venerdì 23 novembre 2012

Ⓘ Ⓢⓘⓝⓖ Ⓣⓗⓔ Ⓑⓞⓓⓨ Ⓔⓛⓔⓒⓣⓡⓘⓒ - Playlist



   

  1. Junior Boys - Work (Prins Thomas Diskomiks)
  2. Extrawelt - Neuland (Robag Wruhme Rekksmow)
  3. Marsmobil - Gonna Be My Day (Henrik Schwarz Acoustronic Remix)
  4. Toro Y Moi - Still Sound (SposhRock Remix)
  5. Gus Gus - When Your Lover 's Gone
  6. Pollyester - The Indian (Mock & Toof Remix)
  7. Nôze - Cinq
  8. Jenny Wilson - Like A Fading Rainbow (Van Rivers Remix)
  9. Death In Vegas - Your Loft
  10. Frederic Galliano - Plis Infinis n° 1
  11. Connan Mockasin - Faking Jazz Together (Michael Mayer Remix)
  12. Jamie Woon - Night Air (Ramadanman Refix)
  13. Joash - Don't Fear It , Fight It (Woolfy remix)
  14. Totally Enormous Extinct Dinosaurs - Garden
  15. Peace Orchestra - Domination (Raw Deal Remix)
  16. Kuniyuki Takahashi - All These Things (Joe Claussell Remix)
  17. Glass Candy - Dream Lover
  18. Guru feat. Common & Bob James - State Of Clarity
  19. Double Hill feat. Jerome C - I Need Love
  20. Crazy P - Never Gonna Reach Me (Hot Toddy Remix)
  21. Mudd - Summer In The Wood

martedì 20 novembre 2012

Neoanarchici & co. La rivoluzione senza leader, di Antonio Carioti + Un'intervista a David Graeber: Che cos'è il debito?

Né dirigenti, né linea politica. Il fine non è abbattere lo Stato ma agire come se non esistesse.

Lenin è morto, la rivoluzione è viva. Nessuno oggi sogna più la presa del Palazzo d’Inverno, né immagina avanguardie proletarie rette da una disciplina d’acciaio. Ma l’idea di un profondo sovvertimento dell’ordine vigente, che riorganizzi la vita sociale su basi nuove, non è scomparsa. Anzi la crisi finanziaria mondiale, con l’impoverimento e il vuoto di prospettive che ne sono derivati per un numero enorme di persone anche nei Paesi ricchi, ha rianimato non solo la protesta giovanile, dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street, ma anche le riflessioni teoriche nutrite dal fuoco della speranza rivoluzionaria.
Nel definire l’obiettivo finale, qualcuno usa ancora la parola «comunismo»: per esempio Francesco Raparelli nel pamphlet Rivolta o barbarie (Ponte alle Grazie). Ma certo nessuno ipotizza più la conquista dell’apparato statale. L’orizzonte è semmai sintetizzato nel titolo-slogan di un libro uscito in Italia nel 2004: Cambiare il mondo senza prendere il potere (Intra moenia) di John Holloway, un docente dell’ateneo messicano di Puebla che, quando cita il comunismo, spesso aggiunge tra parentesi frasi del tipo «o comunque scegliamo di chiamarlo», anche per segnare un distacco netto dall’esperienza bolscevica. In un saggio più recente, Crack Capitalism (DeriveApprodi), Holloway descrive la rivoluzione come «un processo interstiziale», cioè «il frutto della trasformazione quasi invisibile delle attività quotidiane di milioni di persone», che con i loro «rifiuti nei confronti del sistema» aprono crepe man mano sempre più profonde nella «coltre di ghiaccio» del capitalismo, fino a determinarne il collasso. Non si tratta di distruggere l’ordine borghese, quanto di rifiutare ogni cooperazione al suo funzionamento.
Siamo dunque ben lontani dal marxismo-leninismo. È semmai con un altro filone di pensiero che si registrano forti affinità, come sottolinea l’antropologo David Graeber, ex docente di Yale e militante di Occupy Wall Street, nel testo Rivoluzione: istruzioni per l’uso, di prossima uscita per la Bur. A suo avviso dall’insurrezione zapatista del 1994, passando per le manifestazioni contro il Wto di Seattle (1999) e le varie lotte contro le politiche neoliberiste, fino all’entrata in scena di Occupy, si è manifestata «la più grande fioritura autocosciente di idee anarchiche della storia». Sta infatti tornando in auge, secondo Graeber, il concetto tipicamente libertario di «azione diretta» (Direct Action è il titolo originale del suo saggio), che «consiste nell’agire, di fronte a strutture di autorità inique, come se si fosse già liberi». Abbattere il sistema politico borghese appare allora un obiettivo fuorviante, bisogna piuttosto comportarsi «come se lo Stato non esistesse».
Gli anarchici, ricorda Graeber, erano il fulcro della sinistra rivoluzionaria nel lungo periodo di pace tra fine Ottocento e inizi del Novecento, mentre hanno conosciuto una grave crisi, sfociata in una duratura eclissi tra il 1914 e il 1991, all’epoca delle guerre mondiali e del conflitto Est-Ovest, quando la rivoluzione si era fatta Stato nel comunismo sovietico, che recava però dentro di sé contraddizioni insanabili. Il fatto è, scrive Graeber, che «non si può creare una società libera attraverso la disciplina militare, non si può creare una società democratica dando ordini, non si può creare una società felice attraverso il sofferto sacrificio di sé». Non a caso la bancarotta dell’Urss ha coinciso con la ripresa di pratiche tendenzialmente anarchiche.
Derivano da questa esperienza storica, sempre secondo l’antropologo americano, due insegnamenti basilari. Il primo è che, se l’uso della forza non può essere ritenuto illegittimo in linea di principio, i rivoluzionari devono sforzarsi di essere «più non violenti possibile», come mostrano in America Latina i successi dei movimenti disarmati (i «senza terra» brasiliani, ma in fondo anche gli zapatisti) e la deriva dei gruppi di guerriglia degenerati in «bande di gangster nichilisti». Il secondo è che la forza dell’anarchismo risiede nel fatto che «non si considera fondamentalmente un progetto di analisi ma un progetto etico», cioè non intende tracciare una strategia politica rivoluzionaria, ma rispecchia il desiderio di libertà insito nell’animo umano e fa appello alla coscienza degli individui contro ogni coercizione. Quindi rifiuta le gerarchie interne e anche il meccanismo della rappresentanza, mentre aspira a una democrazia diretta basata sul consenso generale dei singoli.
Emergono qui, insieme a molti punti di contatto, anche rilevanti differenze tra Graeber e i teorici d’impianto marxista. Per esempio Raparelli parla ancora di «giusta violenza che deve accompagnare la traiettoria anticapitalista dei movimenti», fino a evocare una «macchina da guerra», sia pure non come apparato militare, ma come prodotto di una «irriducibile proliferazione gruppuscolare». Antonio Negri e Michael Hardt, nel libro Questo non è un manifesto (Feltrinelli), plaudono alla «mancanza di leader e di ideologia» degli attuali movimenti, ma non rinunciano a una sonora enunciazione di principi e affidano ai contestatori odierni un compito «costituente» che contempla per sua natura una qualche organizzazione politica. Gli Indignados, scrivono Negri e Hardt, «naturalmente non sono anarchici»: un’affermazione su cui Graeber, il quale a sua volta preferisce parlare «non di potere costituente ma destituente», avrebbe parecchio da ridire. Significativa è inoltre la divergenza nel giudizio sul presente. Consapevoli degli scarsi sbocchi che finora le rivolte hanno trovato a livello politico (basti pensare che le primavere arabe sembrano aver innescato una deriva teocratica), Negri e Hardt confidano nell’irrompere di «eventi inaspettati e imprevedibili», che forniscano l’occasione di «costruire una nuova società». Graeber si mostra invece convinto che la svolta sia già avvenuta, con il tramonto del «pensiero unico» liberista. Nemmeno la «guerra al terrore» seguita all’11 settembre, sostiene, è riuscita a rimettere in sella le forze dominanti, perché «gli Stati Uniti semplicemente non hanno le risorse economiche per mantenere il nuovo progetto imperialista».
La rivoluzione sarebbe insomma già in cammino, anche se, ammette Graeber, resta aperto il problema di come conciliare le mentalità, inevitabilmente diverse, degli «alienati» (gli occidentali afflitti da varie forme di disagio) e degli «oppressi» (gli abitanti del Terzo Mondo che soffrono la miseria e la fame), senza contare la difficoltà di convincere chi non si ribella al sistema, quelli che il filosofo Paolo Virno chiama «i corrotti e i crumiri». Non è affatto detto che lo spirito rivoluzionario sia contagioso come ritengono i suoi cultori.
In realtà, da un punto di vista estraneo al romanticismo sovversivo, il rilancio delle teorie radicali non assomiglia al preannuncio di un futuro radioso, ma semmai al sintomo di una crescente inadeguatezza del modello occidentale. In Italia lo si vede meglio che altrove, ma è evidente che i canali della rappresentanza e della partecipazione politica sono ostruiti un po’ dovunque. Uno studioso nient’affatto rivoluzionario come il francese Pierre Rosanvallon, nel saggio Controdemocrazia (Castelvecchi), sottolinea la necessità di sviluppare meccanismi di sorveglianza, interdizione e giudizio, peraltro difficili da formalizzare, che consentano ai cittadini un effettivo coinvolgimento nell’attività dei governanti. E un accademico austero come Salvatore Settis lancia un vibrante appello all’iniziativa dal basso per la riaffermazione dei valori costituzionali, in un libro il cui titolo Azione popolare (Einaudi) richiama curiosamente l’«azione diretta» predicata da Graeber.
Forse però il problema è più profondo. Alla fin fine è la modernità stessa che scricchiola, se i rivoluzionari sembrano aver rigettato, recuperando più o meno apertamente l’anarchismo, l’idea marxiana per cui il regno della libertà doveva scaturire dal pieno dispiegamento delle forze produttive. Oggi al contrario domina la retorica medievaleggiante dei beni comuni, o più semplicemente del «comune» (come lo chiamano Negri e Hardt), che tutti ovviamente distinguono con cura dal collettivismo statalista di sovietica memoria. Ma le rivolte pauperiste latinoamericane, per quanto rispettabili e giustificate, non sembrano collocarsi esattamente all’avanguardia del progresso. E come si possa «rendere comune» la proprietà senza inceppare l’economia resta un interrogativo inevaso. Lo stesso Graeber prende le distanze dal primitivismo anarchico di John Zerzan, che giunge a condannare come alienante ogni genere di attività, comprese l’agricoltura, l’arte e la scrittura, fino ad auspicare «il ritorno all’età della pietra». Ma non è forse questa la china verso cui si slitta con l’annullamento di ogni regola che non sia spontaneamente e unanimemente accettata?
Tutto ciò, al netto del suggestivo gergo postmoderno, finisce per confermare implicitamente il giudizio di un attento studioso dei fenomeni rivoluzionari da poco scomparso, Domenico Settembrini, secondo cui l’anarchismo è in sostanza «un elemento di disturbo nei confronti del processo di modernizzazione capitalistico-liberale». D’altronde la società in cui viviamo presenta parecchi elementi patologici, la cui denuncia è pienamente legittima. Ma che la ribellione in sé possa configurare la costruzione di un’alternativa già in atto, come ipotizzano i teorici rivoluzionari vecchi e nuovi, pare una pretesa davvero eccessiva.

Antonio Carioti, La Lettura del Corriere della Sera, 18 novembre 2012 (link originale)


Come si organizza una protesta efficace? Come si riesce a trasformare il proprio dissenso, e il rifiuto per una classe politica, in un'azione organizzata che riesca a farsi sentire da chi detiene il potere, e a richiamare l'attenzione di tutti? David Graeber, antropologo di fama e teorico di Occupy Wall Street, ha racchiuso l'esperienza di una decennale militanza all'interno del movimento di protesta globale in un libro che non è soltanto una violenta denuncia delle menzogne su cui si reggono i nostri governi, ma anche un vero e proprio manuale "pratico" di reazione, nel quale ognuno di noi può trovare spunti e idee per evitare che la propria indignazione rimanga sterile e per canalizzarla in modo da riuscire, anche solo nel proprio ambito, a cambiare le cose. Un saggio su molti aspetti inaccettabili della nostra democrazia, una chiamata senza appello all'azione e a non abbandonare la speranza in una società più giusta. (Rivoluzione: istruzioni per l'uso, David Graeber - Bur 2012)



«Come cambiare il mondo senza prendere il potere?» si chiedeva il sociologo e militante americano John Holloway nel suo libro più conosciuto. Crack Capitalism ne rappresenta l’approfondita risposta. Una risposta all’apparenza semplice: creando zone di frattura nelle forme di dominio del capitalismo e lasciando che queste fratture si espandano. Secondo Holloway le forme di vita, di relazione, di conflitto, di lavoro che si sottraggono alla logica del capitale non cessano di proliferare. Innumerevoli sono le istanze di produzione di spazi liberi, di spazi della «dignità».
Ma per Holloway si tratta anche di dare a questi spazi una forma che non sia più in alcun modo riconducibile a quella del capitale, dunque una forma quanto più possibile lontana da quello dello Stato.
La nuova grammatica della rivoluzione deve dunque partire dalla forma stessa dell’organizzazione, che è in quanto tale un momento di sottrazione alla dinamica del potere: dalla Comune di Parigi alle asambleas argentine, numerose sono le esperienze storiche e contemporanee a cui guardare. Sono questi momenti quotidiani di ribellione, nei quali sperimentare diverse modi di fare, che rappresentano delle vere e proprie crepe del sistema di sfruttamento(Crack Capitalism, John Holloway - DeriveApprodi 2012)


Che cos'è il debito?
Denaro, crisi e progresso sociale secondo un antropologo.
Philip Pilkington intervista David Graeber



Su cosa si fonda il valore del denaro? Come si origina il debito? Di fronte alla crisi globale che scuote oggi le più potenti economie capitalistiche del pianeta, sono probabilmente molti i profani di economia che, come il sottoscritto, si sono posti magari per la prima volta nella loro vita domande del genere.
Ho quindi deciso di realizzare e pubblicare su questo blog la traduzione di un'interessante intervista all'antropologo (nonché militante anarchico) David Graeber, già professore associato di Antropologia a Yale e oggi assistente di Antropologia Sociale presso la Goldsmiths University di Londra. 
La brillante carrellata storico-antropologica proposta da Graeber nel suo ultimo lavoro, "Debt: the First 5.000 Years" (MelvilleHouse Publ.), ci riporta alle origini del credito nell'Antica Mesopotamia e all'invenzione delle prime forme di moneta coniata da parte dei grandi imperi del passato, offrendo spunti particolarmente interessanti per interpretare la "crisi del debito" che sta sconvolgendo gli equilibri del mondo capitalistico.
L'intervista, disponibile in inglese sul blog naked capitalism, è stata realizzata dal giornalista e scrittore irlandese Philip Pilkington.

Philip Pilkington: La maggior parte degli economisti sostiene che il denaro fu inventato per sostituire il sistema basato sul baratto. Ma le ricerche svolte hanno condotto a risultati completamente diversi, dico giusto?

David Graeber: Sì, c'è una storiella convenzionale che è stata raccontata a tutti noi, un "c'era una volta" – nient'altro che una fiaba, in effetti. Non merita davvero di essere introdotta diversamente da così: secondo questa teoria, in origine tutti gli scambi erano fondati sul baratto. "Sai cosa ti dico? Ti darò venti galline per quella vacca. O tre punte di freccia per quella pelliccia di castoro o per qualcos'altro tu possa offrirmi." Questo creava degli inconvenienti, magari perché il tuo vicino non aveva bisogno di galline in quel momento, ragion per cui si dovette inventare il denaro.
Questa storia risale almeno ad Adam Smith e a suo modo è il mito fondativo della scienza economica. Ora, io sono un antropologo e noi antropologi sappiamo da parecchio che si tratta di un mito, per il semplice fatto che, se ci fossero stati luoghi in cui gli scambi quotidiani si svolgevano secondo la formula "ti darò venti galline per quella vacca", avremmo scoperto almeno uno o due esempi di questa pratica. Dopo tutto, simili esempi sono stati cercati fin dal 1776, anno in cui fu pubblicata per la prima volta "La Ricchezza delle Nazioni". Ma se ci si pensa un attimo, difficilmente può sorprenderci il fatto che non si sia trovato nulla.
Si pensi a cosa sottintende quest'idea. Fondamentalmente, che un qualche gruppo di contadini neolitici, i Nativi americani o altri per essi, effettuavano scambi fra loro soltanto attraverso quelle che noi oggi chiameremmo operazioni a pronto [contrapposte alle operazioni "pronto contro termine", in cui un bene viene ceduto da A a B sul momento, in cambio di un bene di eguale o maggior valore che sarà ceduto nel futuro da B ad A, NdT]. Perciò, se il tuo confinante non ha quello che ti serve in questo momento, niente da fare.
Ovviamente, nella realtà accadrebbe qualcosa di ben diverso – ed è esattamente questo che gli antropologi osservano quando dei confinanti si impegnano in qualcosa come uno scambio reciproco: se vuoi la vacca del tuo vicino, tu diresti "Accidenti che bel capo!", e lui risponderebbe "Ti piace? Prendilo!" – e tu ti troveresti in debito con lui. Abbastanza di frequente, poi, le persone non si impegnano affatto in uno scambio; se si trattasse di Irochesi o di altri Nativi americani, ad esempio, tutti questi beni sarebbero probabilmente redistribuiti dai Consigli delle donne.
Perciò la vera domanda non è come il baratto generò un qualche mezzo di scambio, che assurse poi al rango di "denaro", quanto piuttosto come quel "sono in debito con te", nel suo senso più generale, diede origine ad un sistema preciso di misurazione, vale a dire al denaro come unità di conto.
All'epoca cui risalgono i reperti storici dell'antica Mesopotamia, intorno al 3.200 avanti Cristo, questa transizione è già avvenuta. Esistono già un sistema piuttosto elaborato di denaro di conto e un complesso sistema di credito. Soltanto il denaro inteso come mezzo di scambio o come un insieme standardizzato di unità circolanti in oro, argento, bronzo o altro, arriverà più tardi.
Questa ricostruzione, piuttosto che la classica storiella - quella secondo cui prima sarebbe venuto il baratto, poi il denaro, infine il credito – è la migliore spiegazione oggi a nostra disposizione. Il debito e il credito vennero per primi, quindi la coniazione di moneta emerse a distanza di qualche millennio e infine, quando ti capita di trovare il sistema di baratto del tipo "ti darò venti galline per quella vacca", è di solito in luoghi dove prima c'erano mercati basati sul denaro, ma per qualche motivo – come nel 1998 in Russia, ad esempio – sono collassati, o nei quali la moneta è scomparsa dalla circolazione.

PP: Lei sostiene che all'epoca cui risalgono i primi resoconti storici, redatti in Mesopotamia intorno al 3.200 A.C., c'era già in piedi una complessa architettura finanziaria. All'epoca quindi la società era già divisa in classi di debitori e creditori? Se la risposta è no, quando accadde ciò? Lei crede inoltre che sia questa la più fondamentale divisione in classi della storia umana?

DG: Da un punto di vista storico sembrano esserci due possibilità. Una è quella scoperta nell'Antico Egitto: uno stato fortemente centralizzato e un'amministrazione che riscuoteva delle tasse da chiunque non ne facesse parte. Per la maggior parte della storia egizia, l'usanza di prestare denaro ad interesse non si sviluppa affatto. Probabilmente non ne avevano bisogno.
In Mesopotamia le cose stanno diversamente perché lì lo stato emerse in modo discontinuo e incompleto. Inizialmente c'erano grandi templi in cui vigeva un controllo burocratico, poi fecero la loro comparsa anche dei sistemi di palazzo, ma non si trattava di veri e propri "governi" e non riscuotevano tasse dirette, che erano invece considerate un dovere dei popoli sottomessi. Piuttosto, possiamo dire si trattasse di enormi complessi industriali, con le loro terre, il loro bestiame e le loro fattorie. Fu qui che il denaro venne impiegato per la prima volta, come unità di conto; era utilizzato per redistribuire le risorse all'interno di questi complessi.
I prestiti ad interesse, a loro volta, hanno probabilmente la loro origine negli accordi fra gli amministratori e i mercanti che trasportavano, poniamo, i manufatti in lana prodotti nelle fattorie di proprietà dei templi (che inizialmente erano almeno in parte delle imprese caritatevoli, offrendo ospitalità agli orfani, ai profughi o alle persone disabili, ad esempio) e commerciavano questi beni in terre lontane scambiandole con metallo, legno o pietre preziose. I primi mercati si formarono ai confini di questi complessi e pare funzionassero in larga misura sulla base del credito, utilizzando le unità di conto introdotte nei templi. Tuttavia questa circostanza offrì ai mercanti, agli amministratori dei templi e ad altri individui "ben piantati" l'opportunità di offrire prestiti per il consumo ai contadini per cui, se ad esempio il raccolto andava male, tutti cominciavano a restare invischiati nei debiti.
Fu questa la grande sciagura sociale dell'antichità – le famiglie si trovavano costrette ad ipotecare il bestiame e le terre e, dopo un po', persino le mogli e i figli potevano essere richiesti come pegno per i debiti. Spesso gli individui potevano trovarsi costretti ad abbandonare del tutto le città, unendosi a bande semi-nomadi, minacciando di tornare armati e di rovesciare del tutto l'ordine esistente. I governanti conclusero quindi che l'unico modo per prevenire un completo collasso sociale consisteva nel dichiarare bancarotta o "pulire le tavolette", cancellando tutti i debiti dei consumatori per ricominciare da capo.
Non è un caso che la prima parola che ci è stata tramandata con il significato di "libertà" sia il termine sumerico amargi, che stava per "libertà dai debiti" e che in senso letterale significava "ritorno alla madre": quando veniva dichiarata bancarotta, infatti, tutti i pegni offerti come garanzia del debito potevano "tornare a casa".

PP: Lei ha sottolineato nel suo libro che quello di "debito" era un concetto morale, ben prima di diventare un concetto economico. Ha inoltre notato che si tratta di una nozione morale piuttosto ambivalente, dal momento che può essere intesa sia in senso positivo che negativo. Potrebbe spiegare questo passaggio? Quale dei due aspetti ha svolto il ruolo più importante?

DG: Il concetto tende ad oscillare molto. Si potrebbe riassumere la storia in questo modo: ad un certo punto l'approccio egizio (tasse) e quello mesopotamico (usura) si fusero insieme, e le persone si trovarono a contrarre prestiti per pagare le tasse. Il debito fu istituzionalizzato.
Anche le tasse rappresentarono un passaggio-chiave per la creazione dei primi mercati fondati sulla moneta circolante; pare infatti che la coniazione di monete sia stata inventata, o quanto meno si sia diffusa su ampia scala, per pagare i soldati. Ciò accadde più o meno simultaneamente in Cina, in India e nel Mediterraneo, dove i governi scoprirono che il modo più semplice per garantire l'approvvigionamento delle truppe consisteva nel concedere loro piccole porzioni standard di oro o di argento, e quindi esigere che chiunque altro all'interno della giurisdizione adoperasse quelle stesse monete come mezzo di pagamento per le tasse. Fu così che il linguaggio del debito e quello della morale cominciarono a svilupparsi.
In sanscrito, ebraico ed aramaico, per dire "debito", "colpa" e "peccato" si impiegava in effetti lo stesso termine. Buona parte del lessico dei grandi movimenti religiosi – giudizio, redenzione, equilibrio karmico e via dicendo – derivano dal linguaggio dell'antica finanza. Ma quel linguaggio risultava sempre mancante e inadeguato e cominciò ad essere travisato fino a trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. È come se i grandi profeti e maestri di dottrina non avessero altra scelta che cominciare con quel genere di lessico perché era l'unico lessico disponibile all'epoca, ma che adottandolo l'abbiano stravolto, fino a trasformarlo nel suo opposto: come un modo per dire che i debiti non sono sacri di per sé, ma che il condono dei debiti, o la capacità di azzerarli, o di fare in modo che i debiti non siano effettivi – questi atti sì che sono veramente sacri.
Come accadde ciò? In precedenza ho detto che la grande domanda sull'origine del denaro è come possa essere accaduto che un generico senso di obbligazione ("sono in debito con te") si sia potuto trasformare in qualcosa che poteva essere quantificato in modo preciso. La risposta sembra quindi essere: ciò accade dove c'è la possibilità che la controversia si risolva con la violenza. Se si dà a qualcuno un maiale e in cambio si riceve soltanto qualche gallina, si potrebbe dire di aver a che fare con uno spilorcio, e schernirlo per questo; ma è improbabile che si riesca ad elaborare una formula matematica per misurare questa semplice percezione soggettiva. Ma se qualcuno colpisce il vostro occhio in un combattimento, o uccide vostro fratello, è in casi come questi che si comincia a dire "l'usanza prevede una compensazione di ventisette cavalle sane della migliore razza, e se non sono sane e della migliore razza, questo significa guerra!".
Il denaro, nel senso di un esatto equivalente, sembra emergere da situazioni come queste, ma anche dalla guerra e dal saccheggio, dalla distribuzione del bottino, dalla schiavitù. Nell'Irlanda medievale, ad esempio, la valuta più pregiata era rappresentata dalle schiave. E, in una qualsiasi casa, si sarebbe potuto specificare il valore esatto di ogni cosa, anche se pochissimi di quegli oggetti erano realmente vendibili, per il semplice fatto che erano utilizzati per pagare multe o danni se qualcuno li rompeva.
Ma una volta compreso che tasse e denaro cominciarono a diffondersi con la guerra, diventa più semplice capire cosa accadde realmente. Si tratta di una regola ben nota ai mafiosi. Se si vuole instaurare un rapporto di estorsione violenta, di potere assoluto, e quindi trasformarlo in qualcosa di "morale" – facendo addirittura sembrare che siano le vittime a doversi vergognare – quello che si deve fare è trasformare questo rapporto in uno fondato sul debito: "mi devi parecchio, ma per ora ti concedo ancora un po' di tempo...".
Molti esseri umani nella storia devono aver sentito parole del genere dai loro creditori. Il punto cruciale è: che altra risposta potresti dare se non "aspetta un attimo, chi deve cosa a chi"? E naturalmente per migliaia di anni è precisamente questo che hanno detto le vittime; ma nel momento stesso in cui lo facevano, utilizzavano il linguaggio dei loro governanti, ed ammettevano quindi che debito e moralità erano davvero la stessa cosa. Era questa la situazione che teneva in scacco i pensatori religiosi, e fu per questo che, prendendo le mosse dal linguaggio del debito, essi cercarono di rigirarlo e di traformarlo in qualcos'altro.

PP: Questo modo di pensare somiglia molto a quello di Nietzsche. Nella sua "Genealogia della morale", il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche propose una celebre argomentazione secondo cui tutta la moralità si fondava sulla riscossione dei debiti sotto la minaccia della violenza. Il senso di obbligazione instillato nel debitore era, per Nietzsche, l'origine della civiltà in quanto tale. Lei ha studiato nel dettaglio come moralità e debito si intrecciano fra loro. Come le sembra l'argomentazione nietzscheana a distanza di più di 100 anni? E cosa ritiene sia venuto prima: la moralità o il debito?

DG: Per essere onesti, non sono mai stato tanto sicuro che Friedrich Nietzsche parlasse seriamente in quel passaggio, o se l'intera argomentazione non fosse piuttosto un modo per scandalizzare il suo pubblico borghese; un modo insomma per sostenere che se si parte dalle assunzioni del pensiero borghese riguardo alla natura umana, il ragionamento conduce in modo logico ad una conclusione che metterà a disagio gran parte di quel pubblico.
In effetti, Nietzsche fa partire il suo ragionamento esattamente dalle stesse premesse da cui aveva preso le mosse Adam Smith: gli esseri umani sono razionali. Ma qui razionalità significa calcolo e scambio, e dunque commercio e baratto; vendere e comprare è allora la prima espressione del pensiero umano ed è quindi antecedente a qualsiasi tipo di relazione sociale. Ma ciò rivela allora in modo esatto per quale motivo Adam Smith sosteneva che gli uomini neolitici interagissero attraverso il commercio "a pronto". Infatti, se non intratteniamo alcuna precedente relazione su basi etiche, e la moralità emerge soltanto attraverso lo scambio, allora le relazioni sociali in via di sviluppo fra due individui si formeranno solo se lo scambio è incompleto – ossia se qualcuno non ha pagato.
In questo caso, una delle due parti agisce in modo criminale, e la giustizia dovrà essere istituita per consentirne la punizione tramite vendetta. Da ciò ne consegue pertanto che tutti i codici di leggi, quando ricorrono a formule del tipo "venti cavalle per un occhio strappato", in origine implicavano precisamente il contrario. Se devi a qualcuno venti cavalle e non sei in grado di assolvere il tuo debito, costui è autorizzato a strapparti l'occhio. L'etica inizia con la "libbra di carne" di Shylock.
Inutile dire che non c'è alcuna prova di tutto questo – Nitezsche inventò il ragionamento da cima a fondo. La domanda è semmai se credeva davvero nella sua argomentazione. Forse sono un ottimista, ma preferisco credere che non ci credesse sul serio. In ogni caso, il ragionamento ha senso se si prendono per buone quelle premesse; ossia che tutte le interazioni umane sono basate sullo scambio e, quindi, che tutte le relazioni che si sviluppano a partire da lì, sono fondate sul debito. Queste assunzioni fanno a pugni con tutto quello che oggi sappiamo o di cui facciamo esperienza riguardo alla vita umana. Ma se si comincia a pensare che il mercato è il modello per tutto il comportamento umano, le conclusioni sono queste.
Se al contrario si abbandona del tutto il mito del baratto, si assume come premessa una comunità dove gli individui intrattengono relazioni morali anteriori allo scambio, e ci si chiede come accadde che queste relazioni finirono per essere inquadrate in termini di "debiti" – il che vuol dire come qualcosa di esattamente quantificabile, impersonale e quindi trasferibile – beh, in questo caso si pone una domanda completamente diversa. In questo caso sì, bisogna considerare anzitutto il ruolo della violenza.

PP: Interessante. Forse è questo il momento giusto per chiederle come vede la sua ricerca sul debito in rapporto al classico saggio sul dono del grande antropologo francese Marcel Mauss.

DG: A suo modo, il mio lavoro rientra nel solco della tradizione maussiana. Marcel Mauss fu uno dei primi antropologi a chiedersi: va bene, ma se non cominciò con il baratto allora come? Come si comportano i popoli che non usano il denaro quando i beni cambiano di mano? Gli antropologi hanno documentato una varietà infinita di sistemi economici del genere, ma non hanno sviluppato dei veri e propri principi generali. Mauss notò che in quasi tutti questi sistemi, ognuno si comportava come se stesse semplicemente regalando qualcosa ad un altro, negando in modo deciso di aspettarsi qualcosa in cambio. Ma in realtà tutti sottintendevano delle regole implicite e coloro che ricevevano si sentivano obbligati ad offrire qualcosa in cambio.
Ciò che affascinava Mauss era il fatto che ciò sembrava essere universalmente vero, persino oggi. Se invito a pranzo un economista liberista, lui si sentirà in dovere di rendermi il favore e di invitarmi a pranzo in un'altra occasione. Potrebbe persino pensare di essere uno sciocco se non lo fa, e questo anche se la sua teoria gli suggerisce che ha semplicemente ottenuto qualcosa in cambio di nulla e dovrebbe esserne felice. Perché funziona così? Qual è la forza che mi fa sentire in obbligo di offrire un controdono?
Si tratta di un punto molto importante, e dimostra che esiste sempre una qualche moralità sottesa a quella che chiamiamo "realtà economica". Ma mi colpisce il fatto che se ci si concentra troppo su un solo aspetto della tesi di Mauss, si finisce di nuovo per ridurre tutto allo scambio, solo con l'aggiunta della clausola per cui alcuni fingono di non essere interessati ad ottenere nulla in cambio. In realtà Mauss non pensava a tutti in termini di scambio. Questo diventa chiaro se si leggono gli altri suoi saggi oltre a quello sul dono. Mauss insisteva sul fatto che oltre alla reciprocità ci sono molti principi differenti all'opera in ogni società, inclusa la nostra.
Come esempio, si potrebbe citare la gerarchia. Doni offerti a individui di rango superiore o inferiore non devono essere affatto ricambiati. Se un altro professore invita a cena il nostro economista, di sicuro egli si sente in dovere di ricambiare; ma se lo fa una matricola, penserà probabilmente che accettare l'invito sia già di per sé abbastanza. E se è George Soros ad offrirgli la cena, in quel caso non si sentirà affatto obbligato ad offrire qualcosa in cambio. In relazioni esplicitamente asimmetriche, se si dà qualcosa a qualcuno, lungi dall'offrire un favore in cambio, è assai più probabile che gli altri si aspettino che lo si faccia di nuovo.
Un altro esempio sono le relazioni di tipo comunistico – definisco questo tipo di relazioni, in accordo con Mauss, come quelle in cui gli individui interagiscono sulla base del principio "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". In relazioni del genere gli individui non si affidano alla reciprocità dello scambio; ciò accade ad esempio quando cercano di risolvere un problema, persino dentro un'impresa capitalistica (come dico sempre, se un dipendente della Exxon dice, "passami il cacciavite", l'altro non gli risponde "certo, ma cosa mi dai in cambio?"). In un certo senso, il comunismo è alla base di tutte le relazioni sociali, nella misura in cui se il bisogno è sufficientemente grande (sto affogando) o il costo da sostenere abbastanza ridotto (posso avere della luce?) ci si aspetta che tutti agiscano in quel modo.
In ogni caso, ecco cosa ho ripreso da Mauss: ci saranno in ogni caso molti principi di tipo diverso che agiscono in modo simultaneo in un qualsiasi sistema sociale o economico, ed è questo il motivo per cui non potremo mai rendere tutto ciò oggetto di una vera e propria scienza. L'economia ci prova, ma lo fa ignorando tutto eccetto lo scambio.

PP: Spostiamoci allora sul terreno della teoria economica. Gli economisti hanno alcune teorie abbastanza specifiche sulla natura del denaro. C'è l'approccio più diffuso che abbiamo già discusso brevemente; c'è la cosiddetta teoria del bene-moneta (Commodity Theory of Money), secondo cui alcuni beni specifici sono stati adottati come mezzi di scambio per rimpiazzare le rudimentali economie fondate sul baratto. Ma ci sono anche delle teorie alternative, oggi più in voga. Una è la teoria circuitista (Monetary Circuit Theory), secondo cui tutto il denaro deriva dalla creazione di debito all'interno del sistema bancario. L'altra – che integra l'approccio circuitista – è la teoria cartalista (Chartalism), per la quale tutta la moneta è un mezzo di scambio rilasciato da un ente sovrano e sostenuto dalla capacità, da parte di quell'ente, di riscuotere tributi. Spenderebbe qualche parola su queste teorie?

DG: Una delle mie fonti d'ispirazione per "Debt: The First 5.000 Years" è stato il saggio di Keith Hart intitolato "Two Sides of the Coin" ("Le due facce della moneta"). In quel saggio Hart sottolinea che non solo le diverse scuole economiche hanno differenti teorie sulla natura del denaro, ma che c'è anche motivo di credere che entrambe hanno ragione. Per la maggior parte della sua storia, il denaro è stato una strana entità ibrida che presenta le caratteristiche sia di un bene (la moneta intesa come oggetto) sia di una forma sociale (credito).
Quello che penso di aver detto in più rispetto a questa tesi, è che da un punto di vista storico, pur essendo sempre stato entrambe le cose, il denaro ha oscillato avanti e indietro: ci sono stati periodi in cui il credito veniva per primo, per cui si può adottare più o meno la teoria cartalista della moneta; e ci sono stati periodi in cui predominava la moneta corrente, per cui risultano più utili le teorie del bene-moneta. Tendiamo a dimenticare , ad esempio, che nel medioevo, dalla Francia alla Cina, il cartalismo era nulla più che senso comune: il denaro era pura convenzione; in pratica, era qualsiasi cosa il re fosse disposto ad accettare come pagamento delle tasse.

PP: Lei afferma che la storia oscilla fra periodi di moneta-bene e periodi di moneta virtuale. Non pensa che abbiamo raggiunto una fase nella storia in cui, grazie all'evoluzione tecnologica e culturale, potremmo assistere alla scomparsa definitiva della moneta-bene?

DG: I cicli si stanno facendo via via più brevi man mano che andiamo avanti. Comunque ritengo che dovremo aspettare almeno 400 anni per scoprire se le cose stanno davvero così. È possibile che questa era si stia avvicinando al termine, ma sono più preoccupato dal fatto che ora viviamo in un periodo di transizione.
Le ultime volte in cui abbiamo assistito ad uno slittamento dalla moneta-bene alla moneta di credito non è stato esattamente un bello spettacolo. Per citarne alcune abbiamo la caduta dell'Impero Romano, l'Era di Kali in India e il crollo della dinastia Han... ci furono morte, catastrofi e massacri. Quello che ne risultò fu per molti versi profondamente liberatorio per la gran parte di coloro che sopravvissero – le forme schiavitù basate sull'equiparazione degli schiavi ad oggetti (chattel slavery) furono, ad esempio, in larga parte abbandonate dalle grandi civiltà. Si trattò di un risultato storico di grande rilievo. Il declino delle città significò, per molte persone, ridurre parecchio il lavoro. In ogni caso, tutti ci auguriamo che la transizione questa volta non sia così epica nelle sue dimensioni. Soprattutto se si considera che oggi i mezzi di distruzione sono di gran lunga più potenti.

PP: Cosa ritiene giochi il ruolo più importante nella storia dell'umanità: il denaro o il debito?

DG: Dipende dalle definizioni. Se si definisce il denaro nel senso più ampio del termine, come unità di conto mediante cui è possibile stabilire, poniamo, che 10 di questo valgono 7 di quest'altro, possiamo affermare non ci può essere debito senza denaro. Il debito è soltanto una promessa che può essere quantificata nei termini della moneta (e che in questo modo diventa impersonale e trasferibile). Ma se mi sta chiedendo quale è stata la forma più importante che ha assunto il denaro, il credito o la moneta coniata, in tal caso la mia risposta sarebbe: il credito.

PP: Passiamo ora ad alcuni problemi d'attualità. Sappiamo che in molti stati occidentali, negli ultimi anni, le famiglie hanno contratto debiti enormi ricorrendo alle carte di credito e alle ipoteche (queste ultime rappresentano una delle cause principali della recente crisi finanziaria). Alcuni economisti affermano che la crescita economica, a partire dall'era di Clinton, si è basata essenzialmente su un aumento insostenibile dei debiti delle famiglie. Da un punto di vista storico, come dovremmo considerare questo fenomeno?

DG: Da una prospettiva storica, è piuttosto inquietante. In realtà ci potremmo spingere più un là dell'era Clinton – si potrebbe dire che quella che stiamo vedendo oggi è la stessa crisi che ci trovavamo ad affrontare negli anni '70; semplicemente, siamo riusciti a schivarla per 30 o 35 anni proprio grazie a tutti quegli elaborati strumenti di credito (e, naturalmente, con l'iper-sfruttamento del Sud globale attraverso i debiti contratti dai paesi del Terzo Mondo).
Come ho detto, la storia eurasiatica, presa nei suoi contorni più generali, oscilla avanti e indietro fra periodi dominati dalla moneta di credito, virtuale, e periodi dominati invece dalla moneta coniata e dai lingotti. Il sistema di credito dell'antico Vicino Oriente aprì la strada ai grandi imperi schiavisti dell'era classica in Europa, India e Cina, che utilizzavano la coniazione per pagare le truppe al loro servizio. Con il medioevo, gli imperi vennero meno e lo stesso destino subì la coniazione, con l'oro e l'argento custoditi in larga parte in templi e monasteri. Il mondo tornò così al credito. Dopo il 1492, tornano sulla scena i grandi imperi mondiali, e, con essi, ricompaiono la valuta d'oro e d'argento e la schiavitù.
Quello che è accaduto da quando Nixon ha abolito il gold standard nel 1971 ha rappresentato nient'altro che un'ulteriore giro di ruota, anche se ovviamente transizioni del genere non accadono mai due volte allo stesso modo. Nel passato, i periodi dominati dalla moneta virtuale di credito furono anche periodi in cui esistevano forme di protezione sociale per i debitori. Se si riconosce che il denaro è soltanto una convenzione sociale, un credito, un "pagherò", allora la priorità è comprendere cosa può frenare le persone dal generare denaro senza fine. Ancora: come si previene la circostanza per cui i poveri finiscono intrappolati nel debito e diventano di fatto asserviti ai ricchi? È stato per risolvere problemi del genere che abbiamo avuto la "pulitura delle tavolette" in Mesopotamia, i Giubilei, e le leggi medievali contro il prestito ad usura sia nel mondo cristiano che in quello islamico.
Già nell'antichità si pensava che il peggior scenario in grado di condurre alla dissoluzione della società era proprio una grossa crisi del debito; le persone comuni erano così indebitate con quell'uno o due percento della popolazione che deteneva il grosso della ricchezza, da trovarsi costrette a cedere in schiavitù membri della famiglia o addirittura se stessi.
Cosa accade invece oggi? Anziché dar vita a qualche genere di istituzione sovraordinata per proteggere i debitori, si creano queste immani istituzioni planetarie come il Fondo Monetario Internazionale e Standard & Poor's per proteggere i creditori. Queste istituzioni dichiarano, in spregio ad ogni logica economica, che a nessun debitore dovrebbe essere consentito fallire. Inutile a dirsi, il risultato è catastrofico. Stiamo sperimentando qualcosa che – a me, almeno – ricorda le circostanze tanto temute dagli antichi: una popolazione di debitori che cammina sull'orlo del disastro.
Dovrei aggiungere che se Aristotele fosse tra di noi oggi, dubito seriamente che penserebbe che la distinzione fra affittare o vendere se stessi o membri della propria famiglia per lavorare, sia qualcosa di più che una sfumatura legale. Concluderebbe probabilmente che la maggior parte degli americani sono, da tutti i punti di vista, schiavi.

PP: Ha detto che il FMI e S&P sono istituzioni tese principalmente a riscuotere debiti in nome dei creditori. Questo sembra anche essere il caso dell'Unione Monetaria Europea. Cosa pensa dell'attuale situazione europea?

DG: Penso sia un chiaro esempio del perché le attuali condizioni sono chiaramente insostenibili. Ovviamente "l'intero debito" non può essere pagato. Ma anche quando alcune banche francesi hanno offerto volontariamente garanzie per la Grecia, le altre hanno insistito nel trattarla in ogni caso come se fosse fallita. La Gran Bretagna ha preso una posizione persino più assurda, secondo cui questo vale anche per i debiti che i governi devono alle banche che sono state nazionalizzate – il che vorrebbe dire, tecnicamente parlando, che lo stato è debitore di se stesso! Se ciò significa che coloro che percepiscono pensioni di invalidità non saranno più nelle condizioni di usufruire del trasporto pubblico, o che i centri giovanili devono essere chiusi, questa ci viene presentata semplicemente come "la realtà dei fatti".
Questa "realtà dei fatti" appare sempre più chiaramente come la realtà del potere. In tutta chiarezza, ogni pretesa che i mercati si autosostengano e che i debiti siano sempre onorati, è stata spazzata via nel 2008. Questo è uno dei motivi per cui a mio avviso assisteremo ad una reazione molto simile a quella che abbiamo visto al culmine della crisi del debito del Terzo Mondo – ciò che fu chiamato, in modo piuttosto assurdo, il "movimento no-global". Questo movimento chiedeva una democrazia autentica, e sperimentò al suo interno forme di democrazia diretta e orizzontale. Dall'altra parte c'era la temibile alleanza tra le élite finanziarie e i burocrati delle istituzioni globali (FMI, Banca Mondiale, WTO, oggi l'Unione Europea...).
Quando migliaia di persone cominciano a radunarsi nelle piazze in Grecia e Spagna, chiedendovera democrazia, quello che stanno realmente dicendo è: "nel 2008 avete fatto scappare i buoi dalla stalla. Ma se il denaro è soltanto una convenzione sociale, una promessa, un 'pagherò', e se persino miliardi di debiti possono essere cancellati se dei concorrenti sufficientemente potenti lo chiedono; se le cose stanno in questo modo, e se 'democrazia' significa davvero qualcosa, allora tutti devono avere voce in capitolo nel processo decisionale che stabilirà su quali basi queste promesse sono state fatte e come vanno rinegoziate". Trovo tutto ciò straordinariamente incoraggiante.

PP: Parlando in generale, come pensa si svilupperà l'attuale crisi finanziaria e dei debiti sovrani? Senza chiederle di leggere nella proverbiale sfera di cristallo, cosa pensa ci attenderà nel futuro? In che direzione dovremmo orientarci?

DG: Ragionando sul lungo termine, sono abbastanza ottimista. Avremmo dovuto cominciare a fare qualcosa già almeno 40 anni fa; certo che se pensiamo nei termini di cicli di 500 anni, 40 anni non sono nulla. Forse si riconoscerà finalmente che in una fase dominata dal denaro virtuale, devono essere attuate alcune misure di sicurezza, e non solo per proteggere i creditori. Quanti disastri occorreranno perché si cominci a ragionare in questi termini? Non saprei dirlo.
Ma c'è un'altra domanda che dobbiamo porci: una volta che avremo realizzato queste riforme, quello che ne risulterà potrà essere ancora chiamato "capitalismo"?

venerdì 16 novembre 2012

Più lontano ancora, di Jonathan Franzen


Una cosa strana di Robinson Crusoe è che, nei venticinque anni trascorsi sulla sua isola della Disperazione, non gli capita mai di annoiarsi. Parla della monotonia delle prime fatiche, certo, e più tardi ammette di essere «assai stanco» di perlustrare l’isola in cerca di cannibali; si lamenta di non avere una pipa per fumare il tabacco che trova sull’isola, e descrive il primo anno in compagnia di Venerdì come «l’anno più bello fra quanti ne trascorsi in questo luogo». Ma la moderna ricerca di stimoli è del tutto assente. (Il dettaglio più sorprendente del romanzo sono forse i «tre grossi barili di rum o di liquori forti» che Robinson fa durare per un quarto di secolo; io li avrei finiti nel giro di un mese, per non pensarci più). Anche se non smette mai di sognare la fuga, ben presto arriva a provare «una sorta di segreto piacere» per la sua proprietà assoluta dell’isola:

Considerai ora il Mondo come una cosa remota dove nulla c’era da desiderare o sperare, da cui nulla dovevo attendere, in una parola con cui niente avevo a che fare e con cui verosimilmente non avrei avuto più a che fare; mi pareva di vederlo come probabilmente lo guarderemo dopo questa vita.

Robinson riesce a sopravvivere alla solitudine perché è fortunato; si riconcilia con la sua condizione perché è un uomo ordinario, e la sua isola è concreta. David (David Foster Wallace, ndr), che era un uomo straordinario su un’isola virtuale, alla fine riusciva a sopravvivere solo grazie al suo io interessante, e il problema di trasformare se stessi in un mondo virtuale è simile a quello di proiettarsi in un cibermondo: gli spazi virtuali in cui cercare stimoli sono infiniti, ma è proprio questa infinitezza, questo perpetuo stimolo privo di soddisfazione, che diventa una prigione. Essere tutto e di più è anche l’ambizione di internet.

Jonathan Franzen, Più lontano ancora - Einaudi 2012

venerdì 9 novembre 2012

La famiglia Fang, di Kevin Wilson


“E' solo una bambina”, rispose Camille. 
“E' un'artista, proprio come noi; solo che non lo sa ancora”.
“E' una bambina, Caleb”.
“E' una Fang”, rispose lui. "Questo viene prima di qualunque altra cosa”. 
Guardarono Annie, che li fissava sorridendo: una bella, raggiante stella del cinema bambina. Anche se i Fang non potevano esserne sicuri, sembrava che dicesse: “Io ci sto”. 
“C'è un altro centro commerciale a una trentina di chilometri di distanza”, disse Caleb. 
Tirò fuori i nove dollari e le monetine e li posò sul tavolo. “E un altro ancora a circa un'ora da qui”. 
Camille fece una pausa. Amava l'arte, anche se non sempre era sicura di cosa fosse. Amava il marito. Amava la bambina. Era così strano mettere insieme tutte queste cose e vedere cosa sarebbe successo? Hobart aveva detto che i bambini uccidono l'arte, ma lui cosa ne sapeva? Gli avrebbero dimostrato che si sbagliava. I bambini potevano produrre arte. La loro bambina era capace di produrre la più stupefacente delle arti. 
“D'accordo”, rispose. 
“Sarà bellissimo”, disse Caleb, stringendole una mano, così forte che quando lasciò la presa le formicolava. 
Si alzarono, come una famiglia, e uscirono dal centro commerciale, alla luce del sole, ansiosi di mutare forma a ciò che li circondava, di far esplodere qualcosa e osservare i frammenti posarsi attorno a loro come fiocchi di neve.


  
"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia è infelice a modo suo" ; e poi ci sono le famiglie disfunzionali dell'arte, come i Tenembaum, o i fratelli Glass di Salinger. A questa tipologia appartiene la famiglia Fang, protagonista dello scoppiettante ed enigmatico romanzo di Kevin Wilson. 
Caleb e Camille Fang sono due artisti concettuali, al culto dell'Arte interamente dediti; mettono in scena bizzarre performances situazioniste ambientate perlopiù in centri commerciali, con esiti quasi sempre disastrosi, e in tali performances, coinvolgono e utilizzano i propri figli (la bambina A, Annie, e il bambino B, Buster). 
I due bambini, cresciuti, abbandonano la famiglia e intraprendono carriere artistiche per conto proprio, carriere e vite sotto il segno dello sbandamento. Depressi e disadattati, entrambi si rifugiano nella vecchia casa di famiglia, ma non sanno cosa li aspetta. I genitori Fang li coinvolgeranno nell'ultima estrema performance: la loro scomparsa. I due ragazzi realizzeranno cosi' l'impossibilità di uscire dalla rete di follia creata dai loro genitori, e di vivere un'esistenza normale. Wilson, in modo divertente e pirotecnico, e insieme amaro e inquietante, affronta quel Moloch che è il mito dell'Arte contemporanea, e, più in generale, il mito dell'atto creativo. Per i libertari coniugi Fang, l'Arte è il valore supremo in nome del quale immolare anche i figli, condannandoli, di fatto, all'infelicità. La vita, per i due ragazzi, non può che essere performance, abituati fin da piccoli alle rappresentazioni che hanno come scopo la ricostruzione immaginaria del reale, la ricerca di identità altre. Smarriti in questo dedalo, i due fratelli Fang, incapaci di vivere se non in situazioni 'artistiche' portate all'estremo, non riescono a uccidere i propri genitori.    

(Votato come miglior libro del 2011 dal New York Times e dal Publishers Weekly, il romanzo di Wilson è già stato opzionato da Nicole Kidman per trarne un film.)

Laura Anfossi


Probabili influenze fenomeniche del signor Wilson:

Joseph Francis Keaton nasce a Pickwick nel Kansas il 4 ottobre 1895. È ilprimo dei tre figli di una famiglia di artisti di vaudeville e molto precocemente dimostra una spiccata passione per la ribalta e una naturale propensione per il mondo dello spettacolo. È egli stesso a raccontare, nella sua autobiografia, che quando era ancora in fasce, non appena imparò ad andare a carponi, si diresse sul palcoscenico dove si stavano esibendo i suoi genitori ricevendo così i primi applausi della sua vita.
Sin dall’età di due o tre anni, il fine ultimo della sua esistenza è stato quello di riuscire a far ridere la gente, dimostrando in questo modo come per lui la creazione comica fosse un fatto puramente innato, istintivo ed esclusivo. Suo padre Joe Keaton (1867-1946) proveniva da una famiglia di contadini del Midwest. Quando era ancora molto giovane decise di partire per l’Oklahoma alla ricerca di fortuna e di una terra vergine da coltivare nei territori neocolonizzati dell’Ovest. All’età di ventisei anni per una paga settimanale di tre dollari più vitto e trasporto, Joe entrò a far parte del Medicine Show ambulante di Cutler e Bryant. Solamente dopo aver attaccato manifesti, distribuito volantini e aiutato la compagnia ad allestire il tendone per lo spettacolo, poteva salire sul palcoscenico, esibirsi in giochi di forza e numeri di destrezza, fare qualche salto mortale, recitare un monologo truccato da Blackface, cantare una canzone e poi interpretare la parte del medico imbonitore che cercava di vendere alla gente del posto la miracolosa pozione degli indiani Kickapoo. Ad accompagnarlo al pianoforte durante le sue esibizioni, c’era la figlia sedicenne del proprietario dello show, Myra Edith Cutler (1877-1955). I due si sposarono nel Nebraska l’anno successivo.
Dopo il matrimonio, Joe e il suo amico Harry Houdini, insieme alle rispettive mogli, decisero di allestire il loro Medicine Show che portarono in giro nel Kansas del sud con il nome di California Concert Company. Lo spettacolo iniziava con Joe e Myra che eseguivano un numero musicale in cui lui cantava e lei suonava il sax. Houdini interpretava la parte del dottore che vendeva l’elisir in grado di curare ogni male al costo di un dollaro la bottiglia, ma prima faceva sempre qualche trucco con le carte e stupiva gli spettatori sfilandosi dai polsi con estrema facilità le manette dello sceriffo locale.
Fu proprio colui che viene considerato il più grande illusionista di tutti i tempi a coniare per il piccolo Keaton il nomignolo di Buster, dopo averlo visto ruzzolare da una rampa di scale a soli sei mesi senza farsi alcun male. Buster significa letteralmente “fenomeno”, è un’esclamazione spesso usata nei confronti di qualcuno che fa una cosa strabiliante, eccezionale. Nel linguaggio tecnico può far riferimento a ciò che è gommoso, pneumatico, che rimbalza. Da quel giorno in poi tutti lo hanno sempre chiamato così. All’età di cinque anni Buster si era già guadagnato la fama di ragazzino terribile del vaudeville, un bambino prodigio che si esibiva regolarmente due volte al giorno (mattina e sera) nello spettacolo dei suoi genitori. Joe decise così che poteva meritarsi a pieno titolo il nome sulle locandine come membro dei “The Three Keatons”, con la qualifica di “straccio umano”, la cui funzione era quella di essere trascinato dal padre sul palcoscenico come se fosse un sacco di patate, o quella di essere usato come una scopa per spazzare il pavimento, per poi venir colpito con calci e pugni e infine lanciato tra le quinte, in platea o nel pozzetto dell’orchestra.


(Buster Keaton, monografia di Andrea Cocchini)

giovedì 8 novembre 2012

Sono tutte storie, intervista a Nick Hornby


La recensione è finita. Morta, sepolta, archiviata: «Nell’era del web, dove i consumatori danno la pagella online a tutto, dagli hotel ai ristoranti, dai film alla musica, dalle automobili allo sport, la figura del critico letterario che scrive ogni settimana le sue recensioni è destinata a scomparire, se non è già scomparsa, così come non esistono più molti giornali che pubblicano pagine e pagine di recensioni di libri». Parola di uno che ne ha scritte centinaia, o forse migliaia, così tante da averle raccolte ormai in quattro volumi, l’ultimo dei quali, Sono tutte storie, esce in questi giorni in Italia pubblicato da Guanda. Ma quelle di Nick Hornby, come precisa subito lui stesso, non sono vere recensioni: sono un diario, un viaggio, una scusa per discorrere di politica, calcio, figli, sesso, rock, insomma di qualunque cosa e dunque anche di letteratura. Inviate ogni mese, da anni, a The Believer, il mensile letterario di Dave Eggers, si leggono come un prolungamento dei romanzi che hanno fatto di Hornby il più popolare scrittore inglese della sua generazione, da Febbre a 90 ad Alta fedeltà: una sorta di flusso di coscienza della nuova narrativa, una voce inconfondibile che non si riesce a smettere di ascoltare.

Come è cambiato il ruolo del recensore, del critico, nell’era digitale? 

«È irriconoscibile. Quando ero più giovane e i giornali mi commissionavano recensioni, avevo un sacco di lavoro, ben pagato per di più. Adesso la gente dà i voti da sola sul web a quello che mangia, guarda, ascolta, legge. È sempre meno necessario, sempre meno importante, aspettare che il critico dalla torre d’avorio dica che film vedere o che libri comprare». 

Lei però continua a farlo. 

«Ma io non mi metto nella parte del critico di professione. Perlomeno non mi ci metto più. Le mie rubriche sui libri sono scritte dal punto di vista di un lettore ordinario, che oltretutto prende i libri come una scusa per dialogare in libertà di un sacco di altre cose. E una specie di diario in pubblico». 

Nella raccolta di questo volume parla di un’altra conseguenza di Internet: la crescente difficoltà di leggere romanzi di 600 pagine o più. 

«Non dipende solo da internet, ma indubbiamente il digitale ha accelerato la nostra esistenza. Veniamo continuamente interrotti o sollecitati da qualcosa che ci distrae. E in più, o anche per questo, le nostre vite sono sempre più di corsa. Chi ha tempo di leggere Guerra e pace, la sera, dopo avere lavorato, cucinato e messo a dormire i bambini? I libri di 600 o 800 pagine non si possono leggere al ritmo di due-tre pagine per sera, vanno consumati più in fretta, più intensamente, con ingordigia, non sbocconcellati, ma oggi la maggior parte di noi può fare questo solo in vacanza, o se sei molto giovane, disoccupato o pensionato». 

Infatti molti romanzi tendono a essere sempre più corti. Secondo Ian McEwan, ciò non è necessariamente un male, anzi: per lui la forma suprema di letteratura è la novella, il racconto o romanzo breve. E’ d’accordo? 

«Non molto. La narrativa ha tante forme, il racconto, il romanzo breve, il romanzo di media lunghezza, il romanzone, e non direi che una sia superiore alle altre. Secondo me non dipende dalle dimensioni, bensì dalla qualità dello scrittore».


A proposito di Guerra e Pace, in questo libro lei elogia tra gli altri I posseduti, un volume di critica letteraria, sebbene non solo di critica letteraria, della giovane autrice americana Elif Batuman, la quale esalta i romanzieri russi dell’Ottocento, a partire dal Dostoevskij dei Demoni, come i più grandi in assoluto. E’ vero che ogni popolo esprime al meglio una particolare forma di creatività,gli italiani l’opera, i tedeschi la musica sinfonica, i fiamminghi la pittura, i russi la letteratura, e così via? 

«Penso che, per ragioni piuttosto complicate, ci siano periodi in cui una cultura nazionale eccelle in un campo o nell’altro. Ma non credo sia una predisposizione genetica, assoluta, definitiva. I russi dell’Ottocento erano scrittori meravigliosi, eppure è un pezzo che non leggo con trepidazione uno scrittore russo. Direi lo stesso per un pittore fiammingo e un compositore tedesco. Sebbene non mi azzarderei a criticare la lirica italiana, di qualsiasi epoca». 

In un capitolo afferma di non leggere volentieri nessuno scrittore del lontano passato, escluso Shakespeare: davvero non farebbe altre eccezioni? 

«Quando ero ragazzo, pensavo che Shakespeare fosse una barba tremenda. A me interessavano altre cose: la musica rock, i fumetti, la cultura popolare. Ero convinto che i cosiddetti classici della letteratura fossero una pizza destinata al mondo accademico. 
Solo invecchiando ho capito che Shakespeare, al suo tempo, “era” cultura popolare, e lo stesso vale per Dickens e tanti altri classici della letteratura. Bisogna solo capire che c’è un tempo per leggere tutto, e che non si deve avere fretta, né tantomeno pensare che leggere un certo autore o un certo libro sia un dovere. Se “devi” fare qualcosa, pensi subito che sarà poco divertente, e ti passa la voglia. Perciò tanti giovani preferiscono un videogioco a un romanzo. 
Lasciamo che leggano quel che vogliono, senza sensi di colpa, e allora forse si divertiranno e leggeranno di più. Shakespeare, eventualmente, lo leggeranno da grandi». 

In un altro capitolo, ricorda con nostalgia la scoperta di Patti Smith durante la sua giovinezza e tutto il mondo che c’era dietro. Era più facile trovare l’ispirazione per scrivere, in quel tipo di mondo, anziché nel mondo delle catene di negozi tutti uguali in cui viviamo oggi? 

«Resto convinto che la colpa principale del fatto che oggi ci sono meno scrittori capaci di affascinare i lettori sia degli scrittori medesimi, perché non riescono a stabilire una connessione con la gente. Sì, il mondo di Patti Smith era un’ispirazione fantastica, ma era anche molto ristretto: chi la conosceva, allora, al di fuori degli angoli bui della controcultura e dell’ avanguardia musicale e artistica? Penso che anche oggi esistano artisti così. Il problema, casomai, è che ci sono sempre meno angoli bui: tutto viene rapidamente scoperto, commercializzato, consumato. Ma da qualche parte, se uno vuole, l’ispirazione creativa può trovarla anche oggi». 

Lei che è notoriamente un grande appassionato di football, una volta ha detto che ci sono più buoni libri che belle partite di calcio. Rovesciando il paragone, che libri ha letto, nell’ultimo anno, all’altezza di Barcellona - Real Madrid?

«Nessuno, ahimè. Un paragone che non si può fare. Non ci sono dei Messi e dei Cristiano Ronaldo, nella narrativa contemporanea. A consolazione della quale aggiungo però che una partita ti emoziona in 90 minuti, per un libro ci vogliono tempi più lunghi: uno scrittore non può tornare negli spogliatoi a pagina 50, deve continuare a palleggiare e tirare in porta per altre 100-200 pagine, e questo è molto più difficile». 

Per finire dove abbiamo cominciato, con il web: lei legge libri su Kindle? 

«Qualche volta, in viaggio. Per il resto preferisco la carta. Ma appartengo alla generazione dei dinosauri, i miei figli sono cresciuti con uno schermo digitale ed è li che leggono anche i libri. Non credo che il libro di carta scomparirà così presto come il recensore e le recensioni tradizionali, ma non penso nemmeno che gli e-book faranno rimpicciolire gli scrittori. Se diventeremo più piccoli, sarà solo colpa nostra, non del mezzo su cui veniamo letti».

“Sono tutte storie” di Nick Hornby, pubblicato da Guanda pagg. 200
Intervista e articolo di Enrico Franceschini, la Repubblica 7 novembre 2012

martedì 6 novembre 2012

L'invenzione della solitudine, di Paul Auster


Trovati in casa: un orologio, dei maglioni, una giacca, una sveglia, sei racchette da tennis e una vecchia Buick rugginosa che fatica a camminare. Un servizio di piatti, un tavolino da caffè, tre o quattro lampade. Statuetta da bar di Johnnie Walker per Daniel. Album familiare spoglio, Questa è la Nostra Vita: gli Auster
All’inizio pensavo che conservare questi oggetti sarebbe stato un sollievo, che mi avrebbero ricordato mio padre, facendomi pensare a lui nei successivi momenti della sua vita. Ma poi gli oggetti sono soltanto oggetti. Mi ci sono abituato ormai, comincio a sentirli miei. Guardo l’ora sul suo orologio, indosso i suoi maglioni, guido la sua auto: e tutto questo non è che un’illusione di intimità. Mi sono già impadronito delle sue cose, e mio padre è sparito da esse per tornare invisibile. E presto o tardi anche loro morranno, andranno a pezzi e bisognerà buttarle via. Dubito che sembrerà un gesto importante. 
«...qui appare giusto che solo chi lavora mangi del pane, solo chi ha conosciuto le tribolazioni trovi riposo, solo chi è sceso nel mondo degli inferi ne riporti l’amata, solo chi ha sguainato il coltello riàbbia Isacco... Colui che non lavorerà si annoti quanto è scritto delle vergini di Israele, poiché genererà vento, ma colui che lavorare vuole, genererà il suo stesso padre» (Kierkegaard). 
Oltre le due del mattino. Il portacenere colmo, una tazza di caffè vuotata e un gelo d’inizio primavera. Poi un’immagine di Daniel al piano di sopra, addormentato nel suo lettino. Basta, è ora di smettere. 
Chiedersi che farà di queste pagine quando sarà abbastanza grande per leggerle. 
E l’immagine del suo corpo dolce e feroce, al piano di sopra, addormentato nel lettino. Basta, è ora di smettere. (1979)

(L'invenzione della solitudine, Paul Auster - Einaudi, 2005)

domenica 4 novembre 2012

No Ventre - Playlist Novembre 2012



             

#1   I'm Gonna Get You - Nina Kraviz
#2   Settle Down - Kimbra
#3   Katherine - St. Michel
#4   Gronlandic - Of Montreal
#5   Stay - Zenzile
#6   Villages - Alpine
#7   I Round The Bend - Kid Bombardos
#8   Subirusdoistiozin - Criolo
#9   Tough Love - Sailor & I
#10 Should Be True - Phaeleh 

venerdì 2 novembre 2012

Gocce d’acqua su pietre roventi, di François Ozon (2000)


Quattro personaggi riuniti in un lussuoso appartamento nella benestante Germania Ovest degli anni ’70: l’unità di luogo determina l’origine teatrale del lavoro di Francois Ozon, tratto dall’omonima piece di Rainer Werner Fassbinder mai rappresentata. Il film mantiene la divisione in atti e una rigida impostazione formale nella costruzione dell’intreccio, con dialoghi e situazioni spesso volutamente reiterate.
La vicenda ruota intorno a Leopold (Bernard Giraudeau), cinico affarista, che con un perverso e raffinato gioco, tra seduzioni e blandizie, riesce a conquistare a sé l’amore del giovane e irrisolto Franz (Malik Zidi) a scapito della pre-esistente relazione sentimentale con la fidanzata Anna (Ludivine Sagnier).
Il rapporto fra i due sembra avviarsi verso una reciproca alternanza di ruoli, ma con l’entrata in scena di Anna e del transessuale Vera (Anna Thomson) suo ex-amante, la personalità di Leopold si manifesta in tutta la sua efferatezza. E’ il vero centro gravitazionale del gruppo, abile e spietato manipolatore di coscienze in grado attraverso un sottile esercizio di potere, inizialmente solo carismatico poi anche economico (l’analisi dei rapporti di classe nella società capitalistica, leitmotiv nelle opere di Fassbinder), di coinvolgere i tre in un ecumenico congresso carnale fino all’inevitabilmente tragico finale.


Tema fondante della pellicola è la riflessione sul complesso mondo delle relazioni sentimentali, le gerarchie e le dipendenze che si instaurano fra soggetti ridotti come ingranaggi di un insensato meccanismo che allo stesso tempo li compiace e li opprime. Il regista raccoglie, espandendola, la visione ecologica di Fassbinder sottolineando come anche il contesto sociale e familiare (la famiglia appare come un corpus estraneo ed indifferente dei tormenti individuali) e ancor più significativamente quello economico (Leopold confessa di essere responsabile della morte di un uomo per ragioni di affari) , contribuiscono a demolire l'arbitrio del singolo conducendolo verso un ineludibile status di vittima, senza alcuna possibilità di redenzione. I personaggi minori rappresentati dalle due donne, pur essendo meno delineati risultano essere null'altro che tappe differenti nello stesso disperato percorso intrapreso da Franz; mentre Anna è ancora allo stadio iniziale, Vera ne ha già passato il limite (non uccidendo se stessa ma distruggendo la sua precedente identità sessuale).


Lo stile di Ozon, al tempo ancora non del tutto definito, appare comunque evidente nei suoi tratti più caratteristici, ritmi tendenzialmente lenti e movimenti di macchina calibrati, un gusto drammatico filtrato da modi lievi e un costante sottofondo di ironia disincantata e momenti grotteschi (assunto agli onori di culto il ballo di gruppo sulle note di “Tanze Samba mit mir”). Nello stesso tempo la fotografia ricercata e orientata prevalentemente ai contrasti netti e l’accurata scenografia anni ‘70 tanto lussuosa quanto immancabilmente kitsch circoscrivono lo spazio scenico evidenziando ancor più il senso di claustrofobia delle tre vittime ormai impossibilitate a “uscire” da quell’appartamento sempre meno locus fisico (quando la situazione vira al peggio per Franz l’apertura di una finestra potrebbe simboleggiare un’ipotetica via d’uscita), sempre più metafora della loro condizione di schiavitù da cui è possibile emanciparsi solo annientandosi.


Virginia Cassandra