domenica 11 giugno 2017

4. È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) di Xavier Dolan (2016) Eyeglass prescription - Best Film 2015/2016


4. È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) (2016)

Louis, uno scrittore malato terminale, torna a casa dopo una lunga assenza per rivelare alla sua famiglia che sta morendo. (97 min.)

Director: Xavier Dolan
Stars: Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux

Juste la fin du monde è forse un film meno compatto di Laurence Anyways e Mommy, eppure qui Dolan, come non mai, delinea una identità di sguardo che nei film precedenti non era così palese. Inoltre questo film aggiunge, in maniera prepotente, un coprotagonista maschile così ben scritto e magnificamente interpretato, come non mi ricordo nelle opere passate: il personaggio di Vincent Cassel, Antoine.


Antoine, vero apriscatole del film, opera nella famiglia come fosse il figlio illegittimo, il figliastro di claustrofobiche routine familiari, copia conforme del suo, detestato, ruolo. Sa già tutto, conosce e ha il presentimento di ogni discorso, di ogni piccolo sussulto del corpo.
È la consapevolezza di ogni cosa che, come un modulo che si ripete ossessivamente nelle diverse occasioni, gli diventa una nevrosi, un tormentone che lo scava e svuota.



Intelligente quanto il fratello scrittore, con meno ambizione forse per pigrizia, per viltà, forse per una natura sessuale più ortodossa che gli rende più confortevoli i meccanismi sociali, è il centro del film e paradossalmente il vero fuggito di casa. 
Perchè non c'è mai, ne rifiuta ogni pertugio, è sempre all'esterno, fisicamente e sentimentalmente (se non quello del rancore), non ha la minima nostalgia di niente, di nessun ricordo condiviso dal resto della famiglia. 
Fugge dalla casa nella stessa direzione strategica dello sfuggire al Mondo: rimanendoci.
Defraudato di un ruolo centrale adesso esige per sempre quello che non ha mai avuto.
Louis invece è l'eroe borghese, il Don Giovanni riscritto in epoca romantica, è l'inafferrabile: prima abbandonando la famiglia, poi morendo precocemente prima di tutti i commensali (tranne del padre, eterno assente di tutte le competizioni nel famigliodromo mondiale e in quello Dolaniano).


Conosco la tua storiella, quella dell'aeroporto, del bar...
Dopo, cosa mi racconterai? Mi dirai tutti i dettagli...mi dirai: “Quello lì friggeva le patatine e l'odore del fritto mi impregnava i vestiti. Ed ero solo, praticamente solo, in aeroporto... no?
Non si sentiva volare una mosca”.
E sei lì, a fare Dio sa cosa...sei lì e leggi un giornale. Su, dillo che leggi un quotidiano o un giornale economico, o una rivista dalla carta lucida e grandi lettere rosse, no?
E, comunque, non so neppure perché sei venuto, Louis. Nessuno sa, eh. Nessuno capisce.
E questo ti dispiace, perché...se si sapesse, ah, se si sapesse! Sarebbe più semplice e te la saresti squagliata o non saresti venuto.
Credi sia importante per me? Credi mi importi dell'aeroporto, del bar, del giornale, eccetera?
Lo credi? Be', ti sbagli, per me non è importante! Non m'importa più!
Non è questo che ti sei detto all'aeroporto, io lo so. E comunque, non ti sei detto che me l'avresti raccontato.
Dici queste cose perché così riempi il vuoto, il vuoto tra noi due.
E allora, ecco, sono davanti a te e tu inventi, no, Louis?
Perché quello che hai detto finora l'hai inventato per potermi parlare.
Parlarmi perché io mi senta... speciale. Speciale, perché? Perché io solo so che potevi venire prima e stare dipiù con noi? No, all'aeroporto non l'hai pensato, perché non mi conosci.
E non si condivide con chi non conosci. Anch'io non ti conosco, e comunque,
ci siamo mai conosciuti, io e te? No, ti sei detto: “Comincerò così. Può andar bene”.
Il fatto è che non sai bene come prendermi.
Ti sei detto: “Ho studiato, ho vissuto, ho scritto, saprò bene come prenderlo”.
È buffo. Spesso, dicono questo, parlando di me. Dicono:”Non si sa come prenderlo”.
“Eh, Antoine, bisogna saperlo prendere, eh!”
Come si direbbe di qualcuno che si vuole inculare, o un animale in gabbia cui si avvicina la mano per prenderlo e poi annegarlo.
È questo che hai fatto all'aeroporto, Louis. Ti sei detto che avevi una buona tecnica per potermi accalappiare, eh? Ma io... non ne ho voglia. Io non voglio... e allora? Che ci fai qui?
No, non voglio sapere! Non voglio sapere che fai qui. Stare qui, o no, ne hai diritto.
Non è problema mio. In qualche modo, qui, sei a casa tua. Vai, vieni, non ho niente da dire.
Sai, non è tutto eccezionale nella tua vita, la tua vita banale. Perché anche la tua è banale...
Eri seduto al bar dell'aeroporto e non pensavi a niente!
Eri lì a berti un caffè, che ti fa venir voglia di cagare e non pensi a niente, non a me, né ad altri, sei lì, e basta, e vivi la tua cazzo di vita, e la smetti di romperci il cazzo con questo, merda!
Non voglio. Non voglio stare qui. Non voglio che mi parli e non voglio ascoltarti.
Sempre, mi dovete raccontare tutto, continuamente, sempre. E io devo sempre ascoltarvi.
Ma, a me, Louis, non piace né ascoltare, né parlare. Si pensa che chi non parla sia bravo ad ascoltare. Be', perché sto zitto? Per dare l'esempio e mi si lasci in pace. Lo capisci questo, Louis? Eh?

(dal film)

Questi punti di fuga - di Antoine, Louis et familia - sono costantemente individuati dalla camera di Dolan dal loro punto di preparazione fino a quello di esplosione: da quando sono gangli appena infiammati, respiro che incomincia a diventare irregolare fino alla deflagrazione di ogni ascesso addomesticato per troppo tempo.


La famosa interpretazione che Thierry Jousse dà dell'impronta narrativa e temporale che Lynch imprime a molte sue storie¹, quella del nastro di Moebius, può essere vera anche per come Dolan usi questa dualità e ambivalenza: tra verbosità e spazio fisico/emotivo tra i protagonisti.
Qui non si ribalta il ruolo dei protagonisti e l'impianto narrativo-temporale - come in Lynch - ma si inverte una sorta di soggettiva libera indiretta delle emozioni dei protagonisti rispetto ai dialoghi.
Più si parla e in maggior misura aumenta la distanza spirituale tra i personaggi e tra i personaggi e il regista; al tempo stesso, con l'approssimarsi di Dolan al loro volto, un primissimo piano, lo sguardo dei protagonisti si parla senza proferire parola.
Lo spazio della messa in scena e quello dell'inquadratura sono sempre proporzionali al dialogo, alle affinità mentali, agli antagonismi furiosi. La camera plana seguendo orientamenti emotivi, non si addormenta su uno stile e un canone complessivo.
Ogni scena è un patrimonio di ritmo, una raccolta di sincronie e anacronie sull'impossibilità di comunicare, sul dire e sul riconoscersi. Un pathos continuo dove interpretazione, dialogo, movimenti di macchina instaurano un vero e proprio assedio a quello che prima era puro e semplice teatro.
Come dice Robert Bresson: "Due tipi di film: quelli che impiegano le risorse del teatro (attori, regia, ecc.) E usano la macchina da presa per riprodurli; quelli che impiegano le risorse della cinematografia e usano la macchina da presa per creare"²; Dolan prende l'opera teatrale di Jean-Luc Lagarce e la trasforma alla massima potenza nel secondo tipo di film indicato da Bresson.

Questo è gran parte del fascino del cinema di Dolan: non un time-lapse strutturale, ma un'assidua rendita soggettiva, sua e dei personaggi. Una ricerca costante sul tempo come percepito dall'uomo, una perlustrazione impaziente che focalizzi crepa e spiraglio da cui deborda la vita.

Luca Tanchis



Note:
¹ in David Lynch, di Thierry Jousse, Ed: Cahiers du Cinema, 2010
² da Notes on Cinematography, di Robert Bresson, 1977

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