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lunedì 5 maggio 2014

James Salter, The art of fiction no. 133 - The Paris Review, un'intervista


James Salter è un narratore consumato. I suoi modi sono precisi ed eleganti: si passa le mani tra i capelli grigi, ride come un fanciullo e ha uno splendido accento di New York. A sessantasette anni ha la compostezza di un ex-militare. Racconta aneddoti facilmente, appassionatamente, ma conserva anche un alone di riservatezza. C'è una zona di privacy in lui che non si può violare.

Salter (James Horowitz) è nato nel 1925 ed è cresciuto a New York City. Si è laureato a West Point nel 1945 e fu assegnato al US Army Air Force come pilota. Ha servito gli Stati Uniti per dodici anni nel Pacifico, in Europa e Corea, dove ha volato per oltre un centinaio di missioni di combattimento come pilota di caccia. Si dimise dalla Air Force dopo che, nel 1957, uscì il suo primo romanzo, e si stabilì a Grand View-on-Hudson, a nord di New York. Da allora si è guadagnato da vivere come scrittore. Da un precedente matrimonio ha avuto tre figli, un maschio e due femmine. Adesso vive con la scrittrice Kay Eldredge e il loro figlio di otto anni, Theo. Dividono il loro tempo tra Aspen, Colorado e Bridgehampton, Long Island.

Salter ha pubblicato cinque romanzi: The Hunters (1957), The Arm of Flesh (1961), A Sport and a Pastime (1967), Light Years (1975), and Solo Faces (1979). Ha ricevuto un premio dalla American Academy e Institute of Arts and Letters nel 1982. Cinque dei suoi racconti sono apparsi in raccolte di O. Henry e uno in Best American Short Stories. La sua collezione Dusk & Other Stories (1988) ha ricevuto il PEN / Faulkner Award.

Nel mese di agosto del 1992, durante i quattro giorni che ho visitato Bridgehampton, è piovuto continuamente, ma a malapena mi sono reso conto del clima; il nocciolo di quel poco tempo era sedersi al tavolo della sala da pranzo, cercare di formulare domande interessanti e soprattutto ascoltare le risposte espresse in maniera molto accurata da Salter. Anche nelle giornate grigie, la tradizionale casa a due piani di scandole in cedro, con le sue numerose porte e finestre francesi, sembrava immersa nella luce. Di giorno abbiamo bevuto tè freddo, e un Martini, preparato squisitamente, ogni notte (Salter ad un certo punto ha calcolato di aver bevuto 8700 Martini nella sua vita). Successivamente, la piccola compagnia si riuniva a cena dove si consumavano molte bottiglie di vino; l'intervistatore gironzolando esaminava i menù incorniciati sul muro, l'incisione di due bagnanti di Andrè De Segonzac e la pittura in miniatura del paesaggio vicino alla casa, di Sheridan Lord.

Salter scrive in uno studio al secondo piano, una piccola stanza ariosa con un soffitto a punta e una finestra a mezza luna. La sua scrivania è un grande tavolo di campagna in legno di pino vecchio. Ovunque ci sono segni rivelatori del memoir su cui ha lavorato negli ultimi anni; le buste da lettera scarabocchiate, i pezzi di carta interamente ricoperti dalla sua grafia minuta. La mattina che mi ha lasciato solo in studio, ho trovato le copie consunte dell'autobiografia di Nabokov, Speak, Memory e quella di Isak Dinesen, Out of Africa, poggiati su una mappa della Francia con i luoghi segnati da un cerchio. Ho scoperto una cartina aeronautica, un fascio di una dozzina di pagine estremamente dettagliate con note in inchiostro rosso, blu e nero, un giornale dal 1955 con la frase scritta sul davanti: "Ogni anno sembra il più terribile." Sul piccolo tavolo di legno accanto alla scrivania giaceva un gruppo di cahiers, piccoli bloc notes numerati, con morbide copertine grigie, ciascuno contenente un possibile capitolo del libro di memorie. Queste cartelle di lavoro fatte in casa sono molto dense, con le istruzioni e gli appunti dell'autore a se stesso, citazioni di altri scrittori, frammenti che sono scritti con un codice di colore a seconda del luogo in cui potrebbero essere utilizzati. "La vita passa nelle pagine se passa in qualsiasi cosa" ha scritto Salter, e leggere queste note riconferma quello che si sapeva da sempre: quanto meticolosamente ogni sua pagina sia scritta, quanto scrupolosamente ognuno dei suoi capitoli sia costruito. Tutto viene controllato e ricontrollato, scritto e rivisto e poi di nuovo rivisto fino a quando i bagliori della prosa sono raggianti e indistruttibili.

Scendendo le scale e superando la fotografia di Isaac Babel, ancora una volta, istintivamente, mi è cresciuto l'entusiasmo per l'autobiografia di Salter. Lui esita: "Per lo scrittore è più appropriata la speranza dell'esaltazione."




INTERVISTATORE Come scrivi?

SALTER Scrivo a mano. Sono abituato a questa prossimità, a questa sensazione fisica di scrittura. Poi successivamente mi siedo e batto a macchina. E poi riscrivo, correggo, riscrivo, e vado avanti finchè non è finito. Molte volte mi è stato dimostrato che vi è una certa inefficienza in questo processo, ma trovo che la facilità di spostamento di un paragrafo non è proprio tutto quello che mi serve. Ho bisogno della possibilità di scrivere ancora una volta questa frase, per pronunciarla a me stesso ancora una volta, guardare il paragrafo ancora una volta, ed effettivamente rilevare attraverso l'intero testo, riga per riga, con molta attenzione, la scrittura eccedente. Ci può essere anche una sorta di impulso mimetico in questo, scrivendo come io solitamente faccio, per così dire.

INTERVISTATORE Quindi è fondamentale il processo di revisione? 

SALTER Odio la prima stesura, è inesatta, espressione inadeguata delle cose. Tutta la gioia della scrittura deriva dalla possibilità di ritornarci e levigarla, regolarla bene, in un modo o nell'altro. 

INTERVISTATORE Revisioni mentre scrivi? 

SALTER Dipende, ma normalmente, no. Scrivo grandi sezioni e poi le faccio sedimentare. È pericoloso non lasciare che le cose invecchino, e se qualcosa è veramente buono, lo puoi accantonare per un mese. 

INTERVISTATORE Pensi alla frase o al paragrafo come unità organizzativa? 

SALTER Di solito mi basta procedere una frase alla volta. Trovo che la parte più difficile della scrittura sia di ottenere già inizialmente quello che avevi in mente. Perchè ciò che hai scritto è di solito così terribile che diventa sconfortante, non si vuole andare avanti. Questo è quello che penso dello scoraggiamento che deriva dal vedere ciò che hai fatto. Questo è tutto quello che sai fare? 

INTERVISTATORE Dai un sacco di attenzione al peso e al carattere delle singole parole. 

SALTER Sono un frotteur (da Frotteurismo, sfregatore sessuale ndt), qualcuno che ama strofinare le parole in mano, girarci intorno e soppesarle, chiedersi se è davvero la migliore parola possibile. Ritengo che la parola, in questa frase, abbia un certo potenziale elettrico? Smuove qualcosa? D'altro canto troppa elettricità renderà crespi i capelli del vostro lettore. C'è una ricerca di ritmo. Voglio frasi lunghe e poi brevi, ogni scrittore dovrebbe conoscere questa musica. E' necessario sviluppare una certa semplicità di comunicazione e rendere la vostra scrittura gradevole da leggere.

INTERVISTATORE Trovo il tuo stile di prosa del tutto caratteristico: bellissimo e implacabile. Come lo hai ottenuto?

SALTER Mi piace scrivere. Sono commosso mentre scrivo. Non si può analizzare oltre.

INTERVISTATORE Hai bisogno di molta solitudine per scrivere? 

SALTER Completa solitudine. Anche se ho preso appunti per le cose, scritto sinossi, sulle panchine del parco o sui sedili del treno. Per la composizione completa ho bisogno di solitudine assoluta, preferibilmente in una casa vuota. 

INTERVISTATORE Il viaggio aiuta la tua scrittura? 

SALTER È fondamentale per me. Non vi è alcuna situazione come la strada aperta, da percorrere, e vedere cose completamente nuove. Sono abituato a viaggiare. In particolare non è una questione di conoscere o di vedere facce sconosciute, o sentire storie inedite, ma di guardare la vita in un modo diverso. È il sipario che si apre su un altro atto. Non sono il primo a pensare che la vera occupazione dello scrittore sia viaggiare in generale. In un certo senso, uno scrittore è un esiliato, un outsider, che sta sempre registrando le cose che gli capitano attorno, ed è parte della sua vita mantenersi in una sorta di movimento. Viaggiare è naturale. Inoltre, molti uomini dei tempi antichi sono morti sulla strada: è un'immagine forte. I re d'Arabia, non sono stati sepolti in grandi e magnificenti tombe. Sono stati sepolti sul ciglio della strada, sotto normali pietre. Tempo fa ho visto una cosa in Inghilterra che mi ha colpito molto. Stavo andando a visitare qualcuno in un piccolo villaggio, andavo a piedi dalla stazione ferroviaria attraverso i campi, e ho visto un uomo vecchio, forse sulla settantina, con uno zaino sulle spalle. Sembrava un vagabondo, dignitoso, un po' logoro, che marciava con la sua compagnia: un cane che trotterellava alle calcagna. Pensai che fosse un'immagine finale di una vita. Un viaggio continuo.
   

INTERVISTATORE Una volta hai detto che la parola fiction è una parola cruda. Perchè?

SALTER L'idea che tutto possa essere creato dal nulla e queste cose inventate siano classificate come fiction e che l'altra scrittura, presumibilmente non confezionata ad arte, è chiamata saggistica, mi sembra una separazione molto arbitraria delle cose. Sappiamo che la maggior parte dei grandi romanzi e racconti non vengano da eventi totalmente inventati, ma dall'esperienza e dall'osservazione minuziosa. È un'ingiustizia dire che sono completamente immaginati. A volte mi dico che non mi invento nulla, ovviamente non è vero. Ma di solito sono disinteressato agli scrittori che dicono che tutto nasca dall'immaginazione. Preferirei essere in una stanza con qualcuno che mi sta raccontando la storia della sua vita, che può essere enfatica o menzognera, ma in sostanza voglio sentire la storia reale.

INTERVISTATORE Stai dicendo che tutto è sempre dettato dalla Vita? 

SALTER Quasi sempre. La scrittura non è una scienza, e naturalmente ci sono eccezioni, ma ogni scrittore che conosco e ammiro, ha essenzialmente tratto materiale dalla propria vita o dalla sua conoscenza delle cose della vita. Un grande dialogo, per esempio, è molto difficile da inventare. Quasi tutti i grandi libri sono abitati da persone reali. 

INTERVISTATORE Definiresti impressionista il tuo stile di prosa? 

SALTER Per essere tecnico, impressionismo significa che gli elementi esterni sono ritratti con ricchezza di colori e con una rottura netta rispetto al classicismo, giusto? Qualcuno ha detto che scrivo nel modo in cui Sargent dipinse. Sargent ha basato il suo stile sull'osservazione diretta e l'uso parsimonioso della vernice, che sì, è vicino al mio metodo. 

INTERVISTATORE Pensi che la tua sensibilità sia francese? 

SALTER Non particolarmente. Ned Rorem ha detto così. Mi piace la Francia, e mi piace il francese, ma no, non è esatto. 

INTERVISTATORE Colette è una figura che ha significato qualcosa per te? 

SALTER Oh, sì. Non mi ricordo quando la scoprii. Probabilmente attraverso Robert Phelps, anche se devo aver letto pezzi qua e là. Phelps è stato un grande studioso di Colette: ha pubblicato una mezza dozzina di libri su di lei in America, tra cui un libro che credo sia sublime, Earthly Paradise. È un libro meraviglioso. Ne avevo una copia, dedicatami da lui. Mia figlia più grande è morta in un incidente, e l'ho sepolta con lei, perchè lei l'amava molto. Colette è una scrittrice di cui si dovrebbe sapere di più. Ammiro i francesi per la loro mancanza di sentimentalismo, e lei, in particolare, è ammirevole in quel modo. Ha calore, non è una scrittrice fredda, ma non è sentimentale. Qualcuno ha detto che si dovrebbe avere uguale quantità di sentimento nella scrittura a quella che Dio ha nel considerare la Terra. Lei mette in risalto questo sentire. 

INTERVISTATORE Sembra che una volta Andrè Gide sia stato di grande ispirazione per te.

SALTER Lo è stato, ma non ricordo esattamente perchè. Ho letto i suoi diari, quando ho iniziato a scrivere sul serio, e poi ho letto, e ne sono rimasto molto impressionato, La porta stretta. Avevo un editor di Harper Brothers, Evan Thomas, che mi ha chiesto quali autori mi interessavano e gli ho risposto che ero impressionato da Gide. Uno sguardo di smarrimento e sgomento attraversò il suo volto, come se avessi detto Epitteto, e aggiunse: Bene, quale suo libro stai leggendo? Ho risposto: La porta stretta. E' semplicemente un libro formidabile. L'hai letto? Mi disse di no e potrei dire dal tono della sua voce che non fosse proprio il genere di cose che avesse letto o che approvasse la mia lettura. La mia impressione di Gide, guardando indietro, è di uno scrittore che non indulgeva nel sentimentale e che fosse molto meticoloso. Direi che le mie attenzioni non sono state attratte dalla persona sbagliata. 

INTERVISTATORE Ci sono altri scrittori francesi che hanno particolarmente influenzato? 

SALTER Ne ho letto molti. Tra coloro che non sono probabilmente molto conosciuti direi Henry de Montherlant, particolarmente interessante. Celine invece è uno scrittore abbagliante. (...) Stiamo parlando di un personaggio dubbio, che ora è considerato, credo giustamente, come uno dei due grandi scrittori del secolo in Francia. È una candidatura perfettamente valida. Anche il suo ultimo libro, Castle to Castle è enorme. Deve essere stato scritto nelle più difficili circostanze immaginabili. Quando si legge qualcosa di buono, l'idea di guardare la televisione, andare al cinema, o anche la lettura di un giornale non è abbastanza interessante per noi. Quello che stiamo leggendo è più seducente di tutto questo. Celine ha questo dono.

INTERVISTATORE Cosa ne pensi di Hemingway? 

SALTER Penso di Hemingway le stesse cose che molti pensano su Celine. Lui è uno scrittore potente, ma personalmente trovo il suo carattere sgradevole. Conosco un sacco di persone che l'hanno conosciuto, e tutti dicono che era meraviglioso. Io non penso così. Una bella cosa della vita è che si può riorganizzare il proprio pantheon e rivalutare certe figure di cui siete insoddisfatti. Non fa male a nessuno. Così l'ho trasferito verso il basso; ora sta raccogliendo polvere in cantina. 

INTERVISTATORE Che dire di Henry Miller? 

SALTER Scrittore glorioso. Sarei molto deluso di un futuro che ci dica, erroneamente, grandi cose di scrittori che non valgono, e che invece non tratti lui con tutte le dovute maniere. Lo trovo irresistibile. Non ci sono distrazioni quando si sta leggendo Miller per la prima volta. Anche se non credo che si dovrebbe leggere tutti i suoi libri: molti sono ripetitivi. Una volta che sei immerso in Sexus, Plexus, Nexus e Black Spring, barcolli in giro come se i personaggi ti colpissero con dei quotidiani arrotolati, come se tu fossi un cane. Ma quando leggi Tropico del Cancro, stai leggendo un libro meraviglioso. Dentro c'è vita, irriverenza, spirito. Non scrivo qualcosa di simile al suo stile. Non posso. Dovrei essere Miller, questo è ciò che lo rende magnifico. Mi sembra che quando lo si legga, quello che si sta realmente ascoltando è la voce dello scrittore. Questo è più importante di qualsiasi altra cosa. Ed è la voce di Miller, naturalmente, la cosa che ti fa attardare al suo fianco, in un bar, fino a quando l'orario di chiusura è passato da un pezzo, e si vuole assolutamente proseguire, tornare a casa con lui e continuare a parlare.

INTERVISTATORE Cosa ne pensi della catalogazione di Shaw, quella per cui tu eri uno scrittore lirico e lui uno narrativo? 

SALTER È stato piuttosto preciso. Ho cercato di fare meno affidamento sul lirismo, perchè, essendo stato pizzicato da un commento immeritato, sono giunto alla conclusione che avrei dovuto snellire un po', forse distillare un po' di più. Questo ha l'effetto di dare alla lirica delle cose maggiore potenza.

INTERVISTATORE Lei ha iniziato a scrivere nella metà degli anni Trenta. Ha iniziato tardi, non è vero? 

SALTER Beh, ho cominciato a pubblicare nella metà degli anni Trenta, ma avevo incominciato a scrivere da prima.

INTERVISTATORE Quando hai iniziato? 

SALTER Ho scritto da studente, poi sono stato in grado di dedicarci un po' di tempo quando ero nella Air Force. Nel 1946 e nel 1947 ho scritto un romanzo, ed era terribile. Non me ne rendevo conto all'epoca. Harper Brothers lo rifiutò, ma dissero che comunque sarebbero stati interessati a vedere qualsiasi altra cosa avessi scritto successivamente. Questo è stato abbastanza come incoraggiamento. Volevo scrivere un altro libro in ogni caso, e quando l'ho fatto, gliel'ho proposto, e hanno accettato. Era Hunters, la prima cosa che avessi mai pubblicato. 

INTERVISTATORE Che cosa ti ha spinto a scrivere quel primo romanzo? 

SALTER È stato un impulso che ho sempre avuto. Non sapevo che cosa mi facesse scrivere all'inizio, ma poi ho capito. E' semplice: chi scrive, custodisce e protegge. Suppongo che fosse questo, anche se non sono in grado di dirlo perfettamente. 

INTERVISTATORE Cosa pensi ora di quei primi due libri? 

SALTER Giovinezza. 

INTERVISTATORE Hai parlato delle tue esperienze militari come i grandi giorni della giovinezza. Deve essere stato difficile dimettersi nel 1957 per diventare completamente ed esclusivamente uno scrittore. 

SALTER Sono riuscito a dimenticare quanto fosse stato difficile. Mi ricordo quando appresi che le mie dimissioni erano state accettate. Eravamo a Washington, con un bambino, in un appartamento preso in prestito che si affacciava sulla città. Era notte, e non si è diffusa in me la stessa emozione di quando vedi, sotto di te, Parigi per la prima volta. Tutto quello che era stato, per me non significava più nulla: il Pentagono, Georgetown, volare fuori Andrews, tutto quello che avevo fatto in vita fino a quel momento, era stato cancellato. Mi sentivo assolutamente infelice, miserabile: un fallimento. 

INTERVISTATORE Ho sentito che hai detto "scrivere o perire." 

SALTER Sì, era uno o l'altro. Volevo essere uno scrittore, ma d'altra parte avevo dato tutto all'aereonautica. Non ero un ufficiale ribelle. Avevo dato tutto, e molto avevo avuto in cambio. E' stato proprio come un divorzio. L'ordinamento del divorzio, dove due persone oneste semplicemente non possono andare d'accordo tra di loro; non è una questione che uno dei due sia in difetto; solo che non si può continuare. E se sono stati sposati per un po' e hanno figli e tutto il resto, si è ancora coinvolti: è difficile. Ecco come mi sentivo. Sapevo che avrei dovuto divorziare, ma non ero felice. Ero molto preoccupato per il futuro, cosa ci fosse oltre.

INTERVISTATORE "Quella persona nell'esercito, che non ero io", ha scritto John Cheever dopo la guerra, ma tu non hai la stessa sensazione.

SALTER No, come molti prigionieri, si arriva ad amare la prigione e gli altri detenuti. Cheever semplicemente non aveva pagato abbastanza per avere quella sensazione.


INTERVISTATORE Se potessi decidere di essere ricordato per due libri , quali sceglieresti? 

SALTER Mi piace pensare A sport and a pastime e Light Years

INTERVISTATORE Light Years è un libro epifanico; in un certo modo anche A Sport and a Pastime lo è. Si compone di una serie di momenti luminosi. 

SALTER In Light Years, questi momenti, diciamo queste scene, sono essi stessi la narrazione. Servono come successione del racconto.

INTERVISTATORE Quale pensi sia il vero merito di Light Years? 

SALTER Il libro è come le pietre consumate, levigate dalla vita coniugale. Tutto ciò che è bello, tutto quello che è chiaro, tutto ciò che nutre, ma anche le cause che la fanno appassire. Si va avanti per anni, per decenni, e alla fine sembra di aver superato tutto, come si superano le cose intraviste nel tragitto dalla stazione al prato qui davanti: un gruppo di alberi, case con le finestre illuminate nel crepuscolo, città buie, stazioni lampeggianti. Tutto quello che non è scritto, scompare, fatta eccezione per alcuni momenti imperituri, persone e scene. Gli animali muoiono, la casa viene venduta, i figli sono cresciuti, anche la coppia è scomparsa, eppure c'è questa poesia. È stato criticato come un libro elitario, ma non sono sicuro che sia così. Loro due sono davvero ordinari, non persone eccezionali.

INTERVISTATORE Un critico ha detto che le imperfezioni della vita o le impurità sono raramente illuminate nella tua narrativa. Mi sembra palesemente sbagliato, anche se c'è una lotta per la perfezione nella vita dei tuoi personaggi, ma è una perfezione di facciata, giusto? 

SALTER Beh, solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze, come diceva Wilde. Frivolo, ma tocca un importante questione dei tempi attuali, che è il rapporto tra l'apparenza e la sostanza, tra il percepito e la Verità. 

INTERVISTATORE Ho letto che il concetto dietro Light Years proveniva da una frase di Jean Renoir. 

SALTER "Le uniche cose importanti nella vita sono le cose che si ricordano." Sì, mi piace l'idea. Mi ci sono imbattuto dopo aver iniziato a lavorare sul libro. Ma non importa, la frase sancisce qualcosa che presentivo. Ho voluto comporre un libro di quei momenti che ci si ricorda in vita. Questo era il concetto. Suppongo che la trama del libro sia il passaggio del tempo e come trasformi le persone e le cose.

INTERVISTATORE La copertina dell'edizione North Point raffigura il dipinto di Bonnard, The Breakfast Room. Questa pittura sembra cogliere l'atmosfera del romanzo. 

SALTER A volte scrivo pensando a un certo pittore, e ho scritto Light Years pensando a Bonnard fin dall'inizio. E' un pittore dell'intimità e della solitudine, non faceva parte di nessuna scuola, e la sua vita è stata spesa, in generale, lontano dalle luci e fuori dalla corrente principale. Non solo i suoi dipinti, ma il suo personaggio mi piaceva. 

INTERVISTATORE Chi è il tuo scrittore di racconti preferito? 

SALTER Direi Isaac Babel. Ha i tre elementi essenziali per la grandezza: stile, struttura, e autorità. Ci sono altri scrittori che lo sono, naturalmente Hemingway: infatti aveva queste tre cose. Ma Babel ha un particolare richiamo in me, a causa dell'elemento aggiunto che è la sua vita: mi sembra dia alla sua opera un'ulteriore pregnanza. Ha vissuto in grandissime difficoltà; alla fine è stato ucciso dallo Stato. È scomparso nei campi. Non sappiamo cosa gli sia successo. Lui era quello che disse, "Non mi hanno dato il tempo di finire." Sono sempre stato sorpreso che qui non abbia avuto più riconoscimenti. Di tutte le storie che ho letto, il maggior numero di quelle che risiedono nei pressi dell'eccellenza sono di Babel e Cechov. 

INTERVISTATORE L'argot di Babel è qualcosa che ti può aver influenzato? 

SALTER Vuoi dire la parola gergale inaspettata, come un knuckleball (il movimento imprevedibile di una palla da baseball ndt). Io resto molto lontano da questa soluzione stilistica, perchè un maestro, Saul Bellow, se n'è appropriato. Forse è ingeneroso dire così, forse era una cosa già innata in lui, ma in ogni caso, è simile a Babel e io non voglio essere il terzo. 

INTERVISTATORE Qual'è il tuo libro preferito di Bellow? 

SALTER Il re della pioggia è un libro che se metti un segno di spunta accanto alle cose degne di nota, ti ritroverai con quasi tutte le pagine segnate. Si tratta di una performance spettacolare. Bellow, una volta mi ha incoraggiato a scrivere sul paese dei cavalli, la Virginia. E' stato quando gli stavo raccontando della famiglia di mia moglie e di mio suocero, un proprietario terriero. Gli dissi che non sapevo abbastanza della Virginia per scrivere qualsiasi cosa, che ero stato lì solo una dozzina di volte. Allora lui mi ha stupito. Mi ha detto Sì, beh, non ero mai stato in Africa quando ho scritto Il re della pioggia.”

INTERVISTATORE Cosa vuoi dire sul New Yorker? 

SALTER Non ho mai pubblicato una storia sul New Yorker; ogni racconto è stato rifiutato. A un certo punto ebbi un contatto. Avevo scritto un racconto intitolato Via Negativa, e ho ricevuto una nota di Roger Angell che mi chiedeva, La preghiamo di venire a parlarne. Mi sono seduto in un ufficio un po' grigio, e lui mi ha detto che la storia gli piaceva molto. Mi disse, Questo racconto è davvero molto buono, ma ho paura che non lo possiamo prendere. Ero sbalordito. Ho chiesto, Perchè? Mi ha risposto, Al New Yorker abbiamo due regole che non possiamo mai violare: in primis non pubblichiamo mai nulla dove sono presenti oscenità, e in secondo luogo, non pubblichiamo mai eventuali storie di scrittori o di scrittura. Io non sapevo cosa dire. Cosa pensare allora delle storie del ciclo di Bech di Updike? Ho ribattuto. Lui ha replicato, Bene, questa è un'altra questione. Dopo un anno o due stavo parlando di questo episodio con Saul Bellow, e mi ha detto, Ho provato a convincerli a pubblicare una sezione di The victim, ma non hanno accettato. Mi dissero che avevano due regole che non sono mai state violate: in primis non pubblicano mai nulla dove siano presenti oscenità, e due, non hanno mai pubblicato nulla sulla morte o sui moribondi. 

INTERVISTATORE Mi ha colpito quanto spesso le morti o i fallimenti degli artisti, come Gaudì o Mahler, figurino nel tuo lavoro. 

SALTER Prima parlavamo dell'insoddisfazione dei poeti, della loro amarezza perchè la cultura, la nazione, non gli ha dato l'onore e il rispetto che meritavano, sebbene molti dei riconoscimenti solitamente arrivino dopo la morte. La nostra è una cultura che consacra l'effimero, e che esclude, sminuisce certe cose e certe persone. L'istinto più profondo, credo, è quello di voler fare qualcosa di duraturo, qualcosa di utile, e impegnarsi in quella direzione, che ci si riesca o meno. . . Quindi forse è così che gli artisti risaltino dentro il mio lavoro.

INTERVISTATORE Mi chiedo quando Nabokov divenne un'influenza importante nella tua scrittura. 

SALTER Ah, ho dimenticato di parlarne. Scrittore ammirevole. Unico. Quando ha scritto Speak, Memory. Ho letto i capitoli sul New Yorker e sono rimasto colpito subito dalla sua voce. Naturalmente qui risiede il Nabokov poeta. Tu dici a te stesso, Vladimir, cerchiamo di essere onesti. Tu sei un poeta, e stai scrivendo un sacco di prosa, piuttosto buona, ma sappiamo quello a cui sei veramente interessato. Speak, Memory mi sembra eminentemente quel tipo di libro. Credo che, tutto sommato, sia la sua cosa migliore. La prima metà di Lolita è molto potente. Anche Fuoco pallido, il romanzo preferito di Mary McCarthy, è un lavoro notevole. Tuttavia, Speak, Memory è indelebile. Può essere letto e riletto. Le nozioni, i salti d'immaginazione e la lingua sono essenzialmente poetiche. Quando l'ho letto la prima volta mi sono detto, bene, potrei anche interrompermi. Ma un attimo dopo ho ripreso a leggere.

INTERVISTATORE Nabokov ha parlato di unire la passione dello scienziato con la precisione del poeta. Mi chiedo se senti come questo possa averti influenzato a livello stilistico

SALTER Non possiedo il suo genere di mente, molto agile. Sarebbe inutile per me tentare di ballare cercando di mettere i piedi nelle sue impronte di gesso sul pavimento, ma lo trovo comunque di ispirazione. 

INTERVISTATORE Non lo hai intervistato? 

SALTER È capitato che uno dei miei primi pezzi di giornalismo sia stato un colloquio con Nabokov. Prima di tutto mi hanno detto, dà solo interviste scritte. È necessario inviare le vostre domande in anticipo. Così mi sono seduto e ho elaborato dieci domande che supponevo fossero penetranti, ma che non mi piacerebbe rileggere di nuovo, e gliele mandai. Nessuna risposta, ovviamente. Ma organizzammo che se fossi andato in Europa sarei stato in grado di incontrarlo e parlargli. Sono arrivato in Europa, a Parigi, era inverno, e io risiedevo in uno di quei vecchi alberghi dove avevano ancora telefoni con la cornetta separata. Ero in contatto con il corrispondente del Time a Ginevra, l'uomo che aveva organizzato l'incontro con Nabokov, e che adesso mi dava la notizia angosciante che l'intervista era saltata. Nabokov aveva cambiato idea. Ho supplicato, come può farlo? Sono venuto in Europa apposta. Beh, lui ha cancellato l'impegno. Non sapevo cosa fare. Il giornalista mi detto, Perchè non lo chiami? L'idea era praticamente impensabile. Era come se qualcuno mi dicesse Perchè non chiami il Papa? Sembrava che non ci fosse nessuna alternativa, così ho chiamato. La voce all'altro capo della linea rispose, Montreux Palace Hotel, e ho chiesto, signor Nabokov, per favore. Il telefono squillava e, naturalmente, non sapevo quello che stavo per dire. Rispose una donna. Era Vera Nabokov. Le ho spiegato chi ero e che cosa era successo. Disse, Oh no, mio ​​marito non può fare un'intervista. Non sta bene. È necessario inviare le vostre domande per iscritto. Le ho detto che l'avevo fatto ma che non vi era stata alcuna risposta, e lei ha ripetuto che lui rispondeva solo per iscritto. Mio marito non improvvisa. Tuttavia l'ho implorata, visto che ero arrivato in Europa, che lei fosse tanto buona da chiedere al marito qualche istante, così da aggiungere qualche sensazione fisica alle risposte delle domande scritte. Mise giù il telefono, e immaginai il suo sguardo perso oltre la finestra qualche istante per poi riprendere in mano la cornetta e annunciarmi che non era possibile. Ma rimasi sorpreso quando invece rialzò la cornetta e mi disse, Mio ​​marito vi incontrerà alle cinque del pomeriggio domenica al Green Bar del Montreux Palace. Ha ripetuto la data e l'ora per essere sicura che avessi capito. Alle cinque della domenica la porta dell'ascensore si aprì e uscì fuori un uomo alto, in blazer e pantaloni grigi che ho riconosciuto immediatamente, e una donna con i capelli bianchi in un bel vestito Rodier. Erano i Nabokov. Sono venuti al tavolo. Ero un po' nervoso. Non ero un giornalista esperto e affermato; Sapevo che Nabokov non improvvisava le risposte o permetteva la registrazione della conversazione; Quindi non potevo portare un registratore e, per la stessa ragione, nemmeno prendere appunti. Il mio unico incoraggiamento - ne sono certo - fu un'intervista di Truman Capote , che aveva trascorso una notte a Tokyo bevendo e parlando con Marlon Brando e il giorno dopo aveva riportato esattamente l'intera conversazione. E' apparsa sul New Yorker. Ho pensato: se Capote è riuscito a farlo bevendo tutta la notte, io potevo certamente ricordare trenta minuti, astemio, con Nabokov. Ho invocato tutte le mie forze e mi sono detto: concentrati su tutto quello che dice, ascolta, e non cercare di essere brillante per forza; semplicemente ascoltalo. L'incontro durò circa 45 minuti. Eravamo andati piuttosto d'accordo, e alla fine disse, Bene, prendiamo un altro Julep? Si riferiva eccentricamente al drink di scotch e soda. Ma ebbi timore che un altro drink rischiasse di annebbiarmi la memoria. Così mi congedai. Ho avuto la netta impressione che avremmo potuto ancora andare avanti e cenare insieme, ma avevo paura di dimenticare tutto. Mi scusai per aver preso così tanto tempo e andai subito alla stazione ferroviaria, dove scrissi tutto quello che ricordavo. Non era in ordine, naturalmente, ma erano quattro o cinque pagine, e da questo materiale ho ricostruito il colloquio. Tutto risultò abbastanza esatto, devo dire. Ho perso il treno, ma avevo a cuore i dettagli dell'intervista.


INTERVISTATORE Come ne pensi della tua carriera come sceneggiatore? 

SALTER Nel 1950 all'improvviso i registi europei irrompono sulla scena: Truffaut, Fellini, Antonioni, Godard. Sembravano gettare una nuova luce sull'intera idea di film. Il New York Film Festival, iniziò a metà degli anni Sessanta. Tutto questo era seducente. Era come la banda che marcia, le bandiere, il ritmo dei tamburi, e, naturalmente, in quel periodo della vita mi sentivo come se fossi in grado di scrivere qualunque cosa, un sonetto, un libretto, un copione. Qualcuno è arrivato e mi ha chiesto, Ti andrebbe di scrivere un film? E da lì siamo partiti.

INTERVISTATORE Il tuo film "Tre", basato su un racconto di Irwin Shaw, ha incontrato un sacco di successo al Festival di Cannes. Ti sei sorpreso? 

SALTER È stata una piacevole sorpresa. Alla fine, però, era come tutto quello che ho fatto. Aveva i suoi ammiratori, alcuni di loro ardenti, ma d'altra parte, la risposta del pubblico fu di completa indifferenza. È stato descritto da qualche parte, o forse io stesso l'ho detto, come sia essenzialmente un film sui pasti e sul vino. Questo non è forse vero, ma ora riconosco che ero un po' inadeguato come regista. Avrei dovuto spendere molto più tempo con gli attori e la psicologia di quello che stava succedendo. 

INTERVISTATORE Hai avuto forti ambizioni di essere un auteur? 

SALTER Sì, è quello che tutti volevano essere. 

INTERVISTATORE Hai speso circa dieci anni dentro e fuori del mondo del cinema, ma sembra che tu ne abbia molto disprezzo ora.

SALTER Si è guadagnato questa considerazione. 

INTERVISTATORE Ti sei pentito per il tempo speso? 

SALTER Non completamente. Ho guardato il cuore di tanti posti che altrimenti non avrei mai visto. 

INTERVISTATORE È stato liberatorio decidere di non lavorare più nel mondo del cinema? 

SALTER Non è stata una decisione brusca. Ho solo detto, Ne vorrei fare di meno. Ne vorrei fare molto di meno. Non ne vorrei fare niente. 

INTERVISTATORE Il giornalismo era un'alternativa migliore? 

SALTER La scala salariale non è esattamente la stessa. Gli sceneggiatori, come diciamo io e Lorenzo Semple, sono tra le persone più strapagate sulla terra. In un certo senso si potrebbe fare un film per niente, solo per il divertimento di farlo. In aggiunta a ciò, si è sontuosamente pagati. 

INTERVISTATORE Scrivere film causa il cancro? 

SALTER I film sono essenzialmente destinati ad essere distrazioni, intrattenimento. È molto raro il film che ha il potere di consolare. Che tu ti prenda il cancro o no è difficile da dire. Ci sono figure come Graham Greene. . . a cui penso il cinema non abbia causato nessun danno, e lui ci ha lavorato abbondantemente. Ci sono persone come John Sayles, sia romanzieri e registi a tempo pieno, che sembrano sopravvivere. Ma parlando in generale, alla fine arriva il conto da pagare. Se hai scritto film, ti sei adeguato ad altre persone. Un film è una singola prestazione, ed è ricordata come una performance. I film non sono mai rieseguiti. Non sono vivi. A volte, anni più tardi, sono rifatti, ma tutto in loro è assolutamente determinato e saranno sempre fissi, cristallizzati. Non sono come la grande prosa, che, come un critico ha sottolineato, sembra prendere fuoco prima in un posto e poi in un altro. Tendo a parlare di loro in maniera tranchant, ma davvero non conta che si dica abbiano assunto la posizione di primaria importanza nella cultura americana. Essi sono senza dubbio il nemico della scrittura, questo è qualcosa d'irrisolvibile. Questa è la realtà dei fatti. Ogni tanto parlo con gli studenti delle scuole di scrittura creativa e, naturalmente, è la prima cosa a cui sono interessati. Discuto anche con scrittori affermati e insegnanti di scrittura il cui sogno è quello di scrivere un film. Sappiamo bene perchè hanno questo sogno. Buona parte è per una questione di denaro, il resto appartiene a una camminata in un ristorante affollato affianco ad un attore famoso. . . forse è la stessa sensazione che si ha viaggiando con il Presidente. L'illusione è quella di una sorta di autenticità, di riconoscimento. Ma in generale tutto scompare, e il tempo che hai trascorso a farlo, se sei interessato a scrivere, è tempo sprecato. 

INTERVISTATORE Scrivere un libro di memorie è il segno che sei arrivato ad una certa età? 

SALTER Dicono che l'autobiografia si dovrebbe scrivere durante la gioventù dei capelli bianchi. Forse ho aspettato un po' troppo a lungo. 

INTERVISTATORE C'è un impulso a ripensare le esperienze del passato? 

SALTER Sento la gioia nel pensare a quello che è successo, a cosa realmente significava ed essere in grado di farlo ritornare in vita. C'è tutta la questione della Verità. Hai tutto il diritto di inventare la tua vita e dichiarare che è vera. Abbiamo già subito l'offuscamento dei fatti ma anche dell'immaginifico. Abbiamo avuto scrittori che hanno spiegato come i loro libri sono romanzi-nonfiction, che vale a dire saggi-fictions. Io sottoscrivo una visione più classica. Credo che ci sia una cosa come la verità oggettiva, nella misura in cui ci sia dato saperlo. Choses vue di Victor Hugo è un esempio. Nessuno può conoscere la verità di Dio, ma non è la verità di Dio ciò che stai scrivendo; è la verità come la conosci, le cose che hai osservato. Posso sbagliare, sono fallibile; lo siamo tutti. Ci può essere qualche errore, ma non sono errori voluti o negligenza. Sono semplicemente gli errori che si insinuano dalla parte sconosciuta della vita. 

INTERVISTATORE Ma perchè un libro di memorie? 

SALTER Per ricostruire quegli anni, quando uno dice: Tutto questo mi appartiene - queste città, queste donne, le case, i giorni. 

INTERVISTATORE Quale pensi sia l'urgenza fondamentale che spinga a scrivere? 

SALTER Per scrivere? Perchè tutto questo sta per svanire. L'unica cosa che rimarrà sarà la prosa e le poesie, i libri, ciò che è stato svalutato. L'uomo è molto fortunato ad aver inventato il libro. Senza, il passato sarebbe completamente svanito, non ci sarebbe rimasto niente, e saremmo nudi sulla terra.

Intervista di Edward Hirsch, The Paris Review, Summer 1993
Traduzione di Luca Tanchis (con i preziosi consigli di Laura Anfossi)


James Salter, nato James Horowitz: Burning the days, una piccola galleria di immagini
 
Salter a 14 anni
Salter a Parigi, 1973
Salter con la figlia Nina, 1982
Salter con la seconda moglie Kay e il figlio Theo, 1989 
Salter con la madre, 1937
Salter con la prima moglie, Ann, e i due gemelli James e Claude, 1962
Salter in Corea, davanti al suo F-86, 1952


venerdì 4 gennaio 2013

La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov / Un saggio di Giorgio Manganelli



No, non so giocare a scacchi; sono goffo con le parole incrociate che non siano di insultante povertà («capitale del Portogallo»); e i rebus sono per me, appunto, dei rebus; aggiungerò — la mia onestà critica è patologica — che non so nulla delle farfalle, che provo nei loro confronti un vago sentimento di ammirazione, di inferiorità, di irritazione. Non sono limitazioni da poco, ed è probabile che siano radicalmente negative per un lettore di Nabokov, grande specialista di scacchi e amoroso di lepidotteri, se le farfalle sono lepidotteri, e anzi scopritore di una razza che ha eternamente consacrato con il suo nome un poco operistico di nobile russo.

Di Vladimir Nabokov, di Pietroburgo, morto nel 1977 a Montreux — un luogo molto nabokoviano per decedere — viene ora ristampato un breve, squisito romanzo: La vera vita di Sebastian Knight. 

Il libro apparve in inglese nel 1941; e già appartiene a quella serie che Nabokov non ritradusse, rifacendoli, dal russo: infatti Nabokov, come il solito Conrad, e il meno consueto Ruffini (qualcuno deve aver pur letto il risorgimentale Lorenzo Benoni), è un perfetto, raffinato, del tutto agiato scrittore in inglese, lingua imparata su grammatiche e da governanti. 

Ho parlato di scacchi e farfalle; e poiché questi temi, direttamente e indirettamente, appaiono in tutti i libri di Nabokov, penso che la ricorrenza di quelle eleganti, assurde, fragili immagini abbia molti e allusivi significati: tra incubo e visione. Ma in primo luogo vorrei indugiare su questa Vera vita: e sono certo che scacchi e farfalle troveranno il modo di venirci incontro. Poiché Nabokov è interessato non tanto alla narrazione, quanto al programma, al disegno del romanzo, la sua macchina, dovremo in primo luogo occuparci di questa. Una definizione decorosa di questa macchina potrebbe essere: complicata e inutile. 

I due aggettivi vanno goduti in coppia: infatti, non è impossibile, con un ragionevole spreco di talento, costruire una macchina complicata né mancano persone cui l’inutilità è una seconda natura. Ma qui il complicato e l’inutile si sposano, ed è un matrimonio insieme d’amore e di interesse; per amore, naturalmente, intendo piuttosto libidine che languore: niente «cuore». 
Il libro ha un tema che, oggi, può sembrare lievemente audace: il fratellastro di Sebastian Knight, geniale scrittore morto in giovane età, tenta di scriverne la vita; in teoria, il libro dovrebbe essere una biografia immaginaria: non lo è. E l’autobiografia del fratellastro durante i suoi tentativi di trovare materiale per questa Vera vita. Per conseguire questi risultati egli dovrà fare delle «mosse» — ecco gli scacchi. Cercherà, come un lento, peritoso e lucido giocatore, di cogliere gli indizi, sempre minimi, spesso ingannevoli; e le sue mosse risulteranno sterili, futili. 

In un passo del suo saggio Gogol, Nabokov aveva dichiarato la sua devozione alla fantasia «futile»; la pura fantasia che si muove in un vuoto, e non attinge né inventa significati. Essa è futile come un ozioso segno tracciato nell’aria; ma sterile significa qualcosa d’altro — anche questa parola è di Nabokov. Lo sterile è il non motivato, il gratuito, il frigido, l’esatto; sterile è la mossa degli scacchi che autodistrugge il proprio movimento di volta, come il libro si consegna al nulla, man mano che ne volgiamo le pagine. C’è nella sterilità una ferma volontà di non collaborare alla vita, al confuso e torbido intrico di significati che ne tiene assieme la mole disordinata; ma la sterilità non è morte, piuttosto una squisita e feroce astuzia per appartarsi. 

Per ricostruire quella Vera vita il fratellastro esegue alcuni tentativi: ha degli incontri, trova degli oggetti, e dovunque crede di riconoscere una indicazione definitiva, che non può esistere. In primo luogo lo stesso Sebastian Knight è estremamente elusivo; non lascia testi che non siano definitivi, l’unico esempio sopravvissuto di una pagina non definitiva reca, assieme, tutte le possibili varianti di una frase, senza cancellazioni; non parla mai di letteratura — e saggiamente, giacché parlarne con « gli altri » significa ammettere di essere vivo, ed è una ammissione pericolosa, per uno scrittore; le lettere che lascia nello scrittoio alla sua morte sono annotate, «da bruciare»; ed è proprio bruciando quelle lettere che il fratellastro coglie su di un foglio, che rapido si accartoccia e svanisce, poche parole; ma sono parole di donna, e scritte in russo. Ironicamente, il nulla, lo sterile, esegue una mossa inutile e consegna un indizio futile. 

Sebastian Knight è stato un solitario: e le persone che l’hanno conosciuto, amici di collegio, un losco segretario, una donna, non ne hanno più che sfiorato l’esistenza, la sua inutilità casuale ed eroica. Gli amici hanno ricordi irrilevanti, forse inesatti; il segretario, che sta a sua volta scrivendo una Vita di Knight, raccoglie aneddoti che sono la prova di una sistematica beffa che lo scrittore esercitò ai danni del segretario. Così, Sebastian un giorno gli racconta, appena velato, l’Amleto di Shakespeare come una dolorosa, traumatica memoria della sua adolescenza. Una donna certamente l’ha amato; ma protetta da un matrimonio, ed ancor più dalla morte imminente — morte di parto, vittoria della sterilità —, esclusa dalla miopia, la distrazione, il disorientamento, non può dire nulla, non sa più nulla, ha veramente consegnato al nulla il profilo dell’uomo amato; e la misteriosa autrice di quella frase russa, cercata accanitamente, porta il fratellastro a incontrare una donna frivola, leggera, fantastica, che riesce per qualche tempo a fingersi l’amica della «donna» di Sebastian Knight. 

Restano, dunque, i libri di cui Knight è autore; specie uno, Oggetti smarriti, che è « largamente autobiografico». Ma poiché è un romanzo, anche i ricordi sopravvivono come finzione; perdono vita e acquistano inutilità. Dunque, la forma del romanzo è questa, un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia; di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, e anzi l’unica vera «notizia» è che Sebastian, scrittore, ha scritto dei libri. 

Qui il gioco si complica: di ciascun libro viene data qualche informazione; talora si racconta la trama e almeno una, del romanzo Successo, è talmente affascinante da porci la domanda perché mai Nabokov non abbia scritto quel libro, invece di riassumerlo. Oltre ai riassunti, ci sono le citazioni, ampie e significative, dalle quali si nota che Sebastian scrive una prosa colorata, mentre quella del fratellastro è un poco più dimessa, e quella di Nabokov è più gelida; e un poco dell’ingegnoso gelo di Nabokov si insinua dovunque. 
S’è detto che la donna che sembra più prossima alla «verità» è in realtà un puro inganno; e dove il gusto drammatico per il doppio, lo scambio, la mistificazione definitivamente trionfa è nel racconto della morte di Sebastian Knight. Avvisato da un laconico telegramma, il fratellastro parte per...; è già in viaggio quando si accorge di non rammentare il nome della località; sarà il disegno di una scacchiera a rammentargli quel nome, St-Damier; quando arriva, viene lasciato entrare a trascorrere alcune ore in una stanza buia, dove un uomo addormentato respira faticosamente; è un momento di delicata, aurorale speranza. Quell’uomo è vivo. Ma hanno sbagliato stanza: quel malato ha in comune con Knight solo la « K » iniziale, è la sua controfigura sulle soglie dell’Ade; mentre il fratellastro vegliava la controfigura che lentamente ritornava alla vita, Sebastian giaceva già morto in una stanza della clinica. 


Non è un finale patetico; anche Knight è stato cancellato, perduto, resisterà la sua notturna immagine speculare, l’anima sosia che si è salvata, pronta a ulteriori inganni. 
Questo libro breve e «leggero » — pare avere la consistenza ingannevole del sughero — è in realtà un libro astutamente ambizioso; il suo obiettivo a me sembra quello di costruire un tessuto di parole — mi ripugna chiamarlo «romanzo» — attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale, indefinibile. Questa assenza contiene, inoltre, un ulteriore gioco, quasi un pun, una astuzia verbale. La vita di Sebastian Knight, quella «vera», è perduta, perché nessun indizio porta al centro; lo scrittore è una larva, una immagine simile a quelle che si colgono prima del precipizio del sonno. Ma vi è dell’altro: lo scrittore non possiede il tempo come serie; il tempo è un luogo matematico nel quale si raccoglie tutto ciò che altri chiamerebbe «il mondo». 

« Per Sebastian » scrive «non era mai il 1914, il 1920, o il 1936 — era sempre l’anno 1». «Non credo nel tempo» aveva scritto in Parla, memoria; e nello stesso libro aveva annotato: « Lo scienziato vede tutto ciò che accade in un unico punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un unico punto del tempo». In quanto scrittore, la sua Vera vita è istantanea, non ha data, né un prima né un dopo, « l’anima è solo un modo di essere — non uno stato costante,» scrive nelle ultime pagine della Vera vita: «ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni». Dunque, non v’è altro modo di scoprire la «vera vita» di Sebastian Knight, uomo-punto di tempo, che penetrare in quel luogo senza misura. 
«La mascherata volge alla fine», leggiamo nelle ultime righe. Nabokov, scegliendo la sterilità, e l’inutilità, ha scelto anche il travestimento, la mistificazione, l’errore, il fantasmatico, e di qui, e solo di qui, escono alcune delle sue pagine memorabili, come Invito a una decapitazione, capolavoro di rara, inquietante ambiguità; e vorrei, come gioco incidentale, rievocare una bizzarra e freddamente angosciosa invenzione nabokoviana: che i morti, le loro ombre e fantasmi, siano travestimenti, consolatori e beffardi inganni, emotive somiglianze indecifrabili nel costante buio. 

Vorrei concludere tornando ai temi emblematici degli scacchi e delle farfalle; sempre in Parla, memoria, si incanta a descrivere questa arte, «bella, complessa e sterile» , dalla qualità poetico-matematica, fonte di letizia faticosa e astratta; la scacchiera è un « campo magnetico, un sistema di forze, di abissi, un firmamento stellato». E imparentato, questo gioco, ad altre bizzarrie creative: dalla cartografia medita di mari perigliosi, alla lucida e demente costruzione di «incredibili romanzi», irti di regole vessatorie e arbitrarie, e deliberati incubi. 
Le farfalle: lo scrittore è affascinato da due qualità supreme: la mistificazione — la «mascherata» — e l’eccesso; le due qualità si mescolano; per mentirsi altra cosa, o insetto o foglia, la farfalla si trasforma; ma il gusto della metamorfosi è sfrenato, barocco, del tutto privo di rapporto con la ragionevole astuzia al servizio della sopravvivenza; la farfalla non è solo un prezioso inganno, è esuberanza e lusso; è «inutilità». «Scopersi nella natura le gioie non utilitarie dell’arte. Entrambe erano una forma di magia, un intricato gioco di incantesimo e di inganno». E confrontando diapositive e microscopio, annota: «Nell’equilibrio delle grandezze del mondo pare esservi un punto cui si perviene rimpicciolendo quello che è grande, e ampliando ciò che è piccolo; ed è un punto intrinsecamente artistico». 

Mi accorgo di aver scritto di Vladimir Nabokov senza aver mai nominato Lolita, il romanzo erotico per cui egli è socialmente, storicamente, «l’autore di Lolita». Visto nella prospettiva dell’inutile, dello sterile, del travestimento, Lolita, capolavoro di «veleni retorici» (vedi la prefazione di Disperazione), diventa un libro stranamente deforme, un’ardua anamorfosi. Come tutti i libri di Nabokov, non ha messaggi, né idee: « non sono un cane » aveva scritto una volta «che corre da voi scodinzolando, con una verità in bocca».

Giorgio Manganelli, postfazione a La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992

     

Sebastian Knight è un giovane scrittore nato in Russia e successivamente trasferitosi in Inghilterra (lo stesso percorso linguistico di Nabokov). Muore precocemente lasciando alcuni romanzi, racconti e qualche lettera. Il fratellastro, V., decide di scriverne la 'Vera' vita. Ma tutte le piste e le traccie sono ambigue, doppie; la ricerca gira a vuoto attorno alla perversa sensazione che l'autore di 'Successo' sia uno, nessuno e centomila. Questa è una delle pagine più belle, V. disquisisce sul fantomatico romanzo 'Oggetti smarriti': le lettere ritrovate nel disastro aereo sono magnifici esempi del linguaggio figurato nabokoviano.
(LT)


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"Oggetti smarriti, che Sebastian aveva iniziato proprio in quel periodo, pare una specie di sosta nel suo viaggio letterario di esplorazione: una pausa in cui si tirano le somme, si contano le cose e le anime perdute per strada, si fa il punto geografico; i sonagli di cavalli dissellati che pascolano nel buio; il bagliore del fuoco del bivacco; la volta stellata. 

In questo libro c’è un breve capitolo in cui si parla di un disastro aereo (il pilota e tutti i passeggeri, tranne uno, erano rimasti uccisi); il superstite, un inglese piuttosto anziano, fu ritrovato da un contadino a una certa distanza dal luogo della sciagura. Era seduto su un sasso, tutto raggomitolato — l’immagine stessa del dolore e dell’infelicità. «Una brutta ferita?» domandò il contadino. «No,» rispose l’inglese «mal di denti. Ce l’ho da quando sono partito». In un campo venne ritrovata una mezza dozzina di lettere, sparse qua e là: tutto ciò che restava del sacco della posta aerea. Due erano lettere d’affari, molto importanti; una terza era indirizzata a una donna ma cominciava così: «Egregio Mr. Mortimer, in risposta alla sua del 6 corrente... » e riguardava un’ordinazione; una quarta conteneva gli auguri per un compleanno; una quinta era la lettera di una spia con il suo ferreo segreto celato in mezzo a un mucchio di chiacchiere; e l’ultima era una busta, indirizzata a un’azienda commerciale, che conteneva la lettera sbagliata, una lettera d’amore. 

«Questo ti farà soffrire, mio povero amore. Il nostro picnic è finito; la strada è buia, piena di buche, e sull’auto il bambino più piccolo comincia a sentirsi male. Un povero sciocco ti direbbe: devi essere coraggiosa. Ma qualunque cosa io possa dirti per farti animo o consolarti sarà come una minestrina insipida — tu sai quello che voglio dire. Tu l’hai sempre capito. La vita con te è stata incantevole — e quando dico “incantevole” intendo canti e voli e viole, e quella morbida, rosea “v” nel mezzo, e quelle sillabe sulle quali si curvava indugiando la tua lingua. La nostra vita insieme è stata allitterativa, e quando penso a tutte le piccole cose destinate a morire, ora che non le possiamo più condividere, sento come se fossimo morti anche noi. E forse lo siamo. Vedi, quanto più grande era la nostra felicità, tanto più sfumavano i suoi bordi, come se i contorni si sciogliessero, e ormai essa si è dissolta del tutto. Non ho smesso di amarti; ma qualcosa è morto in me, e nella nebbia non riesco a vederti... Questa è tutta poesia. Io ti sto mentendo. Vigliacco. Niente è più vile di un poeta che mena il can per l’aia. Credo tu abbia intuito come stanno le cose: la solita dannata formuletta, “un’altra donna”. Con lei sono disperatamente infelice — ecco, questo almeno è vero. E penso non ci sia molto altro da aggiungere su questo lato della vicenda»

«Non posso fare a meno di pensare che nell’amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o ci si perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c’è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all’amore. L’amicizia non ha mai l’aspetto di una condanna. Perché, cosa succede? Non ho smesso di amarti, ma poiché non posso continuare a baciare il tuo caro, pallido volto, dobbiamo lasciarci, dobbiamo lasciarci. E perché? Perché l’amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona. Non è il caso di parlare degli harem: io sto parlando della danza, non della ginnastica. O si può forse immaginare un portentoso turco che ami ognuna delle sue quattrocento mogli come io amo te? Quando dico “due”, ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l’amore, a quanto pare, è l’esponente migliore di questa unicità»

«Addio, mio povero amore. Non ti dimenticherò mai e non metterò mai un’altra al tuo posto. Sarebbe assurdo da parte mia cercare di, persuaderti che tu eri l’amore puro e che quest’altra passione è solo una commedia della carne. Tutto è carne e tutto è purezza. Ma una cosa è certa: con te sono stato felice, e ora sono infelice con un’altra. E così la vita andrà avanti. Continuerò a scherzare con i colleghi d’ufficio, a godermi le mie cene (fin quando non mi verrà la dispepsia), a leggere romanzi e a scrivere versi, a tener d’occhio il listino della Borsa — e in generale a comportarmi come mi sono sempre comportato. 
Ma questo non significa che sarò felice senza di te... Ogni piccola cosa che mi riporterà il ricordo di te — l’occhiata di disapprovazione per i mobili delle stanze dove tu hai riordinato i cuscini e parlato con l’attizzatoio, ogni piccola cosa che abbiamo scoperto insieme — mi parrà sempre la metà di una conchiglia, la metà di una moneta, di cui tu custodisci l’altra metà. Addio. Vattene, vattene. Non scrivere. Sposa Charlie o un altro qualsiasi brav’uomo con una pipa tra i denti. Dimenticami per ora, ma ricordami dopo, quando l’amaro sarà dimenticato. Questa macchia non è dovuta a una lacrima. Mi si è rotta la stilografica, e sto usando una lurida penna in questa lurida camera d’albergo. Fa un caldo terribile, e non sono riuscito a concludere l’affare che avrei dovuto portare “a una soluzione soddisfacente”, come dice quell’imbecille di Mortimer. Credo tu abbia un paio di libri miei ma non è importante. Per favore, non scrivere. L. ». 

Se togliamo da questa lettera fittizia tutto ciò che riguarda specificamente il suo presunto autore, credo che in essa vi sia molto di quello che Sebastian può aver provato per Clare, o magari averle scritto. Aveva la curiosa abitudine di attribuire ai suoi personaggi, anche ai più grotteschi, questa o quella idea o impressione o desiderio con cui lui stesso poteva essersi baloccato. La lettera del suo eroe può anche essere stata una sorta di codice in cui esprimeva alcune verità circa i suoi rapporti con Clare. Ma non mi viene in mente il nome di un altro scrittore che abbia fatto uso della propria arte in maniera così sconcertante — sconcertante per me, che potrei voler vedere, dietro lo scrittore, l’uomo vero. E' difficile distinguere la luce di verità personale in mezzo allo scintillio di una natura immaginosa, ma quello che è ancora più difficile da capire è il fatto stupefacente che un uomo che sta scrivendo di sentimenti provati davvero in quegli stessi istanti possa aver avuto il potere di creare simultaneamente — e proprio ispirandosi alle cose che lo turbavano — un personaggio fittizio e vagamente assurdo."

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992, Traduzione di Germana Cantoni De Rossi)

domenica 4 ottobre 2009

AMANTI CRIMINALI (Les amants criminels) DI François Ozon (1999)

“Noi che guardiamo siamo tutti criminali, siamo dei guardoni. E seguiamo l’undicesimo comandamento: “Non farti scoprire”.
(Alfred Hitchcock)

Alice e Luc sono due adolescenti della provincia francese, insieme uccidono Said, un loro coetaneo, e nella fuga si perdono (ritrovano) in una selva oscura.


Un crimine in società sancisce un legame più sacro e impetuoso di un matrimonio, di un amore proibito, di un figlio. La complicità di un omicidio è il vincolo che il magnifico Ozon, fondendo la favola con il noir, derubrica dalle efferatezze e consegna alle "honeymoons" sognate: come Malick ne “La rabbia Giovane”, come Van Sant in “Elephant” e, chiaramente, come Arthur Penn in “Bonnie and Clyde”. La cronaca di una deriva, dell’amore immaturo, fragile e dannato, suscitato dalla bellezza dei corpi e da “una magnifica sorsata di veleno” (Alice legge “Notte dell’Inferno” di Rimbaud in classe mentre guarda la vittima), sembra incantarsi felicemente alla fiaba del bosco. Tra orrori e iniziazioni etero e omosessuali, l’Orco che li cattura e segrega nella sua capanna, paradossalmente offre ad Hansel e Gretel un percorso di redenzione al riparo del mondo “realmente” implacabile. Per un attimo la convinzione che, grazie ad azioni sconsiderate, i loro sogni possano realizzarsi, si congiunge a grandiose, sublimate, inquadrature Ozoniane: tutti gli animali del bosco partecipano alla loro “prima volta”.
E qui la favola termina; come finisce l’adolescenza, all’improvviso, lasciando un recapito inesistente. Da qui in poi si entra in un altro paese, si sorpassa la dogana. L’ultima goccia amniotica si è asciugata, è evaporata dalla pelle imberbe di Luc e Alice. Dopo c’è il castigo, la fine, l’ultimo sguardo sugli amori impossibili.


Francois Ozon gira a un centimetro dalle pelle dei protagonisti (una bravissima Natacha Regner e un incredibile Jeremie Renier) con una tale lucidità che infine risulta più increscioso il nostro speculare su questi misfatti pruriginosi e catartici che i delitti dei giovani criminali. Come Hitchcock, il francese accresce la suspense della nerissima trama con un atto d’amore che sembra non compiersi mai, per colpa (merito) di una ragazza bionda, glaciale, persa, superiore.
Come Larry Clark è spietato nel rappresentare un mondo, quello dell’adolescenza, eccitato nella sua irresolutezza.
Come Resnais è talmente bravo da farci intravedere, sulla cornice, un documentario del film stesso con una fluidità che delinea la consistenza di questo grande metteur in scene.
Mentre guardiamo siamo dentro, siamo fuori, ne siamo pervasi. Ozon e il suo senso di artefatto (si veda la scena dell’atto sessuale tra Luc e Alice, circondati da animali posticci) sono una studiata premessa per poi assalirci, invadere noi e i protagonisti, dell’illuminazione e dell’epifania che schiude la consapevolezza.
Questo mimetismo con il reale, "come i disegni e le forme protettive degli animali, trascende lo scopo della rappresentazione, della sopravvivenza"¹, per regalarci il prestigio dell’illusionista e lo splendore di un cinema così lucidamente consapevole dei suoi meccanismi.


Voto: 8
Luca Tanchis



Note:
¹ La magia, la destrezza di mano e trucchi di vario genere hanno una parte non trascurabile nella sua narrativa. Servono a divertire o hanno anche un altro scopo?

L’inganno è praticato in maniera ancora più elegante da quell’altro V.N. che si chiama Natura Visibile. La scienza attribuisce una funzione precisa al mimetismo, ai disegni e alle forme protettive degli animali, eppure la loro perfezione trascende lo scopo elementare della mera sopravvivenza. Nell’arte lo stile individuale è sostanzialmente tanto futile e organico quanto un miraggio. La destrezza di mano cui lei accenna non è molto più della destrezza d’ala in un insetto. Un bello spirito potrebbe dire che mi protegge dai poveri di spirito. Lo spettatore riconoscente è pronto ad applaudire la grazia con cui l’artista mascherato si mimetizza con lo sfondo della Natura fino a scomparirvi. 

(Intransingenze, Vladimir Nabokov, ed. Adelphi, 1994)