lunedì 8 ottobre 2012

REALITY, di Matteo Garrone (2012)

“Reality is wrong. Dreams are for real.”


Ultimo rigurgito della lunga onda anomala provocata dall'abuso televisivo degli ultimi decenni e dall'abusiva onnipresenza mediatica della gente, strappata ai propri focolai e catodizzata, nell'esclusivo fine commerciale di creare un’empatia accattivante sulle ingiallite facce di spettatori costantemente astinenti di crudità da divorare, questa pellicola del buon Garrone esula, in realtà, da un intento ferocemente critico del (mal)costume corrente fatto di idolatria effimera per coglierlo appena come pretesto narrativo che gli consentirà di effettuare una notevole descrizione pittorica del sottobosco umano che passivamente assorbe questa insulsa e velenosa pioggia di banalità che, in evidente paradosso, lo intossica e inaridisce.
I confortevoli e lentissimi ritmi di vita del Sud sono imposti immediatamente e senza appello da una straordinaria parsimonia di punti di ripresa e da un montaggio dai tagli talmente sporadici da spingere le sequenze fino alla soglia dell’esasperazione, senza mai cadervici, simboleggiando non maldestramente la penuria di mezzi dei protagonisti e facendoci vivere quell'adiacenza ai personaggi, quasi imbarazzante, la stessa, intima e sfrontata, del voyeurismo alla base del fenomeno sociale che è causa delle angustie del protagonista Luciano. Quella stessa vicinanza morbosa che solo le strisce a fumetti riescono a offrire; ed è vero che del fumetto il film ha diverse prerogative che perfettamente collimano col carattere disastrosamente fanciullesco di Luciano, eccezion fatta per un certo aspetto caricaturale che, in maniera nobile, non è mai accentuato.
L’astuzia del regista di porre al centro della sua storia non un/una prevedibile teenager, vittima di gran lunga più designabile dei diabolici sistemi televisivi, bensì un padre di famiglia che dovrebbe avere già sviluppato un certo pragmatismo frutto delle innumerevoli esperienze che la vita cronologicamente impone, gli permette certo di sfruttare una personalità marginalmente più complessa e comunque più solida per sorreggere l’intreccio, offrendogli un campo d’azione più esteso ma soprattutto surge a magnifica metafora della sedimentata tendenza al sogno di tutti i meridioni del mondo.
La costante atmosfera onirica è senza dubbio uno degli aspetti più riusciti della commedia, il sogno vissuto come ultima e quindi unica possibilità di riscatto, di sistemarsi per tutta la vita, in maniera istantanea priva di laborìo e talmente indolore da essere persino divertente; un’ascesa in discesa che si rivelerà, ovviamente, impraticabile.
Luciano è un personaggio simpatico (“La simpatia è un merito mafioso – diceva un personaggio di Virzì – in altri posti non ci tengono così tanto ad essere simpatici..”), un cuore semplice e buono, circondato da una roboante famiglia perfettamente autenticata che a torto sarebbe rinchiusa nel cliché, tanta è la sua verosimiglianza interpretata in maniera spontanea e piacevole. Questo profilo da Stallone dei tempi di Rambo inzuppato nello sconforto di De Curtis si ritrova a soccombere nella sua disillusione, a mentirsi fino alla paranoia patologica perchè troppo radicalmente convinto di riuscire a sollevarsi dal pantano della vita normale, affidando a questa sua sensazione di essere nato sotto una buona stella tutto il concreto futuro della sua famiglia, che lo incoraggia, sospinta dalla sciagurata abitudine di essere già spettatrice di qualcosa che questa volta sarà veramente simile a loro e nella malcelata e subdola volontà di farne parte senza rischiare in prima persona.

Il film di Garrone si espone inevitabilmente a parallelismi storici nei confronti della più gloriosa produzione italiana, senza peraltro esserne ridimensionato, proponendo invece delle gradevolissime allusioni retrò nella sua idea generale di riqualificazione di vita passando per il gioco (Lo scopone scientifico), nella parata di Nuovi Mostri della società moderna che fanno la fila davanti a Cinecittà o ancora nell'assurda pervicacia del protagonista che altri non è che un Nando Moriconi che nulla percepisce della realtà se non che, un giorno, finalmente, lui avrà la sua America.
Malgrado incespichi su di un passaggio ipocritamente francescano, un po’ plumbeo, e non riservi nessun colpo di scena che forse ad un certo punto non ne avrebbe snaturato i contenuti (e una sorpresa attesa che non arriva è comunque una sorpresa), Reality riesce con delicatezza a sottolineare numerose contraddizioni attuali senza il rigore dell’indagine ne’ la stucchevolezza del melodramma, mantenendosi su di un profilo ragionevolmente preciso, finendo là dove comincia, in cielo, dove tutti i sogni sono fabbricati.

Voto: 7
Carlo Ligas

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