno stato buio"; la ragazza sogna la fuga e la libertà, che per lei coincidono con la scoperta della musica e con il sogno di diventare una pianista. A scompigliare i piani di Aloma arriva un ragazzo taciturno, Orren, dagli occhi chiari segnati da rughe e la voce incolta. Lui la porta via sul suo furgone al tramontare del sole per lunghi giri fra le campagne, nei quali i due ragazzi sperimentano un po' maldestramente la fusione dei corpi con un'urgenza scarna di parole, come il paesaggio arso dal sole:
("si avvinghiavano, i corpi spogliati dagli abiti, le bocche aperte verso l'altro come uccellini implumi, e in quella fusione non pensavano al tempo, non pensavano alle differenze").
Quando la famiglia di Orren viene sterminata in un terribile incidente automobilistico, il ragazzo chiede ad Aloma di seguirlo nella fattoria dei genitori, e di aiutarlo nella gestione della piantagione di tabacco della quale è ormai unico responsabile. I due giovani si ritrovano all'improvviso alle prese con qualcosa di più grande di loro, in una casa cadente dove uno dei due si sente legato indissolubilmente al ricordo dei cari, che occhieggiano dalle foto incorniciate, straziato ma ruvidamente radicato in quella terra scabra, "sbiancata sotto il sole in una polvere gessosa", e l'altra si sente prigioniera, privata ingiustamente dei sogni della giovinezza. La nuova vita della ragazza amante della musica è fatta di giornate che si susseguono tutte uguali tra la fatica estenuante del lavoro e il silenzio opprimente della solitudine, laddove esplode la violenza di un gallo impazzito che artiglia entrambi i ragazzi, simbolo di una natura ostile e difficile da domare, e anche il sesso fra i due, nel letto matrimoniale che fu dei genitori, si fa sempre più rabbioso:
("lo spinse via scocciata, e, per un istante, ebbe la voglia sfrenata di colpirlo sul viso e sul petto per averla trascinata lì, al misero margine delle montagne, l'unico posto al mondo che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, dove non c'era nulla che funzionasse, dove tutto si consumava fino all'osso.").

L'inquietudine di Aloma la spinge a tentare una fuga oltre i confini della proprietà, in una chiesa locale dove conosce il pastore della comunità, Bell, colui che le offre la possibilità di suonare l'amato pianoforte. La ragazza si sorprende a vagheggiare un sogno d'amore insieme al pastore, amore che sia più corrispondente alla sua natura intima e ai suoi sogni. Desiderio di fuga che si rivelerà illusorio. In un finale bellissimo, lento, dalle cadenze quasi bibliche, Aloma realizza quanto lei e Orren siano legati in modo profondo e oscuro, per un bisogno reciproco che entrambi non riescono a decifrare completamente, ma che, semplicemente, si impone. Perchè forse vivere è l'accettazione del proprio destino, un destino che si lega strettamente a quello di tutti i viventi, come dice il versetto dell'Ecclesiaste posto in apertura del romanzo:
"Questo è un male in tutto ciò che si fa sotto il sole: hanno tutti la stessa sorte, e inoltre il cuore dei figli degli uomini è pieno di malvagità e la follia risiede nel loro cuore mentre vivono, poi se ne vanno a morte. Finchè uno è unito a tutti i viventi c'è speranza, perchè un cane vivo val meglio di un leone morto."
Echi di Curson Mc Cullers e di Flannery O' Connor, si è detto a proposito della Morgan, ma anche echi faulkneriani, nella rappresentazione di un luogo ai confini del mondo, nell'attenzione a personaggi marginali e perdenti alle prese con il mistero dell'amore, del dolore, della morte. E' una grazia poetica aspra, quella della Morgan, una scrittura, la sua, di precisissimo nitore, attenta a ogni singolo dettaglio concreto dell'esperienza umana. L'autrice riesce a trasmettere al lettore contemporaneo, immerso nell'acquario della società "liquida", la sensazione precisa dell'importanza della fatica, del sudore, del sesso; il valore ineliminabile del contatto diretto con il reale.


Laura Anfossi



C. E. Morgan, Tutti i viventi (All the living) - Einaudi Supercoralli, 2010

domenica 3 agosto 2014

Vincenzo Cardarelli, La luce



LA LUCE


C’è, si direbbe, una luce che abita nelle cose, che i corpi irradiano in luogo di ricevere.
Quei monti che di qua scopro, balzati dalle regioni sottomarine con un impeto immane, sono certamente concreti di luce. Le loro fronti sono ingioiellate. La notte non può nulla sopra di loro.
Allorché il cielo, nelle primavere piovose, si ricopre, le acque paiono più lucide. Il mare s’illumina, le onde gonfie e ferme compongono praterie iridescenti e sterminate, e pare che qualchecosa le agiti internamente come la nostalgia di fiorire.
Venere è forse la personificazione della bella che viene dalle acque.
Di sera i laghi sembrano specchi gelidi, che il vento sfiora e appanna come un fiato, incastonati, non si sa come, nella cornice arabescata e difficile delle loro sponde montane.
Le luminose isole di verde che sorgono, a quell’ora, dal fondo bruno del mare, soltanto la lastra trasparente d’un finto acquario le potrebbe imitare.



Tratto da Prologhi. Viaggi. Favole - Viaggi nel tempo (1916-17)
I Meridiani Mondadori 1981

sabato 26 luglio 2014

Juan José Saer, Cicatrici (Parte II)


Pubblicato per la prima volta nel 1969, "Cicatrici" è un romanzo che Saer scrisse in venti notti, ispirato da un fatto reale. Quattro parti, quattro narratori in prima persona: Ángel, giovane reporter; Sergio, avvocato divorato dal vizio del gioco; Ernesto, giudice misantropo che si ostina nell'ennesima traduzione di Oscar Wilde; Luis Fiore, operaio che commette un omicidio inspiegabile.
Quattro vite, ognuna ossessionata da qualcosa, che hanno un unico punto di intersezione: il delitto commesso da Fiore. Saer scrive un romanzo a spirale, per ricreare attraverso la circolarità un'illusione di ordine che nel funzionamento del mondo non esiste, perché nel continuo conflitto tra caos e ordine "non sei tu che vinci, è il caos che accondiscende".


Vedo generazioni e generazioni di gorilla, che avanzano emergendo dall’oscurità. Orde ostili che sbavano nei primi crepuscoli con un misto di terrore e di sbigottimento. Mosche color smeraldo si posano sulle ferite aperte nei loro corpi da denti e grinfie, frutto delle ultime battaglie. Le orde vagano inquiete in una radura nel bosco, e i gorilla si guardano l’un l’altro sbigottiti, in attesa della notte. I genitali dei maschi penzolano tra le estremità inferiori, dondolando. Quelli delle femmine sono fessure rosse e umide. Digrignano i denti e socchiudono gli occhi, scrutando lo spazio aperto che li circonda, gli alberi e le rocce sempre uguali a se stessi, statici, di notte e di giorno, a bloccare la visuale. E quando scende la notte, li vedo raggrupparsi eccitati, strofinarsi gli uni contro gli altri, attorno al grande falò che hanno acceso con rami secchi e che riempie di ombre concavità e sporgenze dei volti bestiali. Quando comincia il tamtam, i gorilla formano cerchi, anelli concentrici, file che si intrecciano incessantemente con un ritmo goffo, finché i più deboli cadono ansimanti sull’erba, la lingua rosea penzoloni, che lecca l’angolo delle labbra nerastre. 
Al centro del cerchio, accanto al falò che mugghia e crepita spandendo un gran fulgore che si fa più tenue man mano che sale verso il nero del cielo, il gorilla femmina e il gorilla maschio rotolano per terra avvinghiati, sollevando nuvole di polvere. Il cerchio dei gorilla in piedi che li osserva batte le mani a tempo. Producono un rumore secco, plurimo, che imita il fragore del tamtam. 

Maschio e femmina si alzano, ricadono a terra, avviluppati, accompagnando i movimenti violenti con ansiti, grida soffocate, sospiri, lamenti, risate, colpi. Poi la femmina si mette a quattro zampe, in attesa, e il maschio la penetra. La femmina grida. E entrato tutto, salvo i testicoli che sbattono sotto il sedere della femmina. Senza uscire, con le ginocchia un po’ piegate, i piedi nudi bene ancorati a terra, il gorilla maschio si erge il più possibile, alza le braccia, come per dimostrare che non c’è trucco e non c’è inganno, e saluta il circolo degli spettatori. Il battito di mani si fa ancora più fragoroso, e i gorilla in cerchio lo accompagnano battendo furiosamente i piedi per terra in segno di soddisfazione, sollevando una nuvola di polvere. Il ritmo del tamtam si fa più rapido. Al battito di mani, i colpi sordi dei piedi per terra e la sonora, continua esplosione del tamburo si aggiunge ora un baccano indiavolato fatto di voci, risate, pianto. La coppia al centro si confonde con le numerose altre coppie che si sono formate tra gli astanti, che già si avvinghiano e rotolano per terra, sollevando una nuvola di polvere che la luce delle fiamme cobra di rosso. In mezzo alla polvere sanguinolenta una coppia allacciata rotola per terra e finisce in mezzo al falò, producendo un tremendo sfrigolio. I due gorilla non si staccano neppure, ma ricominciano a rotolare, coprendosi le bruciature di polvere. Ora tutta la radura si è trasformata in una massa informe di corpi che gemono e si trascinano, si montano a vicenda, si colpiscono, si leccano, si mordono, si accarezzano, si penetrano l’un l’altro. 

Poi il tumulto, in mezzo alle nubi di polvere rossa, comincia ad acquietarsi. La polvere si dirada, si deposita a terra. I gorilla si fermano e rimangono immobili, nelle posizioni più strane: alcuni sono proni, la faccia schiacciata a terra, mentre altri giacciono sopra di loro, proni anch’essi, il ventre sulla schiena di chi sta sotto, a formare una croce. Altri sono su un fianco, un braccio lungo il corpo e l’altro piegato a sostenere la testa. Altri ancora sono supini, con le gambe aperte. Uno si masturba in silenzio, ansimando. Il respiro di tutti si fa sempre più profondo e regolare, si sentono sospiri, qualcuno che russa. Una risata risuona improvvisa e si spegne. Più tardi, non si sente altro che il respiro. 
L’alba li sorprende addormentati, gli occhi cisposi. Sbuffano e soffiano. Si agitano inquieti e si rannicchiano per difendersi dal fresco del mattino. La prima luce del giorno comincia a infastidirli: si mettono a sedere, guardandosi attorno perplessi e storditi; tossiscono e sputano. Hanno gli angoli della bocca impiastricciati di bava secca. Del falò non è rimasto che un cumulo di cenere biancastra, anche le ultime braci sono ormai spente. Alcune macchie sanguinolente si mescolano all’erba e alla polvere, quasi secche: le macchie delle ferite prodotte durante la notte. Si scambiano pochi gesti stanchi, pochi cenni, Dì tanto in tanto emettono un suono con la bocca. Alcuni, più pigri, poltriscono ancora un po’ prima di alzarsi; altri accarezzano per l’ultima volta, meccanicamente, le braccia lisce delle femmine. Vanno nelle caverne — scavate nella roccia dall’erosione — a prendere pezzi di carne cruda che mangiano imbrattandosi il mento di sangue. Sbattono le palpebre alla luce del sole, strappando enormi bocconi dai pezzi di carne. 

Sono di nuovo nella stessa radura, chiusa ai quattro lati da un orizzonte di alberi e rocce, su cui lo sguardo rimbalza. Ci sono le stesse pietre e gli stessi alberi, e sopra le loro teste lo stesso cielo azzurro, e il disco giallo, incandescente, che attraversa il cielo con una lentezza esasperante, sorda, senza stridore: la superficie azzurra e levigata si riempie di bagliori e a mezzogiorno è impossibile guardarla. Li circonda lo stesso spazio di ogni giorno. In esso si muovono, senza capire. Chi varca la linea di roccia o di alberi, l’orizzonte immobile e stabile, perpetuo, scompare, e non fa più ritorno. Proprio come succede all’animale che attraversa l’orizzonte in direzione contraria e penetra nella radura: i denti, le pietre, le lance e le frecce che presidiano lo spazio di cui i gorilla si sono impadroniti si abbattono su di lui e lo fanno a pezzi. Rimangono dunque acquattati, armati delle lance, le pietre e le frecce, in attesa che qualcosa di vivo oltrepassi la linea del pericolo per gettarvisi sopra e farlo a pezzi. Quando l’animale esala i suoi ultimi palpiti caldi e rimane rigido, morto, lo portano nella caverna e se lo spartiscono. Le parti più succulente vanno al capo, gli scarti alla marmaglia. Le mosche smeraldine si posano in nugoli sui resti, ronzando. Una volta riempito lo stomaco, i gorilla si siedono sui talloni all’ombra, pensosi, e osservano l’orizzonte, un braccio piegato sull’addome, il gomito appoggiato sul palmo della mano e la mandibola appoggiata sul palmo dell’altra mano. 

Di tanto in tanto sospirano e socchiudono gli occhi per meglio mettere a fuoco la distanza nitida che li separa dalla linea dell’orizzonte su cui gli alberi e le rocce sembrano muti testimoni dell’altra parte, testimoni che proprio del loro silenzio fanno evidenza testimoniale. Altri gorilla contemplano imbambolati il proprio corpo: le rocce delle ginocchia, la vegetazione del pelame, le protuberanze delle dita, le caverne segrete degli sfinteri, la vita torva e lenta dei genitali che crescono o si schiudono umidi per conto proprio. Trascorrono le ore d’ozio in questa malinconia assorta, finché il sole comincia a calare ancora una volta, e l’orizzonte si cobra di rosso, e la notte cade di nuovo sul falò acceso al crepuscolo attorno al quale ricominceranno le cerimonie notturne. 
Me ne sto disteso nel letto, nella totale oscurità, con gli occhi aperti. Rimango immobile. E un’oscurità senza crepe, senza spiragli: la stanza non ha finestre, e la porta che dà sull’anticamera è chiusa, per cui non entra un solo raggio di luce. Ed ecco che il brusio ricomincia a crescere, tra forme fosforescenti. Tra l’oscurità interna e quella esterna non c’è più barriera divisoria, e le immagini fluttuano nella direzione — ammesso ci sia una direzione — in cui guardano i miei occhi, e poi scompaiono. 

Ora vedo i gorilla sfilare in processione: portano abiti sgargianti e al collo, alle orecchie, alle dita e ai polsi paccottiglia dorata e argentata, con pietre che mandano bagliori alla luce del sole. Il tamburo ha lasciato il posto a certi strumenti in bronzo che producono suoni striduli quando li si porta alla bocca. I capi aprono la processione, con ampie tuniche porpora di cui alcuni schiavi a torso nudo reggono lo strascico per impedire che spazzino l’acciottolato. Dietro di loro vengono i secondi dignitari, vestiti di nero; poi i terzi, con tuniche verdi; formano file regolari e camminano a passo di marcia, in una sorta di danza al ritmo della musica. 
Seguono le donne, con vestiti di tutti i colori, che lasciano scoperti i seni bianchi fino ai circoli violetti dei capezzoli. In fondo, dopo le donne, c’è la marmaglia stracciona, i gorilla che cercano di spiare la cerimonia e di tanto in tanto sono respinti a frustate da sgherri a cavallo. Quando i primi cadono, quelli dietro inciampano nei gorilla a terra e cadono a loro volta; quando i caduti cominciano a rialzarsi, il grande corteo con la banda musicale in testa ha già percorso un lungo tratto di strada, così gli sgherri spronano i cavalli al galoppo sull’acciottolato per raggiungere la coda del corteo e proteggerla. 

La marmaglia affretta il passo, raggiunge il corteo e di nuovo gli sgherri la respingono a frustate, così la distanza guadagnata è perduta di nuovo. E di nuovo, mentre la marmaglia stracciona cerca di rialzarsi in piedi, gli zoccoli dei cavalli degli sgherri risuonano sul duro acciottolato, galoppando verso il corteo. Sui volti floridi dei capi, che camminano a testa alta ammantati nelle toghe purpuree, aleggia un’espressione solenne. I secondi dignitari fissano la nuca dei capi vestiti di porpora; e i terzi, vestiti di verde, guardano la nuca dei dignitari in nero. Le donne continuano a sistemarsi gli abiti sgargianti e la paccottiglia lucente. Qualcuna si sistema il corpetto in modo da mettere ancora più in risalto i seni bianchi. E i cavalli degli sgherri, una volta che si sono avvicinati a sufficienza alla coda del corteo, si voltano bruscamente facendo risuonare gli zoccoli sull’acciottolato. Gli sgherri guardano la marmaglia con aria minacciosa, anche se il mucchio di gorilla straccioni non è ancora riuscito a rialzarsi che a metà. 

Giungono ora sul luogo della cerimonia. All’improvviso vedo, dalla ringhiera di ferro battuto del terzo piano, l’atrio quadrato del tribunale: il pavimento a scacchi, vuoto. La scala bianca che scende descrivendo una curva, vuota anch’essa. La ringhiera di ferro scuro delimita anche il grande vuoto che cade a picco sull’atrio piastrellato in bianco e nero, formando un quadrato con un lato in meno. 
La cerimonia ha luogo in una sala enorme dal soffitto altissimo, con alte finestre a ogiva dai vetri decorati con motivi che rappresentano i capi gorilla in splendidi colori. C’è una lunghissima tavola apparecchiata. Sono tre tavoli disposti a ferro di cavallo, uno al centro e due ai lati, che si dipartono a perpendicolo dalle estremità del tavolo centrale. In mezzo, un grande spazio vuoto. Due file di schiavi, a torso nudo e con fiaccole accese che tengono alte sopra la testa, sono schierate ai due lati dell’ingresso, dove accolgono l’arrivo del corteo. I musici smettono di suonare i loro strumenti e dopo essere entrati nella sala si fanno da parte. I capi in porpora, a testa ancora più alta e un’espressione ancora più solenne in volto, entrano nella grande sala e prendono posto al tavolo centrale.  Alla loro destra siedono i dignitari in nero. Alla loro sinistra, quelli in verde. Le donne si raggruppano nello spazio vuoto al centro e aspettano nervose. La marmaglia si è assiepata davanti alla grande porta d’ingresso e sgomita per osservare la scena. Gli sgherri sono scesi da cavallo e li colpiscono dall’interno della sala, respingendoli. L’ordine, però, è di permettere che vedano. Così li colpiscono meno forte di quanto sembri minacciare l’espressione del volto, in modo che capiscano che assistere è un privilegio che non è loro concesso, ma al tempo stesso che rimangano e i capi possano essere osservati. 

Poi ha inizio il banchetto. Schiavi a torso nudo portano grandi vassoi al tavolo centrale e cominciano a trinciare gli animali sacrificati sotto lo sguardo vigile dei capi, che stabiliscono l’entità delle porzioni e il destinatario di ciascuna. I capi assaggiano appena. Il capo supremo neppure bada al lavoro degli schiavi. E seduto esattamente al centro del tavolo, e sopra la tunica porpora porta un grosso medaglione di ossidiana appeso al collo con una catena dorata. La lunga mano ossuta gioca con il medaglione. 
La marmaglia stracciona lo contempla estasiata, con un misto di meraviglia, furia, ammirazione e terrore, dato che un’aureola di luce pare circondare la grande testa argentea e il volto pallido incorniciato da una barba nera accuratamente arricciolata. Quando i dignitari finiscono di mangiare, sotto lo sguardo indolente dei capi, gli schiavi a torso nudo ritirano gli avanzi e si avvicinano alla porta per gettarli ai gorilla in attesa. Nel parapiglia, i gorilla si picchiano, si spintonano, si mordono, si insultano. Ci sono corse, sputi, sangue, lamenti. Mentre i gorilla, seduti sotto il sole morente, rosicchiano gli ossi da cui pendono alcuni filamenti di carne esangue, dentro comincia la sfilata delle donne, a tempo di musica. 
A turno si staccano dal mucchio nervoso accalcato in un angolo della sala e avanzano verso lo spazio che è rimasto di nuovo vuoto, dove cominciano a prodursi in contorsioni, movimenti del ventre, salti che fanno tintinnare la paccottiglia multicolore che portano addosso. Alcune si denudano durante la danza. Altre arrivano già nude nello spazio vuoto davanti ai lunghi tavoli. I dignitari in verde e in nero rimangono immobili, tesi, taciturni, e osservano le contorsioni delle donne senza aprire bocca, Solo i capi in porpora si scambiano commenti davanti a ciascuna donna. Alcuni ridono e indicano le danzatrici. Altri fanno gesti osceni. 
Solo il gran capo rimane in silenzio, continuando a giocherellare, instancabile, con il medaglione di ossidiana. 

Alla fine, davanti a una delle danzatrici, il capo alza la mano, senza parlare, e la indica con il dito. Gli schiavi scompaiono nei lunghi corridoi laterali e ritornano con un grande divano che trasportano sopra le teste. Collocano il divano al centro dello spazio vuoto. La prescelta si sdraia, nuda, le gambe aperte. Il gran capo si alza e avanza fino al centro dell’enorme sala. Due schiavi nudi lo seguono da presso. Giunto davanti al divano, il gran capo si ferma e fa un gesto perché i due schiavi gli tolgano la tunica. Uno di loro gli cosparge il membro di unguenti. L’altro gli bacia il medaglione. Il gran capo si getta un’ultima occhiata attorno, per essere sicuro che tutti lo stiano osservando. Fa un cenno impercettibile agli sgherri perché consentano alla marmaglia di arrivare fin sulla soglia. Poi si china e penetra la donna. La marmaglia, le due file di dignitari, gli schiavi e le donne raggruppate nell’angolo prorompono in esclamazioni di giubilo nel momento in cui il gran capo entra dentro di lei. 
Poi inizia la musica.

Cicatrices, prima edizione 1969

Juan José Saer, nato in Argentina nel 1937, è stato il principale scrittore della generazione dopo Borges. Nel 1968 si trasferì a Parigi e fu professore di letteratura all'Università di Rennes. La sua vasta opera narrativa comprende dodici romanzi, cinque libri di racconti, uno di poesia e vari saggi. Nel 1987 vinse il Premio Nadal, a cui si aggiunsero altri prestigiosi riconoscimenti come il premio France Culture, e il premio Unione Latina di Letterature Romanze. Morì a Parigi nel 2005.

domenica 8 giugno 2014

Il progetto Lazarus, Aleksandar Hemon e le foto di Velibor Bozovic




"Sono un cittadino ragionevolmente onesto di due paesi.
In America, in quella terra lugubre, spreco il mio voto, pago le tasse controvoglia, condivido l'esistenza con una moglie autoctona, e mi sforzo di non augurare a un presidente idiota di morire fra i tormenti..."


A pronunciare queste parole è Vladimir Brik, il protagonista de Il progetto Lazarus, personaggio fortemente autobiografico in quanto scrittore (anche se ancora alle prime armi) di origini bosniache trapiantato in America.
Imbattutosi casualmente nella storia di Lazarus Averbuch, povero immigrato ebreo diciannovenne nella Chicago dei primi del Novecento ingiustamente assassinato dal capo della polizia, decide di raccontare la storia dello sfortunato ragazzo, al quale si sente legato dall'affinità della condizione di solitudine e spaesamento dell'immigrato, e a questo proposito intraprende un lungo viaggio picaresco nel cuore dell'Europa continentale, dall'Ucraina alla Moldavia, da Bucarest a Sarajevo, sulle tracce di Lazarus.

Ad accompagnare Vladimir in questo viaggio divertente e malinconico, l'amico fotografo e compatriota Rora, avventuriero, raccontatore indefesso di balle colosssali ("Quando Rora parlava delle sue avventure incredibili, provavo il brivido riflesso di chi affronta il mondo con la nostra lingua irriverente e la nostra bosniaca faccia tosta") e, non a caso, fotografo.
Infatti Il progetto Lazarus, libro straordinario sotto diversi punti di vista, lo è anche perchè ha un'estensione multimediale nelle fotografie di Velibor Bozovic che non solo corredano, ma sostanziano la vita dell'opera stessa (esiste anche un sito internet dedicato al "Progetto Lazarus").

Vladimir: "Ti stai inventando tutto", dissi.
Rora: "Magari" - disse lui.
"Dovresti scrivere queste storie"
"Ho scattato delle foto"
"Devi scriverle"
"Per questo ci sei tu, per questo ti ho portato con me."


La condizione di Vladimir Brik , dell'immigrato che non si sente mai a suo agio in nessun luogo, e vive in questo perenne conflitto interiore, è resa plasticamente nel libro dall'oscillare del protagonista fra i due poli emotivi della sua vita: da una parte Mary, la volitiva e pragmatica moglie americana, e dall'altra l'amico, l'anima anarchica e disordinata.

"Mi torna in mente Mary, la sua sciocca, artefatta innocenza cattolica, la sua convinzione che la gente fosse cattiva per colpa di un'educazione sbagliata e una vita carente d'amore. Per lei il motore primario di un gesto era sempre una buona intenzione e il male sopraggiungeva solo quando la buona intenzione venisse involontariamente tradita o dimenticata. Tra me e Mary c'erano stati sporadici, dolorosi litigi sulle foto di Abu Ghraib. L'essenza della questione era che lei vedeva dei ragazzi americani sostanzialmente perbene agire in base all'errata convinzione che si stesse difendendo la libertà mentre le buone intenzioni si perdevano per via.
Io vedevo dei giovani americani manifestare una gioia sconfinata nell'esercizio di di uno sconfinato potere sulla vita e la morte di terzi. Alla fine mi infuriai e persi il lume: fracassai il servizio di porcellana che avevamo ereditato da George e Rachel. A farmi scattare era stata Mary dicendo che l'America l'avrei capita meglio se fossi andato al lavoro ogni giorno e avessi incontrato gente normale. 
Risposi che detestavo la gente normale e quella terra di liberi del cazzo e patria di prodi di merda, e detestavo Dio e George e tutto quanto. Le dissi che per essere americano bisognava non sapere niente e capire ancora meno, e che io non volevo esserlo. Il bagaglio che trascinavo per quelle terre dell'est conteneva i cadaveri torturati delle nostre buone intenzioni." 

Vladimir finge ipocritamente di sottostare alle condizioni della moglie, del religiosissimo suocero, dello "schema americano", ma l'anima vaga triste, inesorabilmente attratta dal richiamo del sangue della natura bosniaca.

"Adesso non mi importava di un futuro in cui avessi guardato le foto di Rora. Quegli scatti non avrebbero rivelato nulla. Avevo visto tutto quello che c'era da vedere. Non credevo che in futuro avrei scoperto qualcosa che non sapessi già. Non mi importava che cosa sarebbe accaduto, perchè ero presente mentre accadeva. Forse era la conseguenza del nostro rapido spostarci verso est ; ci spostavamo svagatamente da un luogo all'altro; di preciso non sapevamo neanche quale fosse la meta. Tutto ciò che potevo vedere era quello che avevo di fronte, prima di passare all'oggetto successivo. 
(...) Rora dal canto suo gironzolava, scattava foto, sembrava a proprio agio nell'incertezza del momento.
(...) Ed ecco quella sensazione familiare risalente ai bagni del liceo: per un istante fu come se questo mondo incolore, ordinato, senz'anima potesse accogliere in sè raffinate aberrazioni quali il mamba nero o un ferramenta che propone secchi di polpo."

Si potrebbero dire molte cose su questo romanzo, giustamente celebrato dalla critica internazionale come uno dei più belli e interessanti di questi anni.
Si potrebbe aggiungere il romanzo all'ormai affollata schiera della narrativa contemporanea che si muove sul crinale tra autobiografismo e autofiction, ma mi pare che l'argomento sia stato già abbondantemente dibattuto in luoghi ben più autorevoli (come, per esempio, qui e qui)

Si potrebbe giustamente celebrare l'eccezionale bravura di Hemon, bravura ancor più rilevante in uno scrittore che non è americano, ma nato e cresciuto a Sarajevo, e che ha imparato l'inglese già a vent'anni (da qui il paragone ricorrente con il sommo Nabokov, e, conoscendo la spericolatezza di Hemon, non escluderei che l'aver chiamato il protagonista Vladimir sia un atto insieme riverente e impudente: impertinente come le avventure del rocambolesco viaggio con Rora.)

Ma quello che invece mi pare interessante notare è che questo libro mi sembra avere qualcosa in comune con il Limonov di Carrere, e in parte con Il Cardellino di Donna Tartt (nella sua parte "russa", con il personaggio Boris), e dunque tre indizi costituirebbero prova, nelle tendenze della letteratura recente.
Mi pare, cioè, che i tre autori, in maniera esplicita o implicita, scaglino questa provocazione: la società americana e occidentale è asettica e ormai anoressica, può illudersi di avere tutto sotto sorveglianza, ma da qualche parte, nell'Europa dell'Est, spira un vento caotico, eccessivo, anarchico e sregolato, che è la vita che fuoriesce e sfugge a ogni pretesa arrogante di controllo.

(Aleksandar Hemon, Il progetto Lazarus - Einaudi 2010)

Laura Anfossi


Lo splendido materiale iconografico che correda il testo è di Velibor Božović e The Chicago Historical Society