sabato 17 giugno 2017

Richard Powers, Galatea 2.2, ovvero la singolarità e il suo Pigmalione


"Richard Powers, il protagonista, entra in contatto, dopo il ritorno dall’Olanda alla patria americana in veste di ricercatore umanista a contratto in una superuniversità di scienze cognitive, con il professor Lentz, autorità in fatto di neuroscienza, convinto che il meccanismo cognitivo ed emotivo del cervello umano sia teoricamente e praticamente replicabile artificialmente. Powers e Lentz, nel breve arco di due mesi iniziatici, giungono a programmare un cervello artificiale che sembra disporre di tutti i requisiti strutturali e reattivi di quello umano. Sullo sfondo c’è anche una struggente storia di amor perduto, che Powers fa convergere magistralmente nella tramatura del suo romanzo."
(Dalla recensione su Carmilla)


Le fornimmo un’immagine eidetica della Bibbia. Le opere complete di Shakespeare. Una piccola biblioteca su cd-rom, seicento volumi scannerizzati con cui avrebbe potuto trastullarsi. Anche quella, almeno suppongo, era una forma di inganno. Un esame con il libro aperto, quando invece il candidato umano doveva confidare solo sulla memoria. Ma del resto era proprio questo che volevamo verificare: se il silicio fosse una materia di cui potessero essere fatti i sogni. 
E oltre tutto, Helen non conosceva questi testi. Disponeva solo di una struttura digitale di tipo lineare, che poteva utilizzare per ritrovarli. Era come una bambina con computer incorporato. Un indice Hasher frontale la aiutava a localizzare quello che cercava. Poteva quindi trasferire l’intero testo sui suoi strati di input e avviare le proprie meditazioni. 
In questo modo poteva leggere anche di notte, senza nessuno intorno. E non aveva bisogno nemmeno di una lampadina. L’unica cosa che mancava alla sua educazione era il senso del pericolo. Del proibito. Il fattore di rischio. Qualcuno che potesse dirle di piantare tutto e andare a dormire. 
Con un salto di qualità prodigioso, Helen acquisì l’intero sistema di regole relative ai simboli della realtà fisica che era stato elaborato da Chen e Keluga, e lo fece in due diversi modi. A un livello elementare, inserimmo molte delle relazioni simboliche in vere e proprie strutture di dati, che poi connettemmo a una serie di giunture tra le reti che andavano a costituire la superrete unica, ottenendo che applicassero concretamente dei filtri semantici ai suoi pensieri. Ma Helen imparò il lavoro dei nostri colleghi anche provvedendo direttamente a raccogliere le loro conoscenze per poi incollarle, con dubbi risultati, alla sua riflessione platonica che, pesata e qualificata, si era già spinta ad altissimi livelli. 
La dimensione mondana era impressionante per proporzioni e più profonda di qualunque cavità marina. Alla fine, l’unico modo in cui si poteva tradurla era sotto forma di catalogo. 

Le parlammo dei biglietti per il parcheggio e delle offerte tre per due. Di forche, forchette, lingue biforcute e biforcazioni mai prese. Di resistenze e condensatori, di alteratori della verità, alternatori di corrente e stili di vita alternativi, dell’integrazione su larga scala e del fallimento del tentativo di salvare la società da se stessa grazie all’istruzione. 

Le parlammo della lana, del lino e del damasco. Le parlammo di frenuli e di freni, di banalità e banane, del sonar, dei semafori e di tutti i tipi di segnale che il corpo potesse produrre. Di moschee e mosche, di insettivori e insetticidi, di fusioni che durano una vita o un minuto solo. 

Le insegnammo cos’era la Commissione per le società e la borsa. Le parlammo dei collezionisti che si specializzano in oggetti di vetro risalenti agli anni Trenta. Del salto triplo e del bob a due. Di come i genitori si sforzassero da subito di insegnare ai figli la destra e la sinistra. Della defecazione, la respirazione, la circolazione. Degli appunti scritti su un post-it. Dei marchi registrati e della renitenza alla leva. Degli Oscar, i Grammy e gli Emmy. Della morte per infarto. Dell’esercizio divinatorio con una bacchetta di ontano. 

Le spiegammo come erano distribuite le note su un pianoforte. Le intestazioni delle lettere. I balli delle debuttanti. Le dirette radiofoniche e i docudrammi televisivi. I colpi di freddo e le febbri, con annesso un breve excursus su cinque secoli di cure. La Grande Muraglia e la Strada di Burma, la Cortina di Ferro e la Luce alla fine del Tunnel. L’aspetto della Terra vista dallo spazio. Un incendio che divampava da trent’anni sotto una cittadina della Pennsylvania, senza mai venire in superficie. 

Le mostrammo la differenza tra un triforium e un clerestorio. Rintracciammo nello spazio e nel tempo le famose rotte dei pellegrini. Le parlammo della conservazione e della refrigerazione dei cibi. Di come un tempo il sale valesse tanto oro quanto pesava. Di come le spezie avessero alimentato l’intera, tragica macchina dell’espansione umana. Di come l’invenzione della plastica avesse risolto uno degli incubi della nostra civiltà solo per crearne un altro. 

Le mostrammo Detroit, devastata da un’economia di tipo speculativo. Le mostrammo Saraievo nel 1911. Dresda e Londra nel 1937. Atlanta nel 1860. Bagdad, Tokyo, il Cairo, Johannesburg, Calcutta, Los Angeles. Subito prima e subito dopo. 
Le riferimmo barzellette dell’Africa orientale sui parenti acquisiti, o battute giavanesi su quanto sono stupidi gli abitanti di Sumatra. E ancora, barzellette da montanari sul rischio di vendere polpettine ebree senza licenza. La storiella del topo di campagna e del topo di città. Aneddoti su Tizio, Calo e Sempronio. Indovinelli con elefanti come protagonisti. Favole eschimesi in cui i pesci e gli orsi si fanno beffe della semplice idea che possa esistere un essere umano. 

Le parlammo di vendetta, perdono, contrizione. Le parlammo della vendita al dettaglio, delle tasse sul commercio, della noia, di un mondo nel quale senti parlare di tutto ma niente ti accade direttamente. Le dicemmo come la storia si svolgesse sempre in un luogo diverso da quello in cui ci si trovava. Le insegnammo a non procedere mai alla cieca e a non mandare mai un ragazzo a fare il lavoro di un uomo. Le raccontammo lo scandalo della collana della regina e l’embargo commerciale su Cuba. Il saccheggio di foreste grandi quanto un continente e la grande truffa della fusione fredda. Le parlammo dei codici a barre e della calvizie. Di lenti, lenticchie, lentezza. Delle speranze, vergogne, perversioni e dell’incerta sopravvivenza dell’umanesimo liberale. Della grazia, della disgrazia e delle seconde possibilità. Del suicidio. Dell’eutanasia. Del primo amore e dell’amore a prima vista. 



Helen doveva usare il linguaggio per creare i concetti. Le parole venivano per prime: era questo il principale ostacolo alla sua educazione. Il cervello faceva le cose esattamente al contrario. Manipolava i lessici della mente attraverso molteplici sotto- sistemi, e gli ultimi arrivati, i lobi più indispensabili, erano quelli che contenevano i nomi in sé. 
All’inizio dell’evoluzione non c’era la parola, ma il luogo su cui avevamo imparato a inchiodare la parola stessa. I lattanti registravano e trasmettevano dati sulle loro madri molto prima di aggiungere un nuovo elemento, cominciando a chiamarle ‘mamma’. Gli afasici, persino i sordomuti, tessevano sontuosi arazzi concettuali mediante i numerosi vettori dei loro corpi e in assenza anche di un solo verbo. 

Il sogno di Chen e Keluga mi sembrava sempre più disperato. Le regole lessicali del discorso non erano enumerabili. E ancor meno lo erano le regole dell’esistenza vissuta e provata. Leggevo a Helen frasi che potevano prestarsi almeno a una mezza dozzina di analisi, come a nessuna. Mi impietosivo per lei mentre snocciolavo le eccezioni alla categorizzazione di ‘albero’ effettuata da Chen e Keluga. Tutti gli alberi hanno le foglie verdi almeno in un periodo dell’anno, a meno che l’albero non sia un acero rosso, o un saguaro, o malato, quiescente, pietrificato, oppure allo stadio di pianticella, o visitato dalle locuste o dal fuoco o da una banda di bambini maligni, o ancora sia un albero genealogico, un albero della trasmissione, o ancora... Per stampare un dizionario che esaurisse le varie accezioni del termine sarebbe stato necessario abbattere tutti gli alberi del pianeta. 
Per non parlare degli alberi nella politica, nella religione, nel commercio o nella filosofia. Avrei potuto leggere a Helen la poesia nella quale si insisteva che nessuna poesia al mondo potesse eguagliare un qualsiasi albero. Ma non avrei mai potuto tracciare la differenza tra popolare e accademico, tra il significato terreno-e l’ermeneutica, tra la poesia e i versi, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, tra il termine ‘allora’ riferito al presente e al passato, tra una similitudine evocativa e la confusione più totale, tra il sentimentalismo prebellico e la poesiapaesaggio completamente spoglia d’alberi scritta subito prima della morte del poeta in una trincea francese. Le parole non sarebbero bastate a spiegare a Helen la differenza tra ‘poesia’ e ‘albero’. Poteva tracciare diagrammi, ma non affrontare la salita impervia verso un livello superiore. 

Le insegnai le componenti di un motore a combustione interna e come cambiare il denaro. Le dissi quanto mio fratello adorasse entrare nei negozi che vendevano ‘tutto a un dollaro’ e chiedere quanto costassero alcuni oggetti. Le dissi la barzelletta preferita di Taylor, quella del prete, dello scienziato e del critico letterario condannati tutti e tre a morte. Le parlai della WPA6 e del sistema di strade interstatali. Mi chiese perché ci fossero delle interstatali alle Hawaii. Non seppi cosa risponderle. 

Le raccontai come, da ragazzo, giocassi spesso a salvare dal diluvio universale i miei animaletti di plastica. Solo quando ero riuscito a guidarli tutti dentro una piccola scatola di cartone potevano considerarsi salvi. A quel punto cercavo un’arca di cartone ancora più piccola e le operazioni di salvataggio riprendevano, in condizioni più disperate. 
Le riferivo tutti questi dati, ricavandone un intreccio di frasi ben organizzate. Ma utilizzando solo quelle frasi non sarebbe mai arrivata all’essenza delle cose. Le dissi quale fosse il termine per la sensazione che proviamo quando un nome nel quale andiamo letteralmente a sbattere rinsalda il nostro legame con i concetti viventi sui quali è basato il nostro mondo. Ma appropriarsi di quel termine non le era di alcun aiuto che fosse anche remotamente paragonabile al sostegno che il nome stesso, piombando a cascata nei suoi circuiti, le garantiva. 
Seguire il flusso delle sensazioni mi condannava alla solitudine. Le immagini e i suoni si accumulavano. Un’immagine in bitmap, per quanto basata su algoritmi di compressione del tutto aleatori, valeva comunque molto più di un kilobyte di parole. Volevo costringerla a lavorare sui concetti. Costringerla a immergere le mani fino al gomito in quella pozza d’acqua di cui le parole erano meri sostituti.

Le feci ascoltare ancora Mozart. Anzi, una serie di Mozart di ogni natura e modello, da ogni epoca storica e da ogni continente. Lasciai che si soffermasse a meditare su una serie di rondò ripetuti all’infinito. Le restavo accanto e la guardavo mentre lottava con la canzone più banale trasmessa alla radio, lanciandosi nel tentativo di riprodurla e ricadendo sempre a un buon palmo di distanza dalla cadenza dolorosa del sentimento. 

(Galatea 2.2, Richard Powers, Fanucci 2003 - Trad. (straordinaria, ndr) di Luca Briasco
***
 Prima edizione: New York, 1995 - Editore: Farrar, Straus and Giroux

Richard Powers è un romanziere statunitense, da sempre interessato alle scienze e all'effetto che la sperimentazione scientifica estrema può avere sull'umanità. Laureato in Letteratura (che ha prediletto a Fisica, sua prima scelta), ha lavorato per tanti anni come programmatore, prima di fare della scrittura un lavoro a tempo pieno. Ha pubblicato il suo primo romanzo, Tre contadini che vanno a ballare nel 1985 edito in Italia nel 1991, da Bollati Boringhieri), dedicandosi quindi alla carriera letteraria e accademica tra Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. Vincitore di numerosi premi, tra cui il "MacArthur Fellowship" nel 1989 e il "Lannan Literary Award" nel 1999, in Italia ha pubblicato Il dilemma del prigioniero (Bollati Boringhieri, 1996), Galatea 2.2 (Fanucci, 2003) Sporco denaro (Fanucci, 2007), Il fabbricante di eco (Mondadori, 2008, che ha vinto il "National Book Award"), Il tempo di una canzone (Mondadori, 2010), Generosity (Mondadori, 2011) e Orfeo (Mondadori, 2014). Oltre a questi romanzi, è autore con Phillys Richardson anche di Modern Living. Guida alla casa contemporanea (L'Ippocampo, 2005).

Sito internet: www.richardpowers.net
Un'intervista: Intervista a Richard Powers su Galatea 2.2
Un articolo di Luca Sofri su Ray Kurzweil e le previsioni sull'intelligenza artificiale: Cosa mi aspetto dal domani


"Young Farmers", August Sander, 1914

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