giovedì 30 maggio 2013

J.E. Confidential: Un'intervista a James Ellroy


James Ellroy , il "Demon Dog" autoproclamato della narrativa americana, è di buon umore quando ci incontriamo di mattina, a New York. «Mi sembra di essermi tolto di dosso il peso di una vita intera», spiega, seduto in una stanza d’albergo. «Ho 61 anni e mi sento come un ragazzino. Tutto ciò che ho sempre desiderato era scrivere delle cazzo di storie meravigliose, avere un paio di cani e scopare donne. Esiste qualcosa d’altro? D’accordo, magari un buon hamburger, ma...». Ellroy è un maestro del cabaret. Nel corso di qualche minuto è capace di deviare bruscamente atteggiamento, dallo spaccone esagerato («Sono il Beethoven del poliziesco») al chiacchierone stiloso («Non riesco a stare in pubblico senza caffeina»), passando per il pervertito impenitente («Sono un maniaco sessuale!») fino al virtuoso devoto alla Bibbia («Sono figlio di un sacerdote scozzese, e credo nel fare sacrifici e nella responsabilità personale nei confronti di Dio»). Conosciuto soprattutto per il suo classico del noir moderno L.A. Confidential, Ellroy è in uscita da Mondadori con “Il sangue è randagio”, l’ultimo romanzo della sua Underworld Usa Trilogy. Il libro completa la sua visione tetra e inquietante dei cancri al cuore dell’impero americano, a metà del secolo scorso (dalla Baia dei porci al Vietnam, fino a J. Edgar Hoover e Howard Hughes), grazie a complotti interconnessi e imprese criminali di agenti dell’Fbi farabutti, sbirri assassini, gangster e killer su commissione. 
L’ossessione di Ellroy per il lato oscuro dell’America risale ai ben documentati traumi della sua infanzia: l’omicidio brutale e irrisolto di sua madre, e la morte pochi anni dopo di quel fannullone del padre. Divenuto adolescente (famose all’epoca le sue incursioni nelle abitazioni femminili per rubare la biancheria intima...), in seguito Ellroy si è unito all’esercito e poi lo ha abbandonato, trascorrendo il decennio successivo in un costante stato di dipendenza da speed e alcol, venendo incarcerato per piccoli furti e vivendo spesso da vagabondo per le strade di Los Angeles. Dopo essersi ripulito nel 1977, mentre si guadagnava da vivere facendo il caddy sui campi da golf, si è rivelato autore di bestseller come “Dalia nera” e “Il grande nulla”, grazie a uno stile brutale che un critico ha descritto come “hard-boiled lasciato sul fuoco fino a bruciare la pentola’. 
Eppure, man mano che la sua fama aumentava, la vita privata di Ellroy s’incupiva. Due matrimoni si sono sbriciolati e lui si è gettato nel suo lavoro, finendo — nel 2001, durante il tour di presentazione di "Sei pezzi da mille" — per prendersi un esaurimento nervoso. «Puntavo eccessivamente in alto, lavoravo troppo», racconta. «E’ venuta su della merda impazzita tenuta repressa troppo a lungo, e mi è finita dritta in faccia». Ora, otto anni dopo, ha terminato il romanzo autobiografico intitolato “La vendetta di Hilliker” (in uscita ad aprile per Bompiani) e si sta godendo la pubblicazione di “Il sangue è randagio”. I protagonisti, che Ellroy chiama “spezza-gambe destrorsi”, ricercano il proprio riscatto nella figura di Joan, un’attivista di sinistra, facendolo assomigliare a tanti altri suoi romanzi: tre uomini ossessionati da un’unica donna, nel corso di un solo libro, voluminoso e insanguinato.



La trilogia Underworld Usa va dal 1958 al 1972, gli anni in cui più hai vissuto nella marginalità, in cui eri tossico e vagabondo. C’è un motivo per cui desideravi scrivere di quel periodo?

«La trilogia deriva dall’aver letto, nel 1988, “Libra” di Don DeLillo. Lì il racconto utilizza quasi sempre il punto di vista di Lee Harvey Oswald: DeLillo lo rende il più grande solitario della storia americana. E’ stata anche la prima volta in cui ho visto, in letteratura, un cretino stupido e malleabile rappresentato con questa empatia e complessità. Mi dissi: «Merda, questo fottuto libro è così bello, che ora non posso più scrivere dell’assassinio di Kennedy». Ma poi ho capito che potevo realizzare una trilogia con tutte le profezie nate dall’omicidio di JFK e creare una narrazione che utilizzasse un’infrastruttura fatta di eventi storici. Dopo la quadrilogia di Los Angeles non intendevo scrivere nulla di poliziesco. Volevo esplorare un tema che definisco “l’incubo privato della politica pubblica”».

Qual è l’incubo privato? 

«I momenti fondamentali della storia americana dal 1958 al 1963 sono ben noti: l’emergere dei movimenti per i diritti civili, l’ascesa di JFK, le stronzate repressive di J. Edgar Hoover, la mafia americana, la crisi dei missili di Cuba. Poi il decennio di rivoluzione nella cultura giovanile, il perdurare dell’incubo del Vietnam, altre bombe, ulteriori folli puttanate della Cia, assassini politici. Lo sappiamo. 
Quella è la politica pubblica. Ma chi è che, là fuori, raccolse nomi, intercettò telefoni, spezzò gambe, estorse, fece i soldi, e non soffrì per la morale perlomeno contorta della situazione? Chi è arrivato al 
punto di non poterne più, e che cosa spinge a desiderare di cambiare? Questo è l’incubo privato. Questo è “Il sangue è randagio”».

E' una trilogia molto oscura. Scriverla ti ha mandato a puttane?

«Sì, completamente. Ho abitato le anime di questi spezza-gambe. Sono stato con loro moralmente e spiritualmente. Ma “Il sangue è randagio” parla della necessità di rivoluzione e cambiamento. Questo libro conduce verso qualcosa di diverso, rispetto ai primi due».

Approfondisce ulteriormente le conseguenze morali di violenza e corruzione?

«Esatto. Rappresenta il momento in cui quelli che sono passati attraverso la merda dal 1958 al 1968 incominciano a parlare di ciò che ha significato quel periodo. Io quello schifo l’ho vissuto. Mi accorgevo di esserci immerso ma a) fino al 1977 ero troppo stonato, e b) ero un totale emarginato. Non sono mai stato uno da rock&roll: ho sempre preferito la musica classica. Non sono mai stato un pacifista; ero un reazionario pronto a mandarti affanculo».

Pensi che sia ingenuo credere che Lee Harvey Oswald abbia agito da solo?

«Credere che non stesse capitando qualcosa d’altro sarebbe un trionfo della logica spaziale e del pensiero empirico sull’immaginazione. Analizzo la teoria dell’unico cecchino e penso: “Secondo me non ha senso sotto alcun aspetto morale, storico o metafisico, per cui semplicemente la rifiuto”. Ed è una storia migliore per come la vedo io, cazzo. Per cui non discuterò dell’unico cecchino, me ne fotto. E allora? Vaffanculo. Chi comanda? Quello che ha la storia più bella da raccontare. E, indovinate un po’?: sono io».

Uno dei tuoi personaggi, il giovane conservatore Don Crutchfield, è così deliberatamente in disaccordo con il proprio tempo da sembrare un tuo alter ego romanzato...

«Sono io, un tipo grande e grosso, con i capelli a spazzola e i pantaloni a sigaretta nel mezzo della Summer of Love, che si domanda perché non riesce a scopare. “Beh, magari se la smettessi di farti le pippe e ascoltassi il rock&roll invece che Beethoven, avresti qualche probabilità in più”. Nel libro, Crutchfield non sa cosa fare per Natale. E’ vergine, ha 23 anni ed è solo. E’ un guardone con due possibilità: andare alla messa di mezzanotte alla chiesa luterana, oppure mettersi a sbirciare le nere nella South Central di Los Angeles. Quello sono io».

Hai ancora quelle tendenze di destra?

«Lo dico per scazzare con la gente. Pensavo che Bush fosse un verme, il presidente americano più disastroso degli ultimi tempi. Ho votato per Obama. Assomiglia a Jack Kennedy, hanno entrambi le orecchie grandi e un sorriso contagioso. Ma Obama è un tipo più profondo. Kennedy era uomo dal grandi appetiti. Voleva la fica, gli hamburger, l’alcol. Si drogava moltissimo».

Allora perché sembra ancora che ti identifichi con gli scagnozzi di destra che crei?

«Sono un cristiano e i miei libri sono storie di redenzione. Ti mostro le conseguenze che le azioni raccapriccianti hanno sul karma individuale. Il più delle volte desidero che, arrivati alla fine, i lettori amino i miei personaggi perché sono riusciti a trascendere. Hanno trovato qualcosa di più grande, profondo e sicuro da un punto di vista morale rispetto a loro stessi».

Hai scritto che Dashiell Hammett aveva catturato perfettamente la concezione americana che il lavoro possa distruggere una persona. E questo che capita ai tuoi personaggi?

«Il cuore dell’arte di Hammett è la figura maschile nella società americana, quella del lavoratore, che si dirige verso il proprio impiego con determinazione incrollabile ed è riluttante a guardare oltre. I miei ragazzi sono così. Sono talmente competenti, cazzo, anche se le loro vite stanno crollando a picco. Sono logorati, ma vengono guidati dal loro innato senso di responsabilità americano. C’è un sottofondo di tenerezza che li indirizza, mentre continuano a svolgere i propri lavori in questo modo tanto spietato».

Il modo in cui dipingi le intercettazioni telefoniche di J. Edgar Hoover è estremamente attuale, soprattutto considerando ciò che è accaduto durante l’amministrazione Bush.

«Non è che cerco di incarnare lo spirito dei tempi. E che voglio fare il finto tonto, è davvero così. Lascia che ti parli della mia vita. Ho 61 anni. Mi tengo molto in esercizio, non bevo, non uso droghe, non dormo troppo bene. I miei interessi sono molto ristretti. Ho un grande appartamento, una gran macchina sportiva. Ho smesso di agitarmi nel tentativo di sposarmi. La regola “Sposa le donne e mettile incinte” con me non ha funzionato. La mia esistenza è diventata matriarcale. Chiacchiero al telefono con Helen Knode, la mia ex moglie, con le mie amiche e colleghe. Non ho mai usato un computer. Non ti sto prendendo per il culo, sono tagliato fuori dal mondo».
                               

La tua vita è stata disastrosa per molto tempo. Hai mai pensato di non farcela?

«Cercavo sempre di andarmene e ho avuto un periodo nero. Ma, coglione com’ero, ho sempre avuto fede. E amavo ridere. Potevo sempre mettermi in un angolo, grattarmi le palle, farmi una sega, tentare qualche impresa da deficiente, tipo preparare la cena o lavare i piatti. Avevo bisogno di trovare la mia strada nel mondo, perché mio padre era completamente pazzo. Questa cosa non mi ha mai fatto arrabbiare. Non ho pensato nemmeno una volta cose del tipo: “Non ho una famiglia”. E l’ho sempre desiderata, però».

Questo è sorprendente. Considerando i tuoi libri, è più facile credere che vedi il mondo come un luogo inesorabilmente oscuro.

«No, no, non sono un misantropo. Sono ottimista. Cavolo, penso che gli esseri umani possano evolversi, col tempo. Mi piace la gente, a distanza (ride). Gli individui hanno la meglio sulla loro psiche e possono liberarsi da orribili modi di essere, mentre il mondo intorno a loro va a puttane. Io ho scelto di fare così».

Nel tuo libro di memorie, “La vendetta di Hilliker”, esprimi il tuo rimorso per aver venduto libri sfruttando l’omicidio di tua madre.

«Ero giovane e insensibile. Ma ora mi rendo conto che io e mia madre non siamo una storia d’omicidio. Siamo una storia d’amore. E quella fondamentale che devo raccontare riguarda le donne. So che se avessi applicato consapevolmente il mio talento e le mie capacità mentali al personaggio di mia madre, sarei stato più ricettivo verso le donne in generale».

Nell’autobiografia descrivi anche la tua insaziabile libido per le donne. Ma, sotto altri aspetti, sei molto puritano.

«Certo, le desidero; ma al tempo stesso sono tenero ed esigente. Non credo che il sesso sia squallido in quanto tale: considero depravazione la mercificazione della sessualità e la sua volgarizzazione. Hanno denudato e reso banale qualcosa di sacro e solenne. Abbiamo bisogno di investire nuovamente nel sesso, farlo meno, aspettare l’ottavo appuntamento prima di metterci a fottere e succhiare».

In “Il sangue è randagio” sembri ossessionato da Joan, l’attivista ebrea di sinistra.

«Ho scritto questo libro per una donna di cui ero innamorato, che si chiamava Joan. E’ stata la prima volta in assoluto. Ho iniziato involontariamente a seguire le donne che le somigliavano. Andavo loro dietro per un po’, poi realizzavo che non erano lei».

Ma continuavi a seguirle?

«Te l’ho detto, alla fine realizzavo che non erano lei e riprendevo la mia strada. Un cazzo di tic mentale».

Guardi ancora le donne di nascosto?

«Già. Sì, lo faccio. Nei giorni festivi resto a casa. Vivo in un palazzo déco al confine di Hollywood. Una volta, stavo spiando questa rossa culona: girava gli hamburger, la sua camicetta si alzava e lei non la tirava giù. Si era piegata parecchio, potevo vedere la spallina del reggiseno. Poi un amico mi ha chiamato dicendo: “Che stai facendo, Ellroy? Vieni fuori, dai, stiamo cucinando”. Gli ho risposto: “Non voglio mangiare nulla, sto spiando la vicina. Lasciami in pace, cazzo”».

Ti fa sentire in colpa?

«No».
                
Con la madre Geneva nel 1958, lo stesso anno in cui fu assassinata.

E questo non ti sembra bizzarro?

«Sono tagliato per starmene in stanze buie a parlare al telefono con le donne, e lavorare. Un mio amico ha chiamato di recente per dirmi: “Ehi, abbiamo un biglietto in più per i Fleetwood Mac”. 
Che cazzo? Piuttosto sto a guardare le mosche che scopano in Alabama. Vivo in un vuoto, in modo da poter tornare indietro il più spesso possibile nelle tasche della storia americana».

Cosa ti ha portato all’esaurimento nervoso?

«Per mesi e mesi sono stato innamorato di una donna sposata che non avrebbe mai lasciato suo marito. Ero semplicemente circondato da quell’enorme vuoto cosmico del cazzo. Si potrebbe dire che è il problema di non poter stare con la persona che ami. Ma più di ogni altra cosa, era la sensazione di trovarsi isolato nell’universo e sapere che morirai».

Pensavi stesse arrivando il momento?

«Ho proprio visto le stronzate di una vita intera fluire fuori dalle mie mani. Stress fisico, sovraffaticamento, l’inconsapevolezza che sgretola, la maleducazione, l’incoscienza. Ho consumato davvero un’eccessiva energia mentale, per troppi anni. Soffrivo di atroci attacchi di panico e di orribili periodi d’insonnia. Ero partito del tutto. Le mie emozioni erano fuori controllo, lo schifo mi rombava dentro a 1000 giri al minuto secondo. Non riuscivo a fermare nulla. E non ero più in grado di controllare niente tramite la scrittura. E’ stato senza dubbio il periodo peggiore della mia vita».

Sei finito in un istituto?

«In più di uno. Ho passato una notte al reparto psichiatrico a Monterey, un’altra in quello di Tucson. Nessuno mi ha fatto del male, ma ero bombardato di farmaci, che posso dirti? Prima di rendermene conto, ero di nuovo al Beverly Wilshire Hotel che mi masturbavo davanti alle foto di Anne Sexton vestita! Una poetessa morta! Ecco quanto sono rovinato!» (Ride).

Hai imparato qualcosa impazzendo?

«Ho capito molto grazie a questo esaurimento. Voglio scrivere libri grandiosi ed essere buono con la gente, oltre che promuovermi senza vergogna. Ma non c’è niente di peggio di una persona ambiziosa priva di controllo. Uno che scoccia tutti, in modo meschino. Nessuno vorrebbe mai avere a che fare con un tipo così».


(di Sean Woods, Rolling Stone Usa, 2009)

domenica 26 maggio 2013

Gonzai.com: Daft Punk, Ritorno al passato




Ci siamo: Random Access Memories arriva finalmente sugli scaffali. O almeno ciò che ne resta, giacché l’attualità ci ricorda solo quello a cui internet ha dato risalto da tempo. Da una settimana l’album è disponibile sulla rete: inizialmente con piccoli samples, per essere poi reso rapidamente pubblico sulla piattaforma di iTunes. Certo, l’entourage dei Daft Punk aveva anticipato per bene la cosa, un’operazione di promozione a raffica. Da circa una settimana quindi tutti conoscono il contenuto del disco più atteso dell’anno, tutti hanno potuto parlarne, esprimere la loro opinione. E così facendo, partecipare alla più formidabile operazione di comunicazione mai condotta, in questi ultimi anni, nel campo della musica contemporanea. Quindi, una domanda è sorta spontanea: c’era davvero bisogno che vi dicessimo cosa pensiamo di questo quarto album? La risposta è altrettanto spontanea: no.



Di sicuro sarete delusi: nel pezzo che seguirà, non leggerete niente che possa darvi la minima idea di ciò che noi pensiamo di Random Access Memories. Non una sola riga su questi tredici pezzi che abbiamo ascoltato come un tutt’uno e che gli specialisti, così come i neofiti, già vivisezionano ed analizzano. Questo per una ragione molto semplice: “RAM” (per farla breve, senza che nessuno ci veda un’allusione all’eponimo album di Paul McCartney) è un disco che appartiene già a tutti. Per la sua stessa natura, a causa del contesto, della personalità degli autori e dell’attesa che ha suscitato, fa già parte di quei totem universali sui quali ogni forma di critica è, infine, inutile. Il nostro avviso? Chi se ne frega. L’opinione dei colleghi parigini, americani, marsupiali? Altrettanto. Volendo parafrasare una celebre battuta estratta da non so quale western virile: “I pareri sull’album dei Daft Punk sono come i buchi del culo: tutti ne hanno uno”. Del resto, come potrebbero i giornalisti, dopo appena qualche giorno, pontificare su questo blockbuster che è stato pensato, minuziosamente elaborato, concepito durante cinque lunghissimi anni? È la prima trappola nella quale cadere ed è, ovviamente, facilissimo: pronunciarsi in maniera assoluta su questo disco, lungo e cosparso di trabocchetti, in un’epoca in cui tutto ci invita alla precipitazione. C’è dell’altro, che si ha un po’ la tendenza a occultare: l’opinione espressa da un media altro non è che l’opinione di un’unica persona, quella che la firma. Succede che in certi casi, più soggetti alla polemica, le opinioni non sono condivise, o addirittura sono contrarie: ci sono, di conseguenza, tante opinioni sul nuovo disco dei Daft Punk quanti giornalisti. In ordine sparso: quelli che lo adorano, quelli che lo detestano, quelli che pensano che erano meglio prima, quelli che ci ritrovano qualcosa, qua e là...poi ci sono quelli che... chi se ne frega, di nuovo...



Ma allora, perchè consacrare un pezzo così lungo all’uscita di “RAM”? Beh, semplicemente perchè ci sono mille cose da dire around the RAM. 

Come a proposito dei Daft Punk, del resto: un argomento senza fine, in fondo. Argomento che non è soltanto una questione di musica, nel senso di materia sonora grezza, piuttosto di come riuscire a farne un mezzo capace di veicolare il sogno, ovunque sul pianeta. Daft Punk è un’idea, un’ideale, quasi: quello di un’opera totale che si piazza all’incrocio tra musica e cinema, tra underground e pop, tra la nostalgia per certi anni d’oro (tutti relativi) e l’ossessione per le tecniche di comunicazione più moderne. A questi livelli, non è più soltanto Musica nel senso stretto del termine: è strategia. I Daft Punk hanno ormai abbandonato da parecchio tempo il campo dell’avanguardia per occupare quello, molto più impattante, dell’entertainment. Questa mutazione è stata progressiva: in retrospettiva, il suo anno zero, coincide con l’uscita di “Discovery” (2001). L’odissea un po’ fanfarona comincia precisamente in quel momento, quando Thomas e Guy-Manuel decidono di comparire per la prima volta, al fine di creare rumore attorno all’uscita dell’album, col volto coperto da due caschi robotico-futuristici. Fino a quel momento, pochissimi conoscevano il loro viso, dissimulati com’erano dietro al culto dell’anonimato, così caro ai loro modelli, padri fondatori della techno. Paradossalmente, mostrandosi così mascherati, guadagnarono una fisionomia, anzichè perderla: quella di mutanti che non smetteranno di mescolare le piste tra umanità e tecnologia (filo conduttore della loro opera omnia), la fisionomia di supereroi che concentrano i loro poteri su di un unico obiettivo: conquistare il pianeta. Fino a quel momento, non si tratta di un cartone animato creato dal disegnatore di Albator (il figlio di Capitan Harlock), si tratta ancora di realtà. Una realtà che diventerà altrettanto rappresentativa e riconoscibile come con certi marchi-icona: Disney, Apple o Coca Cola.

Diciamocelo chiaramente: quella dei caschi, è stata la migliore idea che i due abbiano mai avuto. 

Innanzitutto perchè indossandoli sono diventati istantaneamente riconoscibili da chiunque. Nell’immaginario collettivo, due tizi con un casco, sono i Daft Punk. È come un logo. Un robot qualsiasi non avrà mai l’impatto di questi due androidi (a meno che non parliamo di D2-R2 o Z-6PO, e nessun altro forse..). Inoltre, con questa trovata, i Daft Punk riescono a conciliare l’inconciliabile: ovvero celebrità e anonimato. Chi altro, nella costellazione dello star system, può raggiungere milioni di persone e allo stesso tempo poter andare a fare la spesa in tutta tranquillità? E chissà quanti fan si sono ritrovati a parlare con loro o a camminare al loro fianco senza sapere di essere ad un passo dagli Dei? E ovviamente, più di una teoria è scaturita a partire da questo stato schizofrenico, comodo ma aleatorio allo stesso tempo, perchè basato su un’incognita permanente: mai Daft Punk, sono davvero i Daft Punk? Esistono davvero? Esistono ancora? Rinchiusi nell’alto della loro piramide di luce, in posa per un set fotografico, digitalizzati in un videogioco? La sola certezza assoluta, è che ci sono due cervelli, dietro a quei caschi. Di un’intelligenza considerevole. Inoltre, e cominciamo a rendercene conto soltanto ora, l’aspetto più geniale di quest’idea dei caschi è che sono perfettamente refrattari allo scorrere del tempo: insomma, i Daft Punk non invecchieranno mai. Aldilà del denaro, della gloria e della posterità, è possibile immaginare qualsiasi altra star, che finisce immancabilmente per farsi liftare come un rovescio sulla terra battuta, poter fregarsene così altamente dello scorrere del tempo? A conti fatti, in vent’anni di carriera, i Daft Punk non hanno una sola ruga, non hanno borse sotto agli occhi, zero calvizie (una buona lega metallica non ha bisogno di shampoo anti-caduta). Tra trent’anni, potranno ancora tirare fuori un album retro-futurista, improvvisando un concerto con quei vecchiacci di Justice, Strokes, Kavinsky o Pete Doherty (che sarà in un polmone d’acciaio), celebrando quegli anni in cui la French Touch riciclava la French Touch, il Rock riciclava il Rock, prima che i veri robots prendano il controllo, eleggendo i Daft Punk a modello assoluto, matrice di tutte le tendenze a venire in materia di revival computerizzato. Nel mentre, generazioni e generazioni di nuovi fans saranno nate e senz’altro noi saremo ancora lì, magari ancora non per molto, comodamente allettati in una casa di riposo dove saranno diffuse le immagini delle serie TV degli anni 2000, cullati dal suono di un buon vecchio Harder, Better, Faster, Stronger, prima dell’arresto cardiaco che ci attende. Insomma, siamo ancora all’inizio.

Pensavate che “RAM”, con i suoi mentori e le sue referenze agli anni settanta potesse essere il loro canto del cigno?


Vi sbagliate. Questo disco marca il lancio di una terza, decisiva tappa nella carriera dei Daft Punk e accompagna naturalmente la nascita di una terza categoria di fans. Fino ad oggi, potevamo in effetti distinguerne due, ognuna delle quali non necessariamente incompatibile con l’altra. Da una parte, i fans della prima ora: che si tratti dei puristi che hanno avuto la fortuna di vedere il duo nei raves della metà degli anni novanta o di un più largo pubblico che li ha scoperti con la follia del video di Around the world, tutti concordano che “Homework”, il primo album che fece l’effetto di una bomba, sia stato il big bang dell’elettronica francese, la cui deflagrazione continua ancor oggi a nutrire e contaminare numerosissime produzioni contemporanee. Dall’altra parte, i fans della loro opera, intesa nella sua globalità: quelli che si sono incendiati all’uscita di “Discovery”, album dal suono kitsch, dagli universi visionari, dalla nostalgia galoppante per gli anni ’80, che seguiranno ogni epopea del tandem negli anni seguenti, estèti, gente qualunque, festaioli da sabato sera, giovani studenti, quadri dirigenziali, insomma, quei tutti che fanno chiunque.
2013: annunciato a sorpresa ad inizio anno, “RAM”, che nessuno si aspettava, esce accompagnato da una campagna marketing sbalorditiva e rivela che la voglia di Daft Punk non si è mai assopita. Al contrario, è andata crescendo. In dieci anni (se ci basiamo più o meno su “Discovery”) è apparsa una nuova generazione di fans: giovanissimi, ascoltano la musica sui cellulari, comunicano coi social networks e costruiscono la loro cultura musicale quotidianamente su Youtube. È nata talmente dopo i Daft Punk che non ha avuto il tempo di crescere coi Daft Punk, ma si rende conto che la loro musica è una porta di Sesamo che può permetterle non solo di giustificare ciò che già ascolta (electro, R&B, stronzate varie) ma soprattutto di aprire tutto un insieme di vie verso il buon suono. Non hanno potuto apprezzare “Homework”, impegnati con il biberon, “Discovery”, distratti dalla ricreazione, ma faranno un trionfo di “RAM”, la loro “Sgt Thriller’s Nevermind Side of the moon”.
Riveniamo dunque su quest’oggetto del desiderio, già ora l’evento musicale dell’anno, giacché il più popolare. Si tratta, come detto, di un disco realizzato in cinque anni, all’antica, con musicisti in studio e (ufficialmente) nessuna macchina, almeno apparente, registrato tra Los Angeles e New York, con special guest di ieri (Nile Rodgers, Giorgio Moroder..) e di oggi (Pharrel Williams, Julien Casablancas..), con un budget totale che resterà segreto di Stato. Prima ancora che il disco appaia in rete, c’era già questa certezza: “RAM” sarebbe stato l’anti “Homework”. Fino ad oggi, i Daft Punk si erano sempre rimessi in questione ad ogni uscita di un nuovo album ma mai come in questa occasione avevano preso le distanze da ciò che aveva loro permesso di esistere, di acquistare legittimità. La forza di “Homework” era il suo geniale taglio amatoriale. Ciò che identifica oggi “RAM” è il suo professionalismo quasi ostentato. Essenzialmente, più niente deve, d’ora in avanti, eccedere, nella musica come nella maniera di venderla. Più che i suoi modelli storici, di cui è meglio tacere i nomi per preservarli da eventuali torti, “RAM” è senza dubbio il primo prototipo di disco “perfetto” ad essere mai stato concepito. Perfetto poichè totalmente eterogeneo e quindi suscettibile di avvicinarsi, con un pezzo o una altro, ad ogni membro della famiglia. Immaginando uno spot delirante, sarebbe qualcosa del genere: “L’ultimo dei Daft Punk? Un disco per i piccoli e per i grandi, da consumare senza moderazione. Provatelo!” Radio, TV, Web: tutti i canali tradizionali di ieri e di oggi ne sarebbero invasi. Da buoni ascoltatori che siete, vi sarete senza dubbio posti la domanda del perchè, oltre alle due referenze più palesi, la disco Moroderiana e il film Phantom of the Paradise e a qualche ospitata ben selezionata, i Daft Punk si sono divertiti a riempire il disco di una serie di piccole, accattivanti cosucce. 

Qui sta il paradosso della storia: tentando di ritornare ad una certa forma di suono “caldo”, organico, quasi carnale, i Daft Punk non sono mai apparsi tanto inumani. 


“Humans after all”? Bisognava superare questo concetto. Stabilirsi infine e definitivamente come entità extraterrestre. Ovviamente tutti, o quasi, hanno seguito. A cominciare dai giornalisti che hanno assunto il ruolo delle agenzie di comunicazione in una campagna: come un organo ufficiale di propaganda. In Francia, a sorpresa, è stato Manoeuvre a sfoderare per primo una copertina di Rock&Folk coi Daft Punk. Hanno visto in “RAM” un disco perfettamente omogeneo (ah sì?), futurista da morire (ci siete ancora? Mi ricevete?) e così estremo nel prendersi rischi da poterne forse patire al momento dell’uscita (ma dai..). Delle lunghe interviste sono state accordate ai media generalisti più importanti e quelli che non hanno avuto questo favore hanno, al culmine dell’eccitazione, riempito pagine e pagine del tema più caliente del momento: alcuni lodando il disco prima dell’uscita, altri dando, con più moderazione, la parola agli esperti, altri ancora mettendo il duo sugli allori senza per altro avere granché da dire. E non stiamo considerando ciò che ne ha detto il web o semplicemente la gente. Col terreno così ben spianato, ufficialmente legittimato dal “i robots stanno tornando”, i Daft Punk possono oggi tranquillamente far atterrare la loro navetta sul pianeta Terra e contemplarne il paesaggio. Ovunque i fans vogliono avvicinarsi ai loro idoli immateriali, venuti da un mondo dove non esistono miseria, maltempo o conflitti. Dalla capsula fuoriesce l’oggetto della ricerca del Sacro Graal, un pezzo di plastica o di metallo, poco importa la forma che avrà, ma un pezzo di tecnologia di cui abbiamo bisogno e finchè ne resta, un pezzo della memoria del tempo passato e felice, così prezioso, qualcosa che ci permetta di fuggire, di crederci, dobbiamo sforzarci a crederci. Plastica o metallo, non sarà mai peggio della realtà che ci circonda. 
“Popolo della Terra, possa questo disco portarvi la luce, un’altra visione del mondo, quel mondo di libertà, giustizia e pace al quale voi tutti aspirate." Possa salvarvi da ogni tentazione, da tutti i mali che vi affliggono e mostrarvi la retta via. Possa mostrarvi tutto ciò che l’ha modellato, Chic, Supertramp, Giorgio Moroder, Steely Don, Kool & The Gang, Alan Parson Project, 10 cc, Dennis Wilson, Kraftwerk, Roxy Music! Crescerete, brucerete le tappe, sfonderete i muri e non sarete mai più soli. Allora un giorno, forse, dopo aver assimilato le radici del mainstream che ha predisposto le vostre vite, vi rivolgerete a coloro che in quello stesso tempo hanno trasmesso un messaggio di resistenza. Perchè ritornerà il tempo della rivolta, popolo della Terra!”


C’erano una volta, tanto tempo fa, da una galassia lontana, due giovani uomini che si davano da fare per scoprire nuove vie nella musica.

Erano cresciuti con la cultura Pop, avevano preso una sberla sorprendente con l’avvento dell' House e della Techno e avevano, senz’altro per caso, avuto accesso a queste nuove macchine che, di lì a poco, avrebbero riempito le stanze dei loro compagni di classe e dei loro successori. Avevano talento, senza dubbio, talento che hanno utilizzato per cambiare i codici di questa musica sintetica e futuristica che rinviava alle sue radici nere. Il minerale che ne estraevano era grezzo, incandescente, denso, quasi radioattivo. Ben presto, esposto alla luce del sole, si è irradiato dappertutto con il suo splendore, come un enorme diamante ben intagliato. Le conseguenze furono importanti, per tutti coloro che subirono l'esposizione, ma anche per i due uomini che l’avevano messo a nudo. Lentamente ma con sicurezza, quel minerale ha compiuto la sua opera: cominciò inebriando chi ne entrava in contatto e ne faceva un uso indirizzato al divertimento di massa. Forse non era la miglior cosa da fare: tutti questi bagni con solventi commerciali potevano diluirlo. Ma il suo effetto si fece progressivamente più intenso e provocò delle mutazioni sui due uomini che già non erano più tali: il loro aspetto esteriore evolveva, come le loro attività, vieppiù divergenti da ciò a cui la natura li aveva inizialmente predestinati. Avanzavano verso un altrove, certo, ma non perdevano in fondo in profondità ciò che stavano guadagnando in polivalenza? Il problema è che si indebolivano: ben sfruttato da altri, quel minerale rinvigoriva. Non più sprigionato da loro due, diventò presto la palla di neve che ingrandisce e inghiotte la vallata. Allora, quando il tempo finì di risucchiare i poteri ai nostri supereroi, che ne mantenevano le forme ma non la sostanza, ridiventarono dei semplici mortali. Invitando alla loro tavola coloro che avevano in altri tempi conosciuto la stessa sorte, immortalando la scena, il banchetto, su di un pezzo di memoria vivente che riguardava soltanto quella dei loro prestigiosi ospiti.


E nel clamore generale, non abbiamo che due voci di robots.


(traduzione: Carlo Ligas. L'articolo originale )