venerdì 27 aprile 2012

Milk, di Gus Van Sant (2008)

La prima volta che ho sentito la parola "Hope" ero molto piccolo. Rimbalzava dagli schermi ai titoli dei giornali, erano gli anni del grande pugilato. Nei pesi massimi, dopo decenni di dominio nero, Gerry Cooney, gigante bianco irlandese, per tutti la "White Hope", affronta per il titolo mondiale il colosso d'ebano Larry Holmes. E perde. Nell'ultima opera di Gus Van Sant la parola "Hope" si ripete tante volte dalle labbra di Harvey Milk fino ad assumere i connotati di un mantra celato, il motivo conduttore che innesta nel film una grande e irreprensibile forza politica.
La storia avviene a San Francisco negli anni '70: le battaglie civili e l'attivismo politico delle minoranze gay di Harvey Milk. Primo Gay dichiarato a ricoprire una carica pubblica negli Stati Uniti e ucciso nel '78 a soli 48 anni. Il regista del Kentucky trova una misura molto accessibile tra la sperimentazione dell'ultimo periodo ("Gerry","Elephant","Last Days" e "Paranoid Park") e i suoi film dichiaratamente mainstream come "Will Hunting - Genio Ribelle" e "Scoprendo Forrest".
"Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti." dice il protagonista ad un certo punto, e Van Sant abbandona il suo viaggio quasi sensoriale fatto di visioni e inquadrature spalancate tra i belli e i dannati, le cowgirls, i losers e gli skaters, per prendere in mano il megafono (in piena ebbrezza Obama) e raccontare la storia sua e di Harvey Milk al pubblico più vasto possibile. Ritagliandosi due sole oasi di puro talento immaginifico nella scena in cui Cleve Jones (Emile "intothewild" Hirsch) chiama a raccolta gli amici da una cabina telefonica pubblica e in quella dell'omicidio di Harvey. Sean Penn si supera con una magnifica prova di mimetismo e se vogliamo anche di podismo, perchè soltanto un maratoneta può avere, in qualsiasi inquadratura del film, il fiato per non perdere un solo istante il suo personaggio, seguirlo come un'ombra e sparire senza essere visto al THE END. Ma come è piena di misura anche la prova di James Franco (l'amante di Milk) e di Josh Brolin (il consigliere di San Francisco avversario), ed è splendida protagonista San Francisco stessa che Van Sant ci restituisce piena di colore e di fermento, in linea con l'entusiasmo gay di quei giorni.
Una Cisco dai colori caldi, saturi e sensuali quanto era fredda, geometrica e chirurgica quella criminosa di "Zodiac" di David Fincher. "Sperare in un domani migliore...Io chiedo questo: che se dovesse esserci un omicidio, in cinque, in dieci, in cento, in mille siano a levarsi in piedi. Se una pallottola mi trapasserà il cervello che serva a distruggere ogni muro dietro a cui ci nascondiamo. Io chiedo che il movimento continui perchè non è questione di guadagno personale, non è questione di individualismo e non è questione di potere. E' questione dei "noi" là fuori...e non solo i gay, ma i neri, e gli asiatici, e gli anziani, e i disabili. I "noi". Senza la speranza i "noi" si arrendono. So che non si può vivere di sola speranza, ma senza la speranza la vita non vale la pena di essere vissuta e quindi tu, e tu, e tu...dovete dar loro la speranza, dovete dar loro la speranza." Così dice Harvey nell'ultima registrazione. Alla forma lineare del racconto Van Sant contrappone la sostanza di un messaggio coraggioso, non banale, necessario. Oggi più di ieri. Harvey Milk muore guardando il manifesto della sua amata "Tosca" di Puccini. Ma non muore disperato. La sua speranza adesso vive fuori campo, sulle strade, tra le minoranze gay, tra quelle dei neri, degli anziani, dei reietti. E vince.
Voto: 7
Luca Tanchis

martedì 24 aprile 2012

Perchè siamo entrati nell'era della cultura frivola - Intervista a Mario Vargas Llosa



Mario Vargas Llosa aveva da un po’ di tempo la sgradevole sensazione che lo stessero prendendo in giro. Cominciò a provarla visitando mostre e biennali, nell’assistere ad alcuni spettacoli, nel vedere determinati film e programmi tv, e gli accadeva anche quando si adagiava in poltrona a leggere certi libri o riviste. In quei momenti, come lui stesso racconta, lo coglieva la sensazione, poco definita al principio, di essere «indifeso di fronte a una sottile cospirazione» per farlo sentire incolto o stupido, per fargli credere che una frode era arte; un imbroglio, cultura. Da quella sensazione è sorta una convinzione e da questa un saggio, ‘La civilizaciòn del espectaculo’, edito in Spagna da Alfaguara. Nelle sue pagine, il Nobel per la Letteratura disseziona la trasformazione della cultura in un caos nel quale “poiché non c’è modo di sapere che cosa sia cultura, tutto è cultura e più nulla ormai lo è”. Questo dissolvimento di gerarchie e punti di riferimento è una conseguenza, per Vargas Llosa, del trionfo della frivolezza, del dominio dell’intrattenimento. Ma gli effetti di questo clima di banalizzazione estrema non si limitano alla cultura. 

Lei sostiene che la cultura è diventata banale, che l’erotismo è sconfitto a favore della pornografia, che il postmoderno è, in parte, un esperimento fallito... C’è una scappatoia?

«Si può senz’altro sperare in un rinnovamento della vita culturale e che essa abbandoni il tratto sempre più frivolo, superficiale, che è una delle sue caratteristiche principali oggi. Non l’unica, perché ci sono eccezioni alla regola, per fortuna. Questa banalizzazione ha delle conseguenze non solo nel campo della cultura, ma in tutti gli altri. Per questo nel libro mi riferisco alla politica, alla vita sessuale, ai rapporti umani. Tutte queste cose possono essere molto colpite se la cultura vive nella banalizzazione, nella “frivolizzazione” permanente». 

Questo le dà la sensazione di essere preso in giro. Da quando? 

«E’ un processo, non succede all’improvviso. Ma ricordo lo shock che fu per me, qualche anno fa, visitare la Biennale di Venezia, che era un vetrina del prestigio e della modernità, dello sperimentale. A un certo punto, dopo averla percorsa per un paio d’ore, giunsi alla conclusione che lì c’era molta più frode e imbroglio che serietà, che profondità. Per me fu un’esperienza piuttosto importante, che mi portò a riflettere. Alla fine del saggio, racconto come abbia arricchito la mia vita leggere buoni libri, conoscere la grande tradizione pittorica, il mondo della musica, come questo abbia dato un senso, un ordine, un’organizzazione al mondo. Me lo ha reso molto più interessante, ricco, stimolante. Credo che sarebbe una tragedia se proprio in un’epocain cui c’è un progresso tecnologico, scientifico e materiale straordinario, la cultura si trasformasse in puro intrattenimento, in qualcosa di superficiale, lasciando un vuoto che niente può riempire, perché nulla può sostituire la cultura quando si tratta di dare un senso più profondo alla vita». 

La sua opera non è un esempio del fatto che la capacità di autocritica sopravvive? 

«Sì, ma è preoccupante che la ricchezza più grande sia nel passato più che nel presente. E c’è un altro aspetto. Oltre alla frivolezza l’altro problema è l’oscurantismo bugiardo che identifica l’oscurità con la profondità e che ha portato la critica a degli estremi di specializzazione che la mettono al margine rispetto al cittadino comune, all’uomo mediamente colto al quale prima la critica serviva per orientarsi davanti a un’offerta così enorme». 

Ma lei propone di tornare a dei modelli culturali. E’ possibile? 

«Non tutti possono essere colti alla stessa maniera, non tutti vogliono essere colti alla stessa maniera e non tutti dovrebbero essere colti alla stessa maniera, ci mancherebbe. Ci sono dei livelli di specializzazione che sono spiegabili, a condizione che la specializzazione non finisca col voltare le spalle al resto della società, perché allora la cultura smette di impregnare l’insieme della società, scompare quel consenso, quei denominatori comuni che ti permettono di discriminare tra ciò che è autentico e ciò che è posticcio, tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, tra ciò che è bello e ciò che è brutto». 

Lei estende la sua critica alla cucina o alla moda che stanno entrando a far parte dell’alta cultura.

«Questa, infatti, è una delle manifestazioni di quella frivolezza. Non ho nulla contro la moda, ma non credo che possa prendere il posto della filosofia, della letteratura, della musica colta, come referente culturale. E questo è ciò che sta accadendo. Oggi parlare di cucina e parlare della moda è molto più importante che parlare di filosofia o di musica. Questa è una deformazione pericolosa e una manifestazione di frivolezza terribile. Che cos’è la frivolezza? E’ avere un quadro di valori completamente confuso, è il sacrificio della visione a lungo termine per quella a breve termine, per l’immediato. Lo spettacolo è proprio questo». 

Questa prospettiva non racchiude un’idealizzazione eccessiva del passato? 

«Non sono un conservatore in quel senso, proprio no, e so che nel passato, al tempo stesso di Cervantes, di Shakespeare, esisteva la schiavitù, il razzismo più spaventoso, il dogmatismo religioso, l’Inquisizione, i roghi per i dissidenti... So benissimo che il passato porta con sé tutto questo, ma al tempo stesso non si può negare che in quel passato c’erano cose molto ammirevoli, che hanno segnato profondamente il presente, che hanno arricchito la vita delle persone, la sensibilità, l’immaginazione. E quella era un funzione che aveva l’alta cultura, e oggi non si può nemmeno parlare di alta cultura, perché sarebbe scorretto, politicamente scorretto».  


C’è una difesa molto interessante dell’erotismo nel libro, come opera d’arte di fronte al “sesso crudo”. 

«L’erotismo è stato nel mondo dell’esperienza la conversione di un istinto in qualcosa di creativo, in una vera opera d’arte e questo è stato possibile grazie alla cultura. E qui cito molto Georges Bataille, che ha sempre difeso l’erotismo proprio come una manifestazione di civiltà, e che è stato molto reticente riguardo alla permissività totale perché credeva che avrebbe ucciso le forme e alla fine si sarebbe giunti, di nuovo, a una specie di sesso primitivo, selvaggio. Qualcosa del genere è accaduto nel nostro tempo». 

Cita una gioventù apatica, chiusa nell’ostilità sistematica. Fenomeni come quello degli indignados o di OccupyWallStreet, non le danno speranza? 

«Sì, un po’ sì. Sempre che non si orientino nel senso sbagliato. Perché c’è un certo conformismo nella protesta. Foucault ha scritto delle cose interessanti su questo. Tuttavia, credo che ci siano dei fermenti tra i giovani. Le cose possono cambiare per il meglio. Ma su alcuni aspetti è importante una critica molto radicale di un fenomeno che rappresenta una decadenza». 

Nelle dittature c’è più corruzione. Ma è lì che la lotta degli intellettuali acquista più senso.

«Assolutamente. E’ un fenomeno al quale stiamo assistendo in Cina: è interessantissimo il caso di Ai Weiwei. Si tratta di una figura che oggi rappresenta lo spirito di resistenza, la volontà di apertura, di modernizzazione, di democratizzazione». 

Quando parla di degrado dei valori, comprende anche il sensazionalismo della stampa. Lei crede che l’autoregolamentazione possa essere un modo per limitarlo?

«Credo che sia l’unico. Che la stampa stessa debba assumersene la responsabilità. Non è una cosa che si risolve con sistemi di censura, ci mancherebbe. Penso che il sensazionalismo sia espressione di una cultura». 

E c’è un effetto moltiplicatore con le nuove tecnologie.

«Di fronte alle quali ti puoi difendere molto male. Ne ho fatto l’esperienza tempo fa, in Argentina. Una signora si congratulò con me per un testo che l’aveva molto commossa, mi disse, un omaggio alla donna. Le dissi che la ringraziavo molto, ma non avevo scritto nessun omaggio alla donna Pensai che se lo fosse inventato, o che si fosse confusa. Un po’ di tempo dopo mi mandano il mio elogio della donna, comparso su Internet. Un testo di un cattivo gusto tale che mi sono vergognato per chi l’ha scritto, firmato da me e lanciato nello spazio a motivo di non so cosa. Come fai a difenderti?»

Bisogna però riconoscere che Internet e i social network permettono ad artisti e intellettuale di esprimersi all’istante.

«Facendosi beffe di tutti i sistemi di censura: questo è un progresso. Ma al tempo stesso è anche un altro tipo di confusione che ha effetti molto negativi sulla cultura. L’eccesso di informazioni significa anche la scomparsa delle gerarchie, delle priorità. Si colloca tutto a uno stesso livello di importanza per il semplice fatto di stare sullo schermo». 

Jan Martinez Ahrens, El Pais 2012

venerdì 20 aprile 2012

Unisci i puntini - Elementi pop di storia # 02 Palestina, di Joe Sacco


Elementi pop di storia # 02: Palestina, di Joe Sacco

Joe Sacco (Chircop, 2 ottobre 1960) è un fumettista maltese, che vive e lavora negli Stati Uniti. Combina il lavoro di fumettista con quello di giornalista. Interessato a scenari di guerra, ha disegnato opere sul conflitto palestinese (Palestine) e anche sulla guerra serbo bosniaca (Safe Area Goražde, Neven). 
Nel 2010 è stato pubblicato il suo ultimo lavoro ancora una volta sul dramma della popolazione palestinese: "Gaza 1956". Tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992 Joe Sacco ha trascorso due mesi in Israele e nei Territori Occupati, viaggiando e prendendo appunti. Ha vissuto nei campi palestinesi, condividendone la vita (o meglio, la loro sopravvivenza) in mezzo al fango, in baracche di lamiera arrugginita, tra coprifuoco e retate dell'esercito israeliano. Risultato del suo meticoloso lavoro d'inchiesta è questo volume che, combinando la tecnica del reportage di prima mano con quella della narrazione a fumetti, riesce a dare espressione a una realtà tanto complessa e coinvolgente come quella del Medio Oriente. 
E’ un reportage lontano dalle luci dei riflettori, che ci porta all’interno della prima Intifada palestinese.




Palestina, di Joe Sacco, Traduttore: D. Brolli, Ed. Mondadori, 2006

domenica 15 aprile 2012

La Talpa (Tinker Tailor Soldier Spy), di Tomas Alfredson (2011)


La Talpa (Tinker Tailor Soldier Spy) (2011)

Quando si inizia a sospettare che ai vertici dei servizi segreti inglesi ci sia un traditore, un finto amico che fa il gioco del nemico e che è assolutamente necessario smascherare il più in fretta possibile per la sicurezza della Gran Bretagna e dell’intero occidente, toccherà all’agente segreto George Smiley snidare la talpa. Nella sua pericolosa impresa Smiley non potrà fidarsi di nessuno.

Director: Tomas Alfredson
Story: John le Carré
Stars: Mark Strong, John Hurt, Gary Oldman, Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Tom Hardy

Piccole, ma non insignificanti corrispondenze, lasciavano presagire un incontro artistico tra uno dei più interessanti registi apparsi negli ultimi anni, Tomas Alfredson, e i libri dello scrittore ed ex agente segreto del MI6, John Le Carrè. 
Innanzitutto un indizio di comunanza stilistica, un'impassibile sobrietà tragica che entrambi stendono, come un mantello stoico, sull'intera opera, e l'incidentale (?) somiglianza dell'incipit di un romanzo di John le Carré, 'The Looking Glass War' ('Lo specchio delle spie' in Italia) : "La neve copriva l'aeroporto, era venuta dal Nord, nella foschia, spinta dal vento notturno, odoroso di mare. Sarebbe rimasta tutto l'inverno, una polvere sottile, gelida, granulosa che non si scioglieva, era statica, come un anno senza stagioni." 
con quello del film che ha reso noto al mondo intero il regista svedese, 'Let the right one in' (Lasciami entrare) :


'La Talpa' non è solo un film di spionaggio acre e rassegnato, dalle atmosfere cineree rese perfettamente con una messa in scena assoluta, è anche e soprattutto un'indagine certosina sull'inconsistenza dei giochi dei grandi. L'ossessiva cura di prassi, codici, meccanismi, che diventa il fine e non più il mezzo per celare e trafugare fantomatici segreti. 
Il perseguimento di una vittoria incolore, insapore e senza nome, se non quello della vanità personale, pedissequamente all'amnesia totale di una causa (chi parla più di causa?). 
“Ci hanno adoperati...ci hanno truffati tutti perché era necessario.., In questo gioco esiste soltanto una legge... Che cosa credi che siano le spie? Santi, martiri, preti? Sono una squallida processione di idioti vanesi e di traditori, di omosessuali, sadici ubriaconi, di gente che gioca agli Indiani e Cowboys per rallegrare una vita squallida. Credi che se ne stiano a Londra, occupati a soppesare bene e male? […] Non credo in niente, neanche nella distruzione o nell’anarchia. Sono nauseato, nauseato di uccidere, ma non vedo che cosa posso fare di diverso: dappertutto è lo stesso, gente truffata e imbrogliata, vite intere sprecate, gente fucilata ed imprigionata, interi gruppi e classi di uomini cancellati senza ragione.”


Dal setaccio di una regia perfetta emerge lentamente l'oro della reale sostanza in gioco: vite non vissute realmente, o meglio come infiltrati in se stessi, talpe che si celano i segreti dei sentimenti, dissimulatori dei propri gusti sessuali. Osservatori, da dietro due fondi di bottiglia, dello spleen fatale di non sentirsi parte del mondo che scorre, forse con la malata ambizione di credersi "spia al servizio dell’Altissimo" come scrisse Kierkegaard.George Smiley è l'esatto contrario di James Bond, proprio come sono, culturalmente e stilisticamente, agli antipodi Fleming e Le Carrè. Il male, nei libri e film di 007, è una minaccia fisica, nel lavoro di Alfredson è invece una consapevolezza spirituale e un'impostura dialettica.
Proprio il personaggio interpretato da un sublime Gary Oldman, all'interno di una matassa intricata, è proprietario di un'epifania struggente; una ritorsione delle sue stesse parole, così centellinate e ambigue, ma mai abbastanza: anche solo una rarissima conversazione personale gli costa il tradimento della moglie. Per chi educhi la propria anima alla costante dissimulazione, non c'è segreto che pronunciato non porti dolore.

Voto: 8

Luca Tanchis

giovedì 5 aprile 2012

Ibridi Marzo - Playlist Marzo 2012





1   Vanessa - Grimes
2   Ragysh - Todd Terje (Blondish's Moloko Edit)
3   Amanda - Michael Mayer
4   Paradise Circus - Massive Attack feat. Hope Sandoval
5   Skin of the Night - M83 (Of Porcelain - Ooah Remix)
6   Good Knight - Emancipator
7   Emma Jane - Allosaurus
8   You'll See - Baden Baden
9   Myth - Beach House
10 Manchester - Kishi Bashi