sabato 17 giugno 2017

Richard Powers, Galatea 2.2, ovvero la singolarità e il suo Pigmalione


"Richard Powers, il protagonista, entra in contatto, dopo il ritorno dall’Olanda alla patria americana in veste di ricercatore umanista a contratto in una superuniversità di scienze cognitive, con il professor Lentz, autorità in fatto di neuroscienza, convinto che il meccanismo cognitivo ed emotivo del cervello umano sia teoricamente e praticamente replicabile artificialmente. Powers e Lentz, nel breve arco di due mesi iniziatici, giungono a programmare un cervello artificiale che sembra disporre di tutti i requisiti strutturali e reattivi di quello umano. Sullo sfondo c’è anche una struggente storia di amor perduto, che Powers fa convergere magistralmente nella tramatura del suo romanzo."
(Dalla recensione su Carmilla)


Le fornimmo un’immagine eidetica della Bibbia. Le opere complete di Shakespeare. Una piccola biblioteca su cd-rom, seicento volumi scannerizzati con cui avrebbe potuto trastullarsi. Anche quella, almeno suppongo, era una forma di inganno. Un esame con il libro aperto, quando invece il candidato umano doveva confidare solo sulla memoria. Ma del resto era proprio questo che volevamo verificare: se il silicio fosse una materia di cui potessero essere fatti i sogni. 
E oltre tutto, Helen non conosceva questi testi. Disponeva solo di una struttura digitale di tipo lineare, che poteva utilizzare per ritrovarli. Era come una bambina con computer incorporato. Un indice Hasher frontale la aiutava a localizzare quello che cercava. Poteva quindi trasferire l’intero testo sui suoi strati di input e avviare le proprie meditazioni. 
In questo modo poteva leggere anche di notte, senza nessuno intorno. E non aveva bisogno nemmeno di una lampadina. L’unica cosa che mancava alla sua educazione era il senso del pericolo. Del proibito. Il fattore di rischio. Qualcuno che potesse dirle di piantare tutto e andare a dormire. 
Con un salto di qualità prodigioso, Helen acquisì l’intero sistema di regole relative ai simboli della realtà fisica che era stato elaborato da Chen e Keluga, e lo fece in due diversi modi. A un livello elementare, inserimmo molte delle relazioni simboliche in vere e proprie strutture di dati, che poi connettemmo a una serie di giunture tra le reti che andavano a costituire la superrete unica, ottenendo che applicassero concretamente dei filtri semantici ai suoi pensieri. Ma Helen imparò il lavoro dei nostri colleghi anche provvedendo direttamente a raccogliere le loro conoscenze per poi incollarle, con dubbi risultati, alla sua riflessione platonica che, pesata e qualificata, si era già spinta ad altissimi livelli. 
La dimensione mondana era impressionante per proporzioni e più profonda di qualunque cavità marina. Alla fine, l’unico modo in cui si poteva tradurla era sotto forma di catalogo. 

Le parlammo dei biglietti per il parcheggio e delle offerte tre per due. Di forche, forchette, lingue biforcute e biforcazioni mai prese. Di resistenze e condensatori, di alteratori della verità, alternatori di corrente e stili di vita alternativi, dell’integrazione su larga scala e del fallimento del tentativo di salvare la società da se stessa grazie all’istruzione. 

Le parlammo della lana, del lino e del damasco. Le parlammo di frenuli e di freni, di banalità e banane, del sonar, dei semafori e di tutti i tipi di segnale che il corpo potesse produrre. Di moschee e mosche, di insettivori e insetticidi, di fusioni che durano una vita o un minuto solo. 

Le insegnammo cos’era la Commissione per le società e la borsa. Le parlammo dei collezionisti che si specializzano in oggetti di vetro risalenti agli anni Trenta. Del salto triplo e del bob a due. Di come i genitori si sforzassero da subito di insegnare ai figli la destra e la sinistra. Della defecazione, la respirazione, la circolazione. Degli appunti scritti su un post-it. Dei marchi registrati e della renitenza alla leva. Degli Oscar, i Grammy e gli Emmy. Della morte per infarto. Dell’esercizio divinatorio con una bacchetta di ontano. 

Le spiegammo come erano distribuite le note su un pianoforte. Le intestazioni delle lettere. I balli delle debuttanti. Le dirette radiofoniche e i docudrammi televisivi. I colpi di freddo e le febbri, con annesso un breve excursus su cinque secoli di cure. La Grande Muraglia e la Strada di Burma, la Cortina di Ferro e la Luce alla fine del Tunnel. L’aspetto della Terra vista dallo spazio. Un incendio che divampava da trent’anni sotto una cittadina della Pennsylvania, senza mai venire in superficie. 

Le mostrammo la differenza tra un triforium e un clerestorio. Rintracciammo nello spazio e nel tempo le famose rotte dei pellegrini. Le parlammo della conservazione e della refrigerazione dei cibi. Di come un tempo il sale valesse tanto oro quanto pesava. Di come le spezie avessero alimentato l’intera, tragica macchina dell’espansione umana. Di come l’invenzione della plastica avesse risolto uno degli incubi della nostra civiltà solo per crearne un altro. 

Le mostrammo Detroit, devastata da un’economia di tipo speculativo. Le mostrammo Saraievo nel 1911. Dresda e Londra nel 1937. Atlanta nel 1860. Bagdad, Tokyo, il Cairo, Johannesburg, Calcutta, Los Angeles. Subito prima e subito dopo. 
Le riferimmo barzellette dell’Africa orientale sui parenti acquisiti, o battute giavanesi su quanto sono stupidi gli abitanti di Sumatra. E ancora, barzellette da montanari sul rischio di vendere polpettine ebree senza licenza. La storiella del topo di campagna e del topo di città. Aneddoti su Tizio, Calo e Sempronio. Indovinelli con elefanti come protagonisti. Favole eschimesi in cui i pesci e gli orsi si fanno beffe della semplice idea che possa esistere un essere umano. 

Le parlammo di vendetta, perdono, contrizione. Le parlammo della vendita al dettaglio, delle tasse sul commercio, della noia, di un mondo nel quale senti parlare di tutto ma niente ti accade direttamente. Le dicemmo come la storia si svolgesse sempre in un luogo diverso da quello in cui ci si trovava. Le insegnammo a non procedere mai alla cieca e a non mandare mai un ragazzo a fare il lavoro di un uomo. Le raccontammo lo scandalo della collana della regina e l’embargo commerciale su Cuba. Il saccheggio di foreste grandi quanto un continente e la grande truffa della fusione fredda. Le parlammo dei codici a barre e della calvizie. Di lenti, lenticchie, lentezza. Delle speranze, vergogne, perversioni e dell’incerta sopravvivenza dell’umanesimo liberale. Della grazia, della disgrazia e delle seconde possibilità. Del suicidio. Dell’eutanasia. Del primo amore e dell’amore a prima vista. 



Helen doveva usare il linguaggio per creare i concetti. Le parole venivano per prime: era questo il principale ostacolo alla sua educazione. Il cervello faceva le cose esattamente al contrario. Manipolava i lessici della mente attraverso molteplici sotto- sistemi, e gli ultimi arrivati, i lobi più indispensabili, erano quelli che contenevano i nomi in sé. 
All’inizio dell’evoluzione non c’era la parola, ma il luogo su cui avevamo imparato a inchiodare la parola stessa. I lattanti registravano e trasmettevano dati sulle loro madri molto prima di aggiungere un nuovo elemento, cominciando a chiamarle ‘mamma’. Gli afasici, persino i sordomuti, tessevano sontuosi arazzi concettuali mediante i numerosi vettori dei loro corpi e in assenza anche di un solo verbo. 

Il sogno di Chen e Keluga mi sembrava sempre più disperato. Le regole lessicali del discorso non erano enumerabili. E ancor meno lo erano le regole dell’esistenza vissuta e provata. Leggevo a Helen frasi che potevano prestarsi almeno a una mezza dozzina di analisi, come a nessuna. Mi impietosivo per lei mentre snocciolavo le eccezioni alla categorizzazione di ‘albero’ effettuata da Chen e Keluga. Tutti gli alberi hanno le foglie verdi almeno in un periodo dell’anno, a meno che l’albero non sia un acero rosso, o un saguaro, o malato, quiescente, pietrificato, oppure allo stadio di pianticella, o visitato dalle locuste o dal fuoco o da una banda di bambini maligni, o ancora sia un albero genealogico, un albero della trasmissione, o ancora... Per stampare un dizionario che esaurisse le varie accezioni del termine sarebbe stato necessario abbattere tutti gli alberi del pianeta. 
Per non parlare degli alberi nella politica, nella religione, nel commercio o nella filosofia. Avrei potuto leggere a Helen la poesia nella quale si insisteva che nessuna poesia al mondo potesse eguagliare un qualsiasi albero. Ma non avrei mai potuto tracciare la differenza tra popolare e accademico, tra il significato terreno-e l’ermeneutica, tra la poesia e i versi, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, tra il termine ‘allora’ riferito al presente e al passato, tra una similitudine evocativa e la confusione più totale, tra il sentimentalismo prebellico e la poesiapaesaggio completamente spoglia d’alberi scritta subito prima della morte del poeta in una trincea francese. Le parole non sarebbero bastate a spiegare a Helen la differenza tra ‘poesia’ e ‘albero’. Poteva tracciare diagrammi, ma non affrontare la salita impervia verso un livello superiore. 

Le insegnai le componenti di un motore a combustione interna e come cambiare il denaro. Le dissi quanto mio fratello adorasse entrare nei negozi che vendevano ‘tutto a un dollaro’ e chiedere quanto costassero alcuni oggetti. Le dissi la barzelletta preferita di Taylor, quella del prete, dello scienziato e del critico letterario condannati tutti e tre a morte. Le parlai della WPA6 e del sistema di strade interstatali. Mi chiese perché ci fossero delle interstatali alle Hawaii. Non seppi cosa risponderle. 

Le raccontai come, da ragazzo, giocassi spesso a salvare dal diluvio universale i miei animaletti di plastica. Solo quando ero riuscito a guidarli tutti dentro una piccola scatola di cartone potevano considerarsi salvi. A quel punto cercavo un’arca di cartone ancora più piccola e le operazioni di salvataggio riprendevano, in condizioni più disperate. 
Le riferivo tutti questi dati, ricavandone un intreccio di frasi ben organizzate. Ma utilizzando solo quelle frasi non sarebbe mai arrivata all’essenza delle cose. Le dissi quale fosse il termine per la sensazione che proviamo quando un nome nel quale andiamo letteralmente a sbattere rinsalda il nostro legame con i concetti viventi sui quali è basato il nostro mondo. Ma appropriarsi di quel termine non le era di alcun aiuto che fosse anche remotamente paragonabile al sostegno che il nome stesso, piombando a cascata nei suoi circuiti, le garantiva. 
Seguire il flusso delle sensazioni mi condannava alla solitudine. Le immagini e i suoni si accumulavano. Un’immagine in bitmap, per quanto basata su algoritmi di compressione del tutto aleatori, valeva comunque molto più di un kilobyte di parole. Volevo costringerla a lavorare sui concetti. Costringerla a immergere le mani fino al gomito in quella pozza d’acqua di cui le parole erano meri sostituti.

Le feci ascoltare ancora Mozart. Anzi, una serie di Mozart di ogni natura e modello, da ogni epoca storica e da ogni continente. Lasciai che si soffermasse a meditare su una serie di rondò ripetuti all’infinito. Le restavo accanto e la guardavo mentre lottava con la canzone più banale trasmessa alla radio, lanciandosi nel tentativo di riprodurla e ricadendo sempre a un buon palmo di distanza dalla cadenza dolorosa del sentimento. 

(Galatea 2.2, Richard Powers, Fanucci 2003 - Trad. (straordinaria, ndr) di Luca Briasco
***
 Prima edizione: New York, 1995 - Editore: Farrar, Straus and Giroux

Richard Powers è un romanziere statunitense, da sempre interessato alle scienze e all'effetto che la sperimentazione scientifica estrema può avere sull'umanità. Laureato in Letteratura (che ha prediletto a Fisica, sua prima scelta), ha lavorato per tanti anni come programmatore, prima di fare della scrittura un lavoro a tempo pieno. Ha pubblicato il suo primo romanzo, Tre contadini che vanno a ballare nel 1985 edito in Italia nel 1991, da Bollati Boringhieri), dedicandosi quindi alla carriera letteraria e accademica tra Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. Vincitore di numerosi premi, tra cui il "MacArthur Fellowship" nel 1989 e il "Lannan Literary Award" nel 1999, in Italia ha pubblicato Il dilemma del prigioniero (Bollati Boringhieri, 1996), Galatea 2.2 (Fanucci, 2003) Sporco denaro (Fanucci, 2007), Il fabbricante di eco (Mondadori, 2008, che ha vinto il "National Book Award"), Il tempo di una canzone (Mondadori, 2010), Generosity (Mondadori, 2011) e Orfeo (Mondadori, 2014). Oltre a questi romanzi, è autore con Phillys Richardson anche di Modern Living. Guida alla casa contemporanea (L'Ippocampo, 2005).

Sito internet: www.richardpowers.net
Un'intervista: Intervista a Richard Powers su Galatea 2.2
Un articolo di Luca Sofri su Ray Kurzweil e le previsioni sull'intelligenza artificiale: Cosa mi aspetto dal domani


"Young Farmers", August Sander, 1914

mercoledì 14 giugno 2017

6. American honey, di Andrea Arnold (2016) Eyeglass prescription - Best Film 2015/2016


6. American honey (2016)

La diciottenne Star abbandona la problematica famiglia aggregandosi a un gruppo di ragazzi conosciuti nel posteggio di un supermarket. Il gruppo vende abbonamenti a riviste, girovagando di città in città, di porta in porta, lungo gli stati del Midwest. Non completamente a suo agio in questa gang bizzarra e scalmanata, Star si adegua al loro stile di vita, ai loro ritmi e intreccia un intenso ma instabile legame con Jake. (163 min.)

Director: Andrea Arnold
Stars: Sasha Lane, Shia LaBeouf, Riley Keough, McCaul Lombardi

La vecchia generazione di zombie è ancora tutta asserragliata dentro il centro commerciale.
Dawn of the Dead (1978) e il successivo The Store (1983) ci fornivano in fieri - uno in maniera beffardamente speculare e l'altro in chiave socio-antropologica – una topografia del fenomeno.
Oggi le cose sono cambiate; non solo la crisi economica, l'avvento del grande mercato online e l'erosione della classe media, ma anche e soprattutto tre decenni di globalizzazione, di velocissima crescita tecnologica, di colonizzazioni e decolonizzazioni, di successivi enormi flussi migratori che hanno destabilizzato e ricreato, insieme agli stessi indigeni, una grande zona di esuli, di clandestini, di società civile liminare alle prese con un nuovo paesaggio, alla ricerca di una nuova narrazione che sembra avere sempre però lo stesso denominatore: il mercato.

I figli di queste generazione di zombie, sono quelli che l'ipermercato non l'hanno mai visto da “fuori”, stagliato sull'orizzonte e luogo da assaltare, ma l'hanno vissuto come propria genetica e casa: À L'IntérieurL'aspirazione oggi è quella che prefigurava Charlie Brooker, in Dead Set: il reality e la riconoscibilità mediatica come ultimo fortino da divorare.



Andrea Arnold filma questa progenie all'atto della ribellione adolescenziale, della fuga da casa, dai grandi mall (non prima di averne raccolto i rifiuti - un pollo buono come cibo per cani -e inscenato una divertita coreografia di sfregio) e lo fa nel momento giusto sia a livello allegorico che economico, cioè quando, negli USA, questi grandi magazzini incominciano a chiudere per lo sgretolamento della middle class (a favore di discount per poveri e negozi di lusso) e nel modo giusto: un 4/3 televisivo che nega ogni spettacolarizzazione e cinemiracle.



Questa fuga sembra esaurirsi in un reale svuotato, in un'altra subordinazione: nell'impresa vuota del vendere prodotti arcaici (le riviste cartacee) a una classe agiata che le compra per carità.
La comunità si salda nella reiterazione di riti collettivi ammaestrati. Si riconosce in bolle di conformismo, nell'adorazione di figure trash (ed è divertente costruire una corrispondenza tra gli estremi apicali che si formano nella visione di una parodia come Popstar: Never Stop Never Stopping, che diventa quasi un surreale spin-off, non solo per la “simbolica” tartaruga, ma soprattutto per questa ellisse che si crea tra desiderio di emulazione, gigantismo e horror vacui: “Beh, quando ero piccola, trascorrevo ore guardando coppie famose nelle riviste: US Weekly, People, Vogue, e tutti si domandavano: “Sono una coppia reale o sono insieme solo per pubblicità?” E io sapevo che quando sarei cresciuta, volevo essere una di quelle coppie.”¹




Questo è un road movie disperato, a cui non si può non voler bene, perchè cerca ancora di indagare sulla realtà quando la "realtà" è diventata fisiologicamente cinema.
In questo si situa agli antipodi di un'altra escursione  tra le file della generazione Z: Spring Breakers. Se il capolavoro di Korine mostrava una mutazione compiuta² - Faith e gli altri protagonisti hanno uno sguardo da dietro una maschera cinematografica che è così connaturata ai personaggi da essere diventata genetica (“Look at 'ma shit!”) - nel film di Arnold vi è ancora una reazione contro questa sorta di cinema incarnato che è diventata la realtà: Star (ironicamente i nomi delle due eroine dei rispettivi film sarebbero più calzanti a parti inverse) si ribella alla frode inscenata da Jake pur di vendere qualche abbonamento:
"Sei andato troppo oltre con la storia della mamma e del tir. Non puoi fare così."; vi è in lei ancora una esile richiesta di verità.

C'è in Star ancora un sussulto di libertà interiore, a differenza della docilità quasi autistica dei suoi compagni, della loro accettazione a partecipare a routine tribali di premio e punizione con tormentoni da ripetere all'unisono, come i carcerati di Cool Hand Luke, come i cori militari di Full Metal Jacket, come i commessi Apple che intonano canti aziendali per incitare alla resistenza lunghe file di fanboy in attesa.
La sua ribellione (come quella di Mia in Fish Tank)  è un sentimento compresso che destabilizza lo stesso Jake, il quale scopre improvvisamente di non conoscere bene i meccanismi che lo spingono ad operare così disinvoltamente, all'oscuro di se stesso, e, al tempo stesso, trasporta tutti i caratteri del racconto verso una zona neutra a loro sconosciuta precedentemente. 
Come nel meraviglioso viaggio di Kelly Reichardt, Meek's Cutoff - che si situa temporalmente dalla parte opposta del timing americano (1860, il mito della frontiera) e che inizia geograficamente dove finisce lo scorrere fluviale di American Honey (Missouri) -
il film di Andrea Arnold 
è un road movie dove la macina delle grandi trasformazioni storiche sacrifica volentieri i figli meno abbienti, e dove, tra questi, voler speculare attorno a vittime e carnefici è pura captatio benevolentiae.


Eppure, come recita la canzone che dà il titolo al film (non casualmente un brano country) e che la piccola comunità canta in coro nel pulmino-capsula-ipod, "C'è un sussurro selvatico che soffia nel vento, chiama il mio nome come un amico di vecchia data, Oh mi mancano quei giorni, mentre passano gli anni, Oh nulla è più dolce dell'estate e della bellezza americana".


Andrea Arnold riesce a tradurre cinematograficamente quel pulviscolo di brace adolescenziale che giace sotto montagne di degrado economico, civile e culturale; questa volta è riuscita a raccontarlo dentro quel che resta del sogno americano. L'educazione sentimentale di una piccola donna attraverso i simboli dei miti fondativi dell'America: cowboy, nativi, grizzly, secessioni, petrolio (e guerre per) e quella giovinezza ferina di cui l'Europa ha avuto sempre grande invidia.



Luca Tanchis



Note:
¹ dialogo tratto da Popstar: Never Stop Never Stopping
² nel bellissimo documentario della BBC di Adam Curtis, HyperNormalisation, l'autore traccia l'inizio di questo passaggio, da groupie a star, nei video ginnici di Jane Fonda, passando per l'avvento delle prime videocamere domestiche:





domenica 11 giugno 2017

4. È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) di Xavier Dolan (2016) Eyeglass prescription - Best Film 2015/2016


4. È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) (2016)

Louis, uno scrittore malato terminale, torna a casa dopo una lunga assenza per rivelare alla sua famiglia che sta morendo. (97 min.)

Director: Xavier Dolan
Stars: Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux

Juste la fin du monde è forse un film meno compatto di Laurence Anyways e Mommy, eppure qui Dolan, come non mai, delinea una identità di sguardo che nei film precedenti non era così palese. Inoltre questo film aggiunge, in maniera prepotente, un coprotagonista maschile così ben scritto e magnificamente interpretato, come non mi ricordo nelle opere passate: il personaggio di Vincent Cassel, Antoine.


Antoine, vero apriscatole del film, opera nella famiglia come fosse il figlio illegittimo, il figliastro di claustrofobiche routine familiari, copia conforme del suo, detestato, ruolo. Sa già tutto, conosce e ha il presentimento di ogni discorso, di ogni piccolo sussulto del corpo.
È la consapevolezza di ogni cosa che, come un modulo che si ripete ossessivamente nelle diverse occasioni, gli diventa una nevrosi, un tormentone che lo scava e svuota.



Intelligente quanto il fratello scrittore, con meno ambizione forse per pigrizia, per viltà, forse per una natura sessuale più ortodossa che gli rende più confortevoli i meccanismi sociali, è il centro del film e paradossalmente il vero fuggito di casa. 
Perchè non c'è mai, ne rifiuta ogni pertugio, è sempre all'esterno, fisicamente e sentimentalmente (se non quello del rancore), non ha la minima nostalgia di niente, di nessun ricordo condiviso dal resto della famiglia. 
Fugge dalla casa nella stessa direzione strategica dello sfuggire al Mondo: rimanendoci.
Defraudato di un ruolo centrale adesso esige per sempre quello che non ha mai avuto.
Louis invece è l'eroe borghese, il Don Giovanni riscritto in epoca romantica, è l'inafferrabile: prima abbandonando la famiglia, poi morendo precocemente prima di tutti i commensali (tranne del padre, eterno assente di tutte le competizioni nel famigliodromo mondiale e in quello Dolaniano).


Conosco la tua storiella, quella dell'aeroporto, del bar...
Dopo, cosa mi racconterai? Mi dirai tutti i dettagli...mi dirai: “Quello lì friggeva le patatine e l'odore del fritto mi impregnava i vestiti. Ed ero solo, praticamente solo, in aeroporto... no?
Non si sentiva volare una mosca”.
E sei lì, a fare Dio sa cosa...sei lì e leggi un giornale. Su, dillo che leggi un quotidiano o un giornale economico, o una rivista dalla carta lucida e grandi lettere rosse, no?
E, comunque, non so neppure perché sei venuto, Louis. Nessuno sa, eh. Nessuno capisce.
E questo ti dispiace, perché...se si sapesse, ah, se si sapesse! Sarebbe più semplice e te la saresti squagliata o non saresti venuto.
Credi sia importante per me? Credi mi importi dell'aeroporto, del bar, del giornale, eccetera?
Lo credi? Be', ti sbagli, per me non è importante! Non m'importa più!
Non è questo che ti sei detto all'aeroporto, io lo so. E comunque, non ti sei detto che me l'avresti raccontato.
Dici queste cose perché così riempi il vuoto, il vuoto tra noi due.
E allora, ecco, sono davanti a te e tu inventi, no, Louis?
Perché quello che hai detto finora l'hai inventato per potermi parlare.
Parlarmi perché io mi senta... speciale. Speciale, perché? Perché io solo so che potevi venire prima e stare dipiù con noi? No, all'aeroporto non l'hai pensato, perché non mi conosci.
E non si condivide con chi non conosci. Anch'io non ti conosco, e comunque,
ci siamo mai conosciuti, io e te? No, ti sei detto: “Comincerò così. Può andar bene”.
Il fatto è che non sai bene come prendermi.
Ti sei detto: “Ho studiato, ho vissuto, ho scritto, saprò bene come prenderlo”.
È buffo. Spesso, dicono questo, parlando di me. Dicono:”Non si sa come prenderlo”.
“Eh, Antoine, bisogna saperlo prendere, eh!”
Come si direbbe di qualcuno che si vuole inculare, o un animale in gabbia cui si avvicina la mano per prenderlo e poi annegarlo.
È questo che hai fatto all'aeroporto, Louis. Ti sei detto che avevi una buona tecnica per potermi accalappiare, eh? Ma io... non ne ho voglia. Io non voglio... e allora? Che ci fai qui?
No, non voglio sapere! Non voglio sapere che fai qui. Stare qui, o no, ne hai diritto.
Non è problema mio. In qualche modo, qui, sei a casa tua. Vai, vieni, non ho niente da dire.
Sai, non è tutto eccezionale nella tua vita, la tua vita banale. Perché anche la tua è banale...
Eri seduto al bar dell'aeroporto e non pensavi a niente!
Eri lì a berti un caffè, che ti fa venir voglia di cagare e non pensi a niente, non a me, né ad altri, sei lì, e basta, e vivi la tua cazzo di vita, e la smetti di romperci il cazzo con questo, merda!
Non voglio. Non voglio stare qui. Non voglio che mi parli e non voglio ascoltarti.
Sempre, mi dovete raccontare tutto, continuamente, sempre. E io devo sempre ascoltarvi.
Ma, a me, Louis, non piace né ascoltare, né parlare. Si pensa che chi non parla sia bravo ad ascoltare. Be', perché sto zitto? Per dare l'esempio e mi si lasci in pace. Lo capisci questo, Louis? Eh?

(dal film)

Questi punti di fuga - di Antoine, Louis et familia - sono costantemente individuati dalla camera di Dolan dal loro punto di preparazione fino a quello di esplosione: da quando sono gangli appena infiammati, respiro che incomincia a diventare irregolare fino alla deflagrazione di ogni ascesso addomesticato per troppo tempo.


La famosa interpretazione che Thierry Jousse dà dell'impronta narrativa e temporale che Lynch imprime a molte sue storie¹, quella del nastro di Moebius, può essere vera anche per come Dolan usi questa dualità e ambivalenza: tra verbosità e spazio fisico/emotivo tra i protagonisti.
Qui non si ribalta il ruolo dei protagonisti e l'impianto narrativo-temporale - come in Lynch - ma si inverte una sorta di soggettiva libera indiretta delle emozioni dei protagonisti rispetto ai dialoghi.
Più si parla e in maggior misura aumenta la distanza spirituale tra i personaggi e tra i personaggi e il regista; al tempo stesso, con l'approssimarsi di Dolan al loro volto, un primissimo piano, lo sguardo dei protagonisti si parla senza proferire parola.
Lo spazio della messa in scena e quello dell'inquadratura sono sempre proporzionali al dialogo, alle affinità mentali, agli antagonismi furiosi. La camera plana seguendo orientamenti emotivi, non si addormenta su uno stile e un canone complessivo.
Ogni scena è un patrimonio di ritmo, una raccolta di sincronie e anacronie sull'impossibilità di comunicare, sul dire e sul riconoscersi. Un pathos continuo dove interpretazione, dialogo, movimenti di macchina instaurano un vero e proprio assedio a quello che prima era puro e semplice teatro.
Come dice Robert Bresson: "Due tipi di film: quelli che impiegano le risorse del teatro (attori, regia, ecc.) E usano la macchina da presa per riprodurli; quelli che impiegano le risorse della cinematografia e usano la macchina da presa per creare"²; Dolan prende l'opera teatrale di Jean-Luc Lagarce e la trasforma alla massima potenza nel secondo tipo di film indicato da Bresson.

Questo è gran parte del fascino del cinema di Dolan: non un time-lapse strutturale, ma un'assidua rendita soggettiva, sua e dei personaggi. Una ricerca costante sul tempo come percepito dall'uomo, una perlustrazione impaziente che focalizzi crepa e spiraglio da cui deborda la vita.

Luca Tanchis



Note:
¹ in David Lynch, di Thierry Jousse, Ed: Cahiers du Cinema, 2010
² da Notes on Cinematography, di Robert Bresson, 1977

mercoledì 7 giugno 2017

3. Cosmos, di Andrzej Zulawski (2015) Eyeglass prescription - Best Film 2015/2016


3. Cosmos (2015)

Witold non ha superato i suoi esami di giurisprudenza e Fuchs si è appena licenziato da una casa di moda parigina. Insieme vanno a trascorrere qualche giorno in una pensione familiare vicino al mare. (103 min.)

Director: Andrzej Zulawski
Stars: Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Jonathan Genet, Johan Libéreau, Victória Guerra

Pongo due punti di partenza, due anomalie distintissime l'una dall'altra: a) un passero impiccato; b) l'associazione tra la bocca di Caterina e la bocca di Lena. Questi due problemi reclameranno un senso. L'uno penetra l'altro in una tensione verso la totalità. Comincerà così un processo di supposizioni, di associazioni, di ricerche, starà per nascere qualcosa, ma si tratterà di un embrione piuttosto mostruoso, di un aborto... e questo oscuro, incomprensibile rebus non potrà che esigere una soluzione...cercare una Idea che spieghi, che faccia ordine... (Diari, Gombrowicz, 1963)


Cosmos è un film che prima di essere la complicata trasposizione di un capolavoro e della scrittura edipica di Gombrowicz, è l'incarnazione del detto di Tristan Tzara: "Le pensée se fait dans la bouche".
Un film che è tutto un secernere di bisbigli, grida, supposizioni, acquoline, inghiottimenti, perversioni, istinti e desideri.
Una caotica e indecorosa parata sulla punta della lingua, che la lingua letteraria del libro cerca prima di registrare e poi di straziare e quella filmica di Zulawski invece, proietta in una tortuosa salita di Sisifo tra slanci, dichiarazioni d'intenti, ironie e capitolazioni.


Siamo sempre alla fase orale del bambino, sia che questo infante si chiami Witold o Andrzej. Entrambi sembrano urlare un viscerale complesso di Edipo ¹, un desiderio di ribellione per essere stati allontanati dal corpo materno e gettati nel Nulliverso del caos.
Ma se la reazione artistica dello scrittore è principalmente una furiosa sfida tra logica e caos, una fiera e cinica protesta contro la Vita, diversamente, dopo 15 anni di assenza, quella del regista è un richiamo verso tutti gli istinti ancestrali che abitavano i suoi film precedenti per risanarli con un tocco più lieve e teatrale; in ogni caso una poetica richiesta di libertà: dalla morale, dalla società, dalla religione, dalla politica, dalle regole di una convivenza ammaestrata.
Cosmos è film inafferrabile, gioca continuamente con la dualità dell'uomo e del cinema, se non fosse visibile per un puro artificio tecnico, preferirebbe errare selvatico, sparire tra i boschi, suicidarsi - lasciando un Magnificat ² come messaggio d'addio - senza nessuna possibilità di inculcargli gli insegnamenti della Storia. Conscio di poter rinascere in qualche altro tempo, da qualche altra parte. “Un film ha nove vite come i gatti. Cade nel dimenticatoio, ma poi dopo parecchio tempo torna in auge.” ³


Witold (interpretato da un singolare Jonathan Genet, attore scoperto nei teatri della provincia francese) e Fuchs, come due filosofi del tardo 800 europeo, vengono catapultati ora nel posto giusto e nel momento sbagliato, ora nel posto sbagliato al momento giusto.
Simili a Rosencrantz e Guildenstern, a Sherlock e John, a Bouvard e Pécuchet (ma anche a due voyeur viziosi) tra passeri impiccati, labbri deformati e famiglie in preda alla nevrosi e dissoluzione indagano sull'assurdo del "tempo fuori dai cardini": Che proprio loro siano nati per rimetterlo in sesto?
Ma dichiarano presto l'arresa: mai e poi mai il corpo della Natura potrà darsi la morte.
Fuchs torna al prosaico mondo della moda, Witold attraversa la soglia di una chiesetta (sotto l'occhio della provvidenza o quello della Massoneria?) con/senza Lena (doppia inquadratura per ogni segmento, che gioca molto con il senso fantasmatico che Zulawski attribuisce al Cinema), ⁴ si riconsegna ai doveri borghesi.



Non c'è possibilità di capire il Caos, tanto meno partendo dagli oggetti e dagli indizi. La complessità del Caos è serena come ogni fenomeno, ma non lo è la nostra mania atavica di ordinarlo. Il disordine che ci sembra diventare una forma intellegibile dopo la nostra istintiva opera di sistemazione, è solo una capacità antropomorfa della realtà che reagisce alla nostra ossessione: il Cosmo è solo il nostro specchio; simile a Solaris si dispone secondo le nostre fissazioni.⁵
L' ossessione e l'erotismo degli oggetti, delle bocche, dei segni in Gombrowicz diventa un punto cieco che assolda una parola-universo - “Il berg!” ⁶ - serrando un patto tra il giovane e il vecchio, tra eros e thanatos, Witold e Leon, e poter declinare nell'autocompiacimento erudito della lucida follia, disgregando il romanzo.



A Zulawski invece, interessa maggiormente inscenare il dissidio che abita ogni nostra scelta, l'antagonismo che si forma da ogni prospettiva la si guardi, e il vacuo delle cariche che si formino da questo continuo attrito.
Nella grammatica del suo cinema c'è spazio anche per aggiungere e aggiustare l'anello che non tiene di una storia d' amore, forse immaginare i fantasmi di splendide donne (sempre costantemente protagoniste, dalla vitalità irraggiungibile) come Isabelle Adjani, Sophie Marceau, Valerie Kaprisky, Iwona Petry - nel corpo e nella bocca, altrettanto perturbante - di Victória Guerra (consigliata a Zulawski da John Malkovich, con cui ha girato Linhas de Wellington)
Forse suggerire una realtà più vera sotto tutto il marcio e l'assurdo di miliardi di convenzioni comportamentali, linguistiche, sentimentali. Un cosmo di sperimentazione, un cosmo delle piccole cose, del nulla e del contrario di tutto. Un cosmo di sole immagini, come svela l'irridente finale, un behind the scenes che rimette tutto in discussione, come in "La montagna sacra", o "E la nave va". È  la fine di un'avventura "dietro le quinte della realtà".
Tutto è un gioco a somma zero: 
"E anche oggi a pranzo c'è stata la fricassea di pollo, in salsa bianca."


"Come tutti quelli che vengono dalla mia generazione, mi sono formato su Gombrowicz. Era estremamente importante, soprattutto per noi che venivamo da un regime comunista dove era proibito. L'ho letto nelle traduzioni francesi. È uno dei più grandi destrutturatori letterari della storia, e poichè i legami tra letteratura e cinema sono complessi, la difficoltà di adattare questo testo era quella di fare, da un libro di de-costruzione, un film di costruzione.
Penso che, a parte i soldi senza i quali non può essere fatto, un film ha bisogno di un testo e di uno scrittore e nel cinema il testo è il dialogo.
Allora, penso che più della metà del film viene direttamente dal libro. C'è poi una parte aggiunta, perchè le circostanze lo richiedevano: il film non coincide interamente col libro, il romanzo si svolge negli anni '30 e il film e ambientato ai nostri giorni.
Sembra un gioco di parole ma non lo è: il testo che ho fatto senza la partecipazione degli attori non esiste.
E allora anche se non permette di improvvisare delle frasi di dialogo, loro sono comunque molto liberi all'interno." (Conferenza stampa Locarno 68, 8 Agosto 2015)


Che l'ultimo film di Zulawski si addentri in un territorio così oscuro e al tempo stesso così derisorio, in un percorso di ricerca di amore e senso continuamente turbato dall'assurdo, non può che rendere il Testamento di Gombrowicz così vicino e complementare al suo, cinematografico. 
Il regista polacco non tradisce un capolavoro letterario e, al tempo stesso, la sua lingua cinematografica è supremamente salva e più lieve.

“Io vedo l’universo come un’entità completamente nera e vuota, dove la sola cosa reale è quella che fa male: appunto il dolore. Il vero diavolo è questo, il resto sono declamazioni.", "Cosmo per me è nero, sostanzialmente nero: come una buia corrente turbinosa piena di gorghi, arresti, ristagni; un’acqua nera che trasporta migliaia di rifiuti e l’uomo la fissa rapito cercando di decifrare, capire, collegare in un tutto unico… Il nero, la minaccia e la notte. Una notte intessuta di una passione violenta, di un amore contaminato", scrive Gombrowicz nei suoi Diari.

Zulawski, nel suo ultimo film, sopra la fronte di questa testa - quella di Gombrowicz, la sua, la nostra - sepolta fino al collo nell'assurdo della vita, sembra porre una piccola farfalla bianca, come nell'immagine che lo ha perseguitato per tanti anni:
"Un'immagine dici? Trecento milioni di cinesi e io, e io e me stesso cantava Jacques (Dutronc). Una su trecento milioni. Bene. Quella di una farfalla bianca che di notte si posa sulla testa di David Bowie, sotterrato fino al collo nella sabbia di un campo di prigionia inglese, da un ufficiale giapponese innamorato. Era Furyo di Nagisa Oshima. Non è uno dei miei film preferiti, ma l'immagine mi perseguita fino ad oggi. Sono uscito fuori dal cinema, ho pianto, poi ho vomitato e poi ho pianto di nuovo." 


Luca Tanchis


Note:
¹ Vedi sotto, stralcio tratto da Testamento, di Gombrowicz -
e dal film, dialogo scritto e aggiunto da Zulawski:
Lena: Tu diventerai un grande scrittore. Mi aiuterai, a diventare una vera attrice?
Witold: Una vera attrice? Non credo che mia madre approverebbe.


² Quando passerà questa notte interna, l'universo,
e io, l'anima mia, avrò il mio giorno?
Quando mi desterò dall'essere desto?
Non so. Il sole brilla alto:
impossibile guardarlo.
Le stelle ammiccano fredde:
impossibile contarle.
Il cuore batte estraneo:
impossibile ascoltarlo.
Quando finirà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e potrò tornare a casa?
Dove? Come? Quando?
Gatto che mi fissi con occhi di vita, chi hai là in fondo?
Sì, sì, è lui!
Lui, come Giosuè, farà fermare il sole e io mi sveglierò;
e allora sarà giorno.
Sorridi nel sonno, anima mia!
Sorridi anima mia: sarà giorno!
(Magnificat, di Fernando Pessoa. Recitata da Witold e Lena nel film)

³ da Offscreen.com :An Interview with Andrzej Zulawski and Daniel Bird e sul supplemento del DVD de La Terza Parte Della Notte

"Ho sempre bisogno di fare questo lavoro con la fotografia, per me è come ribadire ogni volta l’essenza del cinema. Se si osserva la pellicola si vedono fotografie in sequenza, ogni quadro è immobile, poi, un quarantottesimo di secondo dopo, compare il movimento successivo, ma per più della metà di un secondo l’immagine è immobile. I fotogrammi, lo sapete anche voi, appaiono al nostro cervello in movimento per l’intervento di una sorta di inerzia dell’occhio, la persistenza retinica che fa sì che, per ogni
fotogramma, noi vediamo per metà tempo l’immagine vera e per l’altra metà il fantasma di quell’immagine, in continuazione, per tutti i secondi del film. L’immagine se n’è andata, ma i nostri occhi continuano a vederne
il fantasma. Questo mi fa dire che esiste una metafisica, una vita che non esiste all’interno della pellicola, che il cinema è dare movimento alle immagini statiche, un po’ come trovare la vita in un cimitero."

"Nell'infinità dei fenomeni che accadono intorno a me, ne isolo uno. Scorgo, per esempio, un portacenere sul tavolo (il resto passa in ombra). Se tale percezione si giustifica (per esempio, ho notato il portacenere perché voglio buttarvi la cenere della sigaretta che sto fumando) tutto è a posto. Se ho scorto il portacenere per caso e non ci ritorno più su, anche così va bene tutto. Ma se, dopo aver notato il fenomeno senza nessun preciso scopo, tu ci ritorni sopra, allora sì che è un guaio! Perché ci sei ritornato sopra, se è privo di significato? Ah ah! dunque significava qualcosa per te, dal momento che ci insisti? Ecco come, per il semplice fatto che ti sei concentrato senza motivo per un secondo di troppo sul fenomeno, la cosa comincia a distaccarsi dal resto, a caricarsi di senso..."No, no!" (ti scusi tu) "è solo un portacenere qualsiasi"
"Qualsiasi? E allora perché senti il bisogno di scusarti se davvero è un portacenere qualsiasi?"
Ecco come un fenomeno diventa un'ossessione...
Che la realtà sia, per essenza, ossessiva? Dato che noi costruiamo i nostri mondi per associazione di fenomeni, non sarei affatto sorpreso che all'inizio dei tempi ci fosse stata una gratuita e ripetuta associazione tale da imporre una direzione nel caos e instaurare un ordine. C'è nella coscienza qualcosa che la trasforma in una trappola per se stessa..
Questo gioco con la coscienza, questa specie di trappola, è in me un meccanismo fondamentale per comprendere il mio metodo compositivo (...). Quando scrivo, quando comincio a scrivere, tutti gli elementi della narrazione hanno più o meno la stessa forza. A poco a poco, tuttavia, uno si impone sugli altri, diventa più forte, e quanto è più forte ha la possibilità di imporsi sempre di più. In Cosmo le cose si organizzano in questo modo."
(Parigi Berlino. Diario 1963-1965, Witold Gombrowicz, ed. E/O, 1986)

⁶ «Berg.»
Lo disse con calma, con estrema cura e cortesia.
«Berg» dissi con altrettanta cortesia e chiarezza.
-----------------------------------------------
«Berg!»
«Cosa Berg?»
«Berg!»
«Ah già, aveva accennato a due ebrei… a una barzelletta sugli ebrei.»
«Macché barzelletta sugli ebrei! Bergamento col berg nel berg – capisce? – Bembergamento col bemberg… Tirirì»
(da Cosmo, Gombrowicz)

Witold: Che è un Bleurgh?
Leon: E' quel mio bergamento con
il mio bemberg, schivare e contrastare
-----------------------------------------------
W: Per quanto ancora, tutto ciò
starà in agguato e mi circonderà?
L - Bleurgh.
W: Bleurgh cosa?
L - Spielbleurgh.
W: Che altro?
L - Bleurghman il regista , Strindbleurgh, Bleurghson,  il filosofo  della noia....
W: Perché queste bocche sono contro di me?
(da Cosmos, Zulawski)

In verità Jacques Dutrunc in "Et moi, et moi et moi" canta "Sept cent millions de chinois. Et moi, et moi, et moi." (ndr)
🔵🔵🔵


¹ Mia madre invece era vivace, sensibile, dotata di grande immaginazione, pigra, sprovvista di senso pratico, nervosa ed (eccessivamente) infarcita di fisime, fobie e illusioni. 
(Nella famiglia Kotkowski si contavano molti casi di malattie mentali; ogni volta che andavo a trovare mia nonna in campagna morivo di paura.
Una grande casa al piano terra, divisa in due. Da una parte abitava mia nonna, dall’altra suo figlio, il fratello di mia madre: un matto incurabile che passava le notti girando per le stanze vuote e cercando di vincere la paura con strani discorsi che si trasformavano in canti ancora più strani, per poi finire in un urlo disumano. La cosa andava avanti per tutta la notte: respiravo follia a pieni polmoni.)

Il mio lato artistico lo devo a mia madre, mentre da mio padre ho preso la lucidità, la calma e l’autocontrollo. Mia madre tuttavia aveva anche un aspetto estremamente irritante, nel senso che era una di quelle persone incapaci di vedersi come realmente sono. Anzi si riteneva esattamente l’opposto di come era, il che, di per sé, era già una provocazione in piena regola.

Di natura, come ho già detto, era pigra e poco pratica.
Dato che in quei tempi proustiani la servitù abbondava, i bambini erano affidati a una governante francese e il ruolo di mia madre si limitava a impartire ordini al cuoco o al giardiniere. Il che non le impediva di ripetere frasi del tipo: “Se non ci fossi io a prendermi cura di tutto...”, “Il lavoro nobilita l’uomo”, “Il giardino di Małoszyce è tutta opera mia” e “Fortuna che almeno io ho un po’ di senso pratico”.
“Nei momenti liberi amo leggere Spencer e Fichte” dichiarava in perfetta buona fede, benché i tomi di quei filosofi, allineati sui ripiani inferiori della biblioteca, avessero le pagine perfettamente intonse.

Ritratto di mia madre come era : come credeva di essere:

impulsiva, ingenua controllata: critica
chimerica: disciplinata
di cultura salottiera: intellettuale
anarchica: organizzatrice
paurosa: coraggiosa
golosa: morigerata
amante del comfort: ascetica e irremovibile


Era affascinata dal suo opposto: ammirava i bravi medici, i professori, i grandi pensatori e in genere tutte le “persone serie”. Il suo modello ideale di donna era la matrona dotata di inflessibili ideali e principi (cattolici), dedita al dovere e sacrificata alla famiglia. E con quale beata ingenuità si identificava in ciò che ammirava!

Fu lei a sospingermi in quella sfera dell’assurdo che in seguito sarebbe diventata una delle principali componenti della mia arte.

Noi ragazzi (eravamo in tre: i miei due fratelli e io, il minore) scoprimmo presto un mezzo infallibile per stuzzicarla e prenderla in giro: contraddire sistematicamente qualsiasi cosa dicesse, arte nella quale mio fratello Jerzy e io avevamo raggiunto un’intesa perfetta. Bastava che mia madre osservasse: “C’è il sole!”, perché le rispondessimo con aria stupita: “Ma come? Non vedi che piove!”.
“Sempre questa mania di dire sciocchezze!” si indignava lei, al che Jerzy, conciliante, aggiungeva: “Diciamo pure che ora non piove; ma se si mettesse a piovere, pioverebbe”.
Questo sport di trascinare mia madre nelle discussioni più assurde fu una delle mie prime iniziazioni artistiche (nonché dialettiche). Di profondo e appassionato sentire, sempre pronta a difendere la sacralità della famiglia (“prima cellula della società”), mia madre condannava severamente i divorzi che, neanche a farlo apposta, nel nostro ambiente proliferavano a tutto spiano. Quindi, ovviamente: “Nuovo divorzio in famiglia!” annunciava a squarciagola Jerzy rientrando a casa, mentre ancora si toglieva il cappotto nell’ingresso. Lei taceva, subodorando la trappola. Io, dall’altra stanza, replicavo: “Ma che dici? Un altro divorzio? Non ci credo!”. “Ti dico di sì: ho appena incontrato zia Róża che mi ha confidato nel massimo segreto che Henryk e sua moglie divorziano perché lei si è innamorata del suo parrucchiere.” Io: “Bella roba!” ecc. ecc. Alla fine, ecco apparire la mamma tutta sconvolta: “Se la moglie di Henryk è davvero così cinica, non possiamo più riceverla in casa nostra!”.
“Ma perché?” rispondevamo noi. “Zia Ela ha già divorziato due volte, eppure gioca a bridge con i suoi mariti perché dice che insieme fanno una squadra perfetta. Secondo lei i divorzi hanno anche qualche lato buono, per esempio quello di assicurare ai figli un numero doppio di genitori...”
La discussione sui divorzi andò avanti per anni, alimentata dalla sua stessa enormità. Divina assurdità! È a quella scuola che ho appreso a sprofondare eroicamente nel nonsenso, a incaponirmi nelle più solenni cretinate, a celebrare devotamente la più totale idiozia... O Forma! È da lì che provengono la mia arte con tutte le sue scemenze (che non cesserò mai di ammirare) e la capacità di intrecciarle in una catena implacabilmente logica.
Mia madre non sospettava certo la propria bravura pedagogica.
I suoi insopportabili difetti erano quanto ci fosse di più sano, istruttivo e formativo per il carattere e per la mente. Fu alla scuola di mia madre che elaborai una mia personale scala di valori: la rabbia provocata dalla sua automistificazione mi indusse a sviluppare quel senso della qualitas che sta alla base di ogni lavoro artistico. Dopotutto l’arte consiste precisamente nello scegliere gli elementi di prima qualità e rigettare quelli scadenti; l’arte deve sempre fondarsi su una rigorosa gerarchia di valori e su una sempre rinnovata valutazione. Fu allora che cominciai a intuire che cosa fossero il senso critico, la freddezza, il distacco, il rifiuto di cedere a comode illusioni da quattro soldi. Continuai per anni quel gioco con mia madre, animato da una fredda ironia e senza un briciolo d’amore o di pietà.

Mi voleva molto bene.

A lei devo pure il mio culto della realtà. Mi ritengo un grande realista: uno dei principali obiettivi della mia opera è sempre stato quello di farmi strada attraverso l’Irrealtà fino a raggiungere la Realtà. Penso che sia stata la prima chimera coltivata nella mia vita.

Mia madre, ovviamente, era il risultato della situazione sociale che, come dicono i marxisti, condizionava la sua esistenza. Niente di strano quindi che proprio attraverso di lei arrivassi a scoprire abbastanza precocemente la massima onta della mia famiglia: la nostra vita veniva facilitata. I domestici! I domestici! Loro si scontravano con la vita: noi, puri consumatori, ci limitavamo a ricevere manicaretti sui vassoi. La mollezza, l’epicureismo, il gusto del comfort, il sibaritismo e l’indolenza delle sfere “superiori” mi saltarono agli occhi già verso i dieci anni.

    

(...)
Come vede, se si considera a volo d’uccello la mia infanzia, vi si possono grosso modo individuare certi germi premonitori e perfino la zona entro la quale in seguito si sarebbe impostata tutta la mia vita. Il culto dell’assurdo, l’opposizione tra realtà e irrealtà, tra inferiorità e superiorità, tra servi e padroni mi avevano già conquistato. Inoltre già allora avevo una doppia vita. C’era una parte di me, una parte oscura, diversa e decisamente poco disposta a venire alla luce, dove non lasciavo entrare nessuno.

E poi ero incapace d’amare. A me l’amore è stato negato da subito e per sempre: non so se è perché non ho saputo trovargli una forma e un’espressione adatte, oppure se proprio non l’ho mai posseduto. Non c’è mai stato, o l’ho soffocato con le mie stesse mani? In realtà, a ucciderlo, potrebbe anche essere stata mia madre.


(tratto da Testamento, Conversazioni con Dominique de Roux, di Witold Gombrowicz, Feltrinelli 2004)