martedì 27 ottobre 2009

Gonzales - Solo Piano (2004 - Kitty Yo), di Massimo "Mancio" Mancini


"Many whispers behind a laugh"


La produzione musicale attuale vive al 95% di apparenza, al 4,99999% di sostanza. Ma questi sono giudizi. Con Gonzo i generi non servono perchè sono presi a calci. Gonzales non è da nessuna parte. È semplicemente su una sedia, forse anche con l'alito alcolico. 
Stressato, piange e ride. Davanti a lui un piano. Beninteso, non compone, non nel senso intelletualistico e sistematico del termine. Semplicemente si apre. Così, dopo aver passato un decennio a produrre idee per dischi che vanno dal pop elettronico all'hip-hop, confezionando live performances eccentriche e guadagnandosi la fama di "schizzato", Gonzales stupisce tutti e rutta al mondo se stesso nudo a mezzo piano: Solo piano.



Non altro che 16 acquarelli. Il suono nitido del piano dal registro caldo, si sentono le meccaniche che lavorano: espediente voluto, perchè hanno sapore di marionetta e compongono intimamente le note stesse. 
Non è possibile parlare di questo disco dall'esterno. Basta con le concretizzazioni. Ascoltatevelo, entrateci. Fatevi del bene, o del male. Concedetevi poco più di 35 minuti di 16 sussurri agrodolci, intimi come il tramonto quando lo guardate da soli, o se volete il tè fumante mentre fuori diluvia e la vita chiede spiegazioni.



In pillole: c'è un girare intorno al minore che crea una sospensione, quasi interrogativa, accresciuta dalla brevità dei brani. Gogol è la summa di tutto questo e apre le danze, mistica come una Gnossienne. Ma l'ironia appare già nel maggiore del tema centrale. E basta...non è possibile oggettivare oltre. Gogol, Dot, Armellodie, Gentle Threat (fatevi avvolgere dal calore dei suoi toni bassi, al buio possibilmente, non abbiate paura, chiudete gli occhi, è terapeutica), Salon Salloon, Basamati e One note at a time sono la carta da parati che al momento tappezza le mie serate. 

Hanno tirato in ballo Satie come ispirazione. Gonzales non solo deve conoscerlo, ma lo vive, perchè genuinamente, non da falsario, produce degli shock emozionali intensissimi che rievocano l'autore delle Gymnopedies e delle Gnossiennes. 
Ma questi shock non sono prestiti: sono suoi. Intimo, dolcissimo, a tratti di un'ironia spiazzante e anche teatrale, ma senza finzione. Non ci troverete solo una cosa: banalità. Fatevela voi la recensione.



Massimo "Mancio" Mancini

Bio:
Chilly Gonzales, pseudonimo di Jason Charles Beck (Montréal, 20 marzo 1972), è un pianista canadese residente a Parigi.
Sebbene sia molto conosciuto per il suo primo album (MC ed elettronica), è anche pianista, produttore e cantautore. Collabora regolarmente con i musicisti canadesi Feist, Peaches e Mocky. Ha inoltre collaborato con Jamie Lidell nell'album Multiply e con Buck 65 nell'album Secret House Against the World.
Dopo esperienze musicali eterogenee, nel 2004 Gonzales rivela un nuovo volto, con un album interamente strumentale, Solo Piano. Acclamato dal pubblico e dalla critica, si ispira al lavoro del pianista Erik Satie. Rimane il disco più venduto di Gonzales.
È fratello del compositore Christophe Beck.

domenica 18 ottobre 2009

ANDROMEDA (The Andromeda Strain) DI ROBERT WISE (1971)



Nel 1971 Robert Wise, dopo i grandi successi di " Ultimatum Alla Terra", "Lassù Qualcuno Mi Ama", "West Side Story" e "Tutti Insieme Appassionatamente", gira questo affascinante lungometraggio di fantascienza non lontana dai canoni di una realtà plausibile, tratto da un romanzo di Michael Crichton (che nel film fa un piccolissimo cameo). Una misteriosa minaccia arriva dallo spazio a bordo di un satellite rientrato sulla terra e precipitato vicino a una cittadina nel deserto dell' Utah. Sceneggiatura robusta e ambientazioni curate unite a una regia di grande stile, che nell'inquadratura coniuga elementi geometrici e pseudo-tecnici in uno splendido gioco modernista, ne fanno un lavoro seducente. Riuscita pure la caratterizzazione sfumata dei personaggi, con dei funzionali, piccoli, particolari che nella stragrande maggioranza degli script odierni di genere, viene tralasciata a vantaggio degli effetti speciali o del montaggio triturato, così perdendo spesso il transfert con i protagonisti. Certo alcune scene e alcune lungagini denunciano chiaramente l'età del film, ma comunque rimane una splendida sensazione di allarme emotivo e di piacere estatico che lo collocano nella fortezza delle opere classiche senza età. Nel 2008 Ridley Scott ha prodotto una versione tv in due puntate dello stesso romanzo.


Voto: 7,5

Luca Tanchis

giovedì 15 ottobre 2009

Mères et filles di Julie Lopes-Curval (2009)


                               
Il principale merito che si deve riconoscere alla giovane e promettente Julie Lopes-Curval, oltre ovviamente quello di aver diretto con sapienza questo gradevolissimo lungometraggio, è senz’ombra di dubbio l’ essere riuscita a conciliare e far coesistere due entità vicine ed affini ma storicamente restìe all’andare a braccetto: il femminismo e la femminilità, attraversando con discrezione e buongusto tre generazioni di donne. L’espediente è semplice e per questo molto efficace: Audrey, (meravigliosa Marina Hands) è una trentenne subissata dal suo lavoro che dal Canada ritorna a casa (le coste aquitane dei rossi rubino) per rendere visita ai suoi genitori e per dedicarsi in un contesto più sereno ad un nuovo importante progetto di lavoro, trascinandosi appresso una valigia di malinconia ed un cofanetto con un piccolo segreto; da subito appare radicato il contrasto con la madre Marine (Catherine Deneuve, che sa sempre scegliere con attenzione i propri ruoli), apparentemente insanabile, sempiterno nei risvolti freudiani del caso, al punto di far decidere alla protagonista di trasferirsi in quella che fu la casa natale della madre, ormai inabitata. E’ qui che Audrey trova nascosto un vecchio quaderno di ricette e confidenze manoscritte dalla nonna, scappata illo tempore abbandonando la famiglia e provocando uno scandalo ancora riecheggiante, un impronunciabile taboo familiare. In questo momento comincia il confronto a tre vite delle donne (“madri e figlie” appunto) durante il quale la nipote si affascina progressivamente alla figura della nonna, una donna troppo moderna per l’epoca in cui ha vissuto, cercando pazientemente di far rivedere a sua madre le severe opinioni edificate artificialmente per reggere al trauma dell’abbandono.

Assolutamente lodevole la maniera in cui la regista confeziona tutto questo: nessuna interruzione della trama con ruvidi flashbacks bensì microscopici incontri quasi surreali tra Audrey e Louise (la nonna, chiamata per nome da tutti, quasi a voler marcare il distacco); usando quindi l’abitazione come passaggio spazio-temporale tra le due realtà storiche così diverse. A tal proposito va sottolineato l’impeccabile lavoro di costumi e decori che con sobrietà fanno andata e ritorno verso la metà del ‘900 nel giro di veramente pochi secondi, accentuando garbatamente il progresso sociale tenacemente raggiunto dalle donne, senza pertanto alcuna velleità ”rivoluzionaria” ma testimoniandone la perseveranza quotidiana. Il film scorre in una certa atmosfera di ipnosi dalla quale ci si risveglia solo nel momento in cui, stupiti, ci si rende conto di aver partecipato ad una meravigliosa inchiesta condotta portando i sentimenti come uniche prove.
Colonna sonora di prestigio, con pescaggi fortunati nel tradizionale, nella classica e pezzi composti ad hoc per il film da Patrick Watson.



Voto: 7
Carlo Ligas

domenica 4 ottobre 2009

AMANTI CRIMINALI (Les amants criminels) DI François Ozon (1999)

“Noi che guardiamo siamo tutti criminali, siamo dei guardoni. E seguiamo l’undicesimo comandamento: “Non farti scoprire”.
(Alfred Hitchcock)

Alice e Luc sono due adolescenti della provincia francese, insieme uccidono Said, un loro coetaneo, e nella fuga si perdono (ritrovano) in una selva oscura.


Un crimine in società sancisce un legame più sacro e impetuoso di un matrimonio, di un amore proibito, di un figlio. La complicità di un omicidio è il vincolo che il magnifico Ozon, fondendo la favola con il noir, derubrica dalle efferatezze e consegna alle "honeymoons" sognate: come Malick ne “La rabbia Giovane”, come Van Sant in “Elephant” e, chiaramente, come Arthur Penn in “Bonnie and Clyde”. La cronaca di una deriva, dell’amore immaturo, fragile e dannato, suscitato dalla bellezza dei corpi e da “una magnifica sorsata di veleno” (Alice legge “Notte dell’Inferno” di Rimbaud in classe mentre guarda la vittima), sembra incantarsi felicemente alla fiaba del bosco. Tra orrori e iniziazioni etero e omosessuali, l’Orco che li cattura e segrega nella sua capanna, paradossalmente offre ad Hansel e Gretel un percorso di redenzione al riparo del mondo “realmente” implacabile. Per un attimo la convinzione che, grazie ad azioni sconsiderate, i loro sogni possano realizzarsi, si congiunge a grandiose, sublimate, inquadrature Ozoniane: tutti gli animali del bosco partecipano alla loro “prima volta”.
E qui la favola termina; come finisce l’adolescenza, all’improvviso, lasciando un recapito inesistente. Da qui in poi si entra in un altro paese, si sorpassa la dogana. L’ultima goccia amniotica si è asciugata, è evaporata dalla pelle imberbe di Luc e Alice. Dopo c’è il castigo, la fine, l’ultimo sguardo sugli amori impossibili.


Francois Ozon gira a un centimetro dalle pelle dei protagonisti (una bravissima Natacha Regner e un incredibile Jeremie Renier) con una tale lucidità che infine risulta più increscioso il nostro speculare su questi misfatti pruriginosi e catartici che i delitti dei giovani criminali. Come Hitchcock, il francese accresce la suspense della nerissima trama con un atto d’amore che sembra non compiersi mai, per colpa (merito) di una ragazza bionda, glaciale, persa, superiore.
Come Larry Clark è spietato nel rappresentare un mondo, quello dell’adolescenza, eccitato nella sua irresolutezza.
Come Resnais è talmente bravo da farci intravedere, sulla cornice, un documentario del film stesso con una fluidità che delinea la consistenza di questo grande metteur in scene.
Mentre guardiamo siamo dentro, siamo fuori, ne siamo pervasi. Ozon e il suo senso di artefatto (si veda la scena dell’atto sessuale tra Luc e Alice, circondati da animali posticci) sono una studiata premessa per poi assalirci, invadere noi e i protagonisti, dell’illuminazione e dell’epifania che schiude la consapevolezza.
Questo mimetismo con il reale, "come i disegni e le forme protettive degli animali, trascende lo scopo della rappresentazione, della sopravvivenza"¹, per regalarci il prestigio dell’illusionista e lo splendore di un cinema così lucidamente consapevole dei suoi meccanismi.


Voto: 8
Luca Tanchis



Note:
¹ La magia, la destrezza di mano e trucchi di vario genere hanno una parte non trascurabile nella sua narrativa. Servono a divertire o hanno anche un altro scopo?

L’inganno è praticato in maniera ancora più elegante da quell’altro V.N. che si chiama Natura Visibile. La scienza attribuisce una funzione precisa al mimetismo, ai disegni e alle forme protettive degli animali, eppure la loro perfezione trascende lo scopo elementare della mera sopravvivenza. Nell’arte lo stile individuale è sostanzialmente tanto futile e organico quanto un miraggio. La destrezza di mano cui lei accenna non è molto più della destrezza d’ala in un insetto. Un bello spirito potrebbe dire che mi protegge dai poveri di spirito. Lo spettatore riconoscente è pronto ad applaudire la grazia con cui l’artista mascherato si mimetizza con lo sfondo della Natura fino a scomparirvi. 

(Intransingenze, Vladimir Nabokov, ed. Adelphi, 1994)