lunedì 1 ottobre 2012

Io sono Dieguito, Maradona secondo Martin Amis



C’è una fotografia terrificante di Diego Armando Maradona: è del 2000, l’anno del suo primo attacco di cuore. Indossa un cappellino da baseball messo alla rovescia che fa intravedere una ciocca di capelli tinti alla punk color cacca di bambino, occhiali scuri, una maglietta da batterista senza maniche che lascia scoperto tutto il tatuaggio di 'Che' Guevara sulla spalla destra. Poi, un sogghigno beffardo con la bocca aperta. E si arriva all’enorme massa della pancia. 
Sarebbe impossibile esagerare l’ubiquità del diminutivo (ito, ita) nello spagnolo latinoamericano, che ha origine nell'estrema riverenza e indulgenza concessa ai più piccoli. È un continuo incontrare uomini chiamati come bambini piccoli: gagliardi Sergito, forzuti Huguito (e un mio amico di 60 anni si chiama semplicemente Ito). Ma vi strozzereste, oggi, chiamando Maradona 'Dieguito'. Lo si vede ancora frequentemente in tv, barcollante negli aeroporti o incastrato in un golf cart; ha recuperato il suo vecchio colore dei capelli e si veste più discretamente, ma la sua corpulenta dimensione resta prodigiosa e impossibile da ignorare. È evidente quanto ciò lo torturi. E lo si vede, Dieguito, dentro il suo nuovo involucro: bloccato, sofferente. Eppure non si ribella. Dentro ogni uomo grasso, si dice, c'è un uomo magro che tenta di uscire. Nel caso di Maradona sembra che ci sia un uomo ancora più grasso che tenta di entrare.

L'autobiografia di Maradona, El Diego, stava per uscire e quaggiù si parlava del fatto che avrebbe concesso un'intervista a Buenos Aires (casualmente non ero lontano: Uruguay). Quando improvvisamente si spostò a Cuba, la sua seconda casa (o clinica) dal 2002, lo seguii con gioia. Maradona aveva già avuto un attacco cardiaco causato dalla droga ad aprile, è vero, ma ufficialmente si disse che si trattava di un viaggio di routine, una disintossicazione, o un decarburare. Il suo agente, un giovane con le stesse forme di Dieguito chiamato Ponzalo, mi ricevette nel suo albergo e, cautamente, mi disse che sembrava stesse migliorando. 
Ebbi una risposta più precisa il giorno dopo, nel notiziario. I medici – i medici di Fidel del centro di salute mentale – erano chiari. Il paziente era collegato alle macchine come un astronauta e non avrebbe incontrato chicchessia. Maradona si era ritirato nel 1997. Nel 2001 aveva giocato (assai corpulento) in una partita mandata in onda. Ora, nel 2004, ha bisogno che gli si dia il permesso di guardare una partita in tivù. Ha 43 anni.


Nell’America del Sud si dice a volte, o si suppone, che la chiave per capire il carattere degli argentini si trovi nella loro valutazione dei due gol di Maradona nella Coppa del Mondo del 1986. 
Per il primo gol, battezzato “la mano di dio”, Maradona era lievitato in maniera incredibile su un cross e aveva mandato la palla in porta con un intelligentemente nascosto colpo della mano sinistra. Ma il secondo gol, che arrivò pochi minuti dopo, fu uno di quelli che Bobby Robson chiama “un maledetto miracolo”: raccolto un passaggio da una punizione nella sua stessa area, Maradona, come in un'espiazione, chinò la testa e sembrò volesse aprirsi una strada attraverso tutta la squadra inglese prima di mandare a terra Shilton con una finta e la palla in rete. 
Ebbene, in Argentina è il primo gol, non il secondo, quello che piace veramente. Per il “macho” argentino (o questo almeno dice una calunniosa generalizzazione) i modi furbi danno molta più soddisfazione di quelli corretti. Lo stesso succede a livello di governo e negli affari. Non solo si tollera la corruzione: la si idolatra. 
Si tratta di una propensione che si estende alla sfera sessuale e alla quale si attribuisce un grande valore nell’ambiente dei “macho”. E nel lessico di Maradona una stessa parola, “vaccinare”, è usata per il segnare un gol e per il fornicare. Nella sua logica, il secondo gol contro l’Inghilterra fu una languida epifania erotica; il primo era un brivido in una strada laterale. Entrambi erano stati un colpo azzeccato. Più in generale, in questa cultura, l’umiliazione, l’abiezione, è il giocare sempre secondo le regole.
Quando in El Diego si arriva alla descrizione della partita contro l’Inghilterra, il lettore è totalmente sedotto dalla storia e dalla turbolenta ingenuità con la quale Maradona la racconta. Innanzitutto, le passioni coinvolte non sono solo ludiche (“nelle interviste precedenti la partita avevamo tutti detto che non si doveva confondere il calcio con la politica, ma era tutto una bugia; ci pensavamo in continuazione. Balle che era solo un’altra partita!). 
E non si trattava neppure solo delle Falkland-Malvinas: era la revancha di un popolo soggiogato e impoverito. 
Dunque, avendo esultato a lungo per il secondo gol (“volevo appendere ogni fotogramma dell'intera sequenza, ben ingranditi, sopra la testiera del mio letto”), Maradona volge la sua attenzione al primo (“anche dall’altro gol avevo avuto molta soddisfazione, a volte penso che quasi mi era piaciuto di più...”). 
E il lettore può per ora solo assentire alla soddisfatta cortesia della sua conclusione (“entrambi avevano un proprio fascino”). In altre parole, tutto è corretto – tutto è tenero – in amore e in guerra e, per qualche ragione, il calcio è tutto lì, e quelle sono le energie che richiama: le energie dell'amore e della guerra.


La sua è stata un'infanzia senza cuscini protettivi, in tutti i sensi. Se la società aveva le sue malattie, niente stava tra esse e Dieguito (“Tutti parlano di modelli di comportamento. Modelli un cazzo! In Argentina non abbiamo un solo modello di comportamento vivente, quindi smettete di rompermi le palle con i ruoli!”). 
Questo bel gioco era un modo di uscire dalla bidonville, ma difficilmente poteva rappresentare un faro di virtù per il ragazzo che cresceva. Il calcio era corrotto e rapace come ogni altra cosa, con una federazione in cui i giocatori dovevano passare le mazzette al manager per entrare nell'organico della squadra. Il barrio di Maradona a Buenos Aires era Villa Fiorita, negli anni 60 una giungla corrotta, oggi una Saddam City della criminalità in armi. “I miei genitori erano persone modeste, umili lavoratori”, scrive, ma la frase fatta è poco aderente: tutti i dieci Maradona vivevano in una baracca di tre stanze in cui l’acqua corrente era quella che arrivava dal tetto (“ti bagnavi di più dentro che fuori”).

L’ossessione per il calcio è innata; non ci sono memorie che la precedono, e nessun interesse a sfidarla. Quando il bambino Diego andava a fare le commissioni, lo faceva palleggiando con un'arancia. Quando aveva 3 anni il cugino gli regalò la sua prima palla di cuoio (“dormivo con la palla e l'abbracciavo al mio petto”). E quando si recò al suo primo provino, all’età di 9 anni, era così avanti che l'allenatore credette di avere davanti un nano. 
A 15 anni stava già tra i seniores e con i primi stipendi si comprò un altro paio di pantaloni per completare quelli di velluto a coste turchese con i grandi risvolti. La sua ascendenza era quindi perfetta per allontanarlo dalla realtà – e la realtà allora includeva la guerra sporca e il terrorismo e i 30.000 desaparecidos (“all'età in cui la maggior parte dei ragazzini ascolta le storie”, si legge in un titolo, “lui ascoltava ovazioni”). tre mesi dopo il suo debutto si stava già allenando con la nazionale, insieme a Daniel Passerella e a Mario Kempes. A 18, dopo aver vinto contro la squadra statunitense dei Cosmos, aveva già scambiato la maglietta con Franz Beckenbauer. A 19 aveva segnato il suo centesimo gol. Era già il volto della Coca-Cola, della Puma, dell'Agfa.
Marginali e relativamente impoverite, le federazioni sudamericane fungono da base di reclutamento per le squadre europee, e nel 1982 Maradona puntualmente si trasferisce al Barcellona per 8 milioni di dollari. Due anni dopo, quando si sposta a Napoli, prende 7 milioni di dollari l’anno, più altri 3 dalla televisione italiana (e c'erano gli altri 5 di Hitachi). Un sondaggio dell’International Management Group lo definisce “l’uomo più famoso del mondo”, e gli vengono offerti 100 milioni di dollari per i “diritti sull’immagine”. Li rifiuta per ragioni di patriottismo. 
Il 1986 gli regala l’apoteosi nazionalistica: è il capitano alla Coppa del Mondo e gli argentini la vincono. Aveva 26 anni.


El Diego è una narrativa trasparente, e nei suoi interstizi si continua a percepire uno sbalorditivo caos interno: acute e croniche carenze di carattere e di giudizio, e soprattutto una conoscenza di se stessi che è l’assente assoluto. Quando Maradona aveva 14 anni cadde sotto le grinfie del suo primo manager, un vecchio consigliere dal poco incoraggiante nome di Jorge Cyterszpiler. 
Si capisce ciò che accadrà appena Maradona spiega che gestivano tutto “sulla base dell’amicizia” (“non c'era un solo pezzo di carta firmato”). E, inevitabilmente, quando arriva a Napoli, dieci anni più tardi, rivelerà, sconcertando tutti, che “Cyterszpiler aveva una tale sfortuna con i numeri che a me non è rimasto niente”. O meno di niente. “Quel che è fatto è fatto”, alza le spalle Diego, e ribadisce che ogni investimento (ogni locale da bingo) era il risultato delle sue decisioni. 
Molto più tardi, quando Maradona decide di rimettersi in forma, assume un allenatore: Ben Johnson (“sì, Ben Johnson! L'uomo più veloce al mondo, checché ne dicano gli altri”). 
Lo stesso succede con la camorra a Napoli (“mi offrivano in continuazione delle cose, ma io non volevo mai accettarle: per via del vecchio detto che prima danno e poi chiedono”). Non voleva accettarle, ma le accettava. Lo stesso con i falli e gli arbitri. Quando Maradona formula un giudizio, si ha l'impressione di star assistendo a uno dei suoi dribbling (“quel bastardo di Luigi Agnolin, l'arbitro italiano, mi ha annullato un gol... quell’Agnolin è un figlio di puttana... abbiamo cercato di far pressione su di lui dall'inizio, ma l'italiano non era un tipo che si lasciava intimidire... Agnolin mi piaceva”).
La vena anarchica di Maradona si rivela anche nella sua noncuranza – anzi, nel suo disgusto – per la legge. Nelle occasioni in cui attira l'attenzione della polizia non è quasi neppure in grado di spiegare il perché, “sono stato arrestato, arrestato!”, dice, e descrive brevemente la farsa che ne deriva; nel frattempo, come un educato colpo di tosse, una nota a piè di pagina si inserisce per informare sull'accusa (possesso di cocaina). 
Più tardi, di ritorno in Argentina: “Ho reagito... ho reagito come avrebbe fatto chiunque... l'episodio con il fucile ad aria compressa, sehh, quello”. Ed ecco un’altra nota à piè di pagina, evasiva, in cui Diego spiega che “l’affare” si riferisce all'episodio in cui aveva sparato con un fucile ad aria compressa contro un gruppo di giornalisti, senza precisare di averne colpiti quattro e di aver avuto una condanna, in seguito sospesa.


Poi ci sono frequenti accenni a quel che si potrebbe definire eccezionalismo, o megalomania di basso livello. Parla correntemente di se stesso usando la terza persona, non solo come Maradona (“lo abbiamo reso più forte di Maradona”; “questa è la cosa più importante che Maradona possa ricevere”; “la droga è una cosa troppo grande perché Maradona si possa fermare”), ma anche come El Diego (“perché io sono El Diego, anch'io chiamo me stesso così: El Diego”; “vediamo se possiamo stabilire questo punto una volta per tutte: io sono El Diego”; “sono lo stesso di sempre. Sono io, Maradona. Io sono El Diego”). 
Dopo un po’ queste frasi non suonano più come autocelebrazione, ma come autoipnosi. Passerella era “un buon capitano, sì”, concede, ma “il grande capitano, il vero capitano, ero e sempre sarò io”. Questo tipo di parole trovano un’eco più tardi, nel 1996, quando lancia una campagna nazionale, “sole senza droghe”, affermando che “io sono stato, sono e sarò sempre un tossicodipendente”. 
Il mantra del programma di disintossicazione, in genere un finto vanto di un’astinenza duramente conquistata, sembra in questo caso più una dichiarazione di verità irriducibile. Maradona ha consumato droga per vent’anni: da qui la sospensione di 15 mesi (in Italia), l’espulsione dalla coppa del mondo del 1994 (“mi avevano dato [sic] dell'efedrina, e l'efedrina è legale, o dovrebbe esserlo”) e il ritorno da canto del cigno al Boca Juniors, nel 1997.
Si tratta di un libro lirico, emozionale e anche eccezionalmente vivido. L’esotismo della parlata di Maradona è bilanciato dai cliché zeppi di imprecazioni del calcio, che sono, a quanto pare, universali (“la folla è impazzita”; “quella sega”). Ma ci sono anche accenni di un più intenso livello di percezione. La tensione nello spogliatoio prima della partita (“percepii un silenzio, troppo profondo, troppo freddo. Guardai le facce e le vidi pallide, come se fossero già stanche”) o un brutto incidente (“mi lanciai di slancio dietro a una palla persa e sentii l'inconfondibile rumore del muscolo che si strappa, come una cerniera lampo che si apre nella mia gamba”). 
Quanto a emozione, Maradona si piange addosso a dirotto una pagina sì, una no. E poi ci sono i poemi dedicati alla moglie e alla sua famiglia, che sono i più toccanti, perché sappiamo che ora è divorziato e che si è allontanato dai suoi due fratelli, e anche perché sappiamo che i legami amorosi non sono riusciti a trattenerlo nella loro orbita.


Sono molti gli sportivi che si vantano di essere campioni del popolo, tuttavia, il populismo di Maradona porta il segno del suo percorso: l’ambiente proletario di Buenos Aires, Napoli, e ora L'Avana (l’unica squadra francese con la quale ha flirtato è, guarda caso, il Marsiglia). A Buenos Aires, a chiedere in giro, le risposte su Diego sono sempre un tanto meditate, sempre di simpatia; gli abitanti di L'Avana, invece, che non hanno mai conosciuto un Maradona non in disgrazia, sembrano adorarlo incondizionatamente. Cuba è perfetta per lui, può essere l'uomo del popolo, e quello del presidente, intimo com’è di Fidel Castro. 
Jorge Valdano disse una cosa buona su di lui, e in alto stile latinoamericano: “povero vecchio Diego. Abbiamo continuato a dirgli per tanti anni ‘sei un dio’, ‘sei una stella’, che ci siamo scordati di dirgli la cosa più importante: ‘sei un uomo’”. Ma non ci siamo ancora. 
In Italia la gente gli diceva spesso: “ti amo più dei miei figli!”. Non è un dire blasfemo come suona. Con le sue arrabbiature, il suo autolesionismo e la sua mai scomparsa dolcezza, Maradona resta El Pibe de Oro, il bambino di dio. E’ ancora Dieguito.


Martin Amis, 2 ottobre 2004, La Repubblica (Link originale)

1 commento:

  1. Molto bello. Mi vien da pensare a un possibile 'Open' di Maradona firmato Amis.

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