sabato 7 maggio 2011

Soul Kitchen, di Fatih Akin - 2009

"Cibo per l’anima”. Questo prometteva in quello che doveva (?), poteva (?) essere il passaggio cardine del lungometraggio che segna una svolta (temporanea, si spera) verso la commedia leggera da parte del talento già affermato dell’autore de “La sposa turca”. Nei novantanove minuti della sceneggiatura scritta in collaborazione con il protagonista Adam Bousdoukos, è dato di assistere all’ inarrestabile serie di piccoli e grandi sconvolgimenti che mandano in rotoli la vita (in vero già non proprio ideale..) di Zinos, gestore di un ristorante non propriamente da guida Michelin, in una Amburgo ad acquarello, un tardo giovane di non celate origini greche, dall’aria pateticamente Morrisoniana, discopatico cronico con un’improponibile suoneria nel cellulare, che nel corso di una cena matriarcale con la famiglia della fidanzata Nadine (Pheline Roggan, buona interprete, bellezza algida, distinta e nobile) fa l’incontro che potrebbe segnare il salto di qualità della sua attività: Shayn Weiss, lo chef d’altissima scuola e dal carattere marcato da una punta di permalosità, che abbandona la sua cucina per piantare un coltellaccio sul tavolo di un cliente colpevole di aver richiesto una scaldata al suo gaspacho. Shayn (Birol Uenel) è forse l’unica folgorazione (presto disillusa) del film di Fatih Akin: un’interpretazione di parecchie spanne superiore al resto della compagnia, un personaggio scolpito, tagliente come le sue lame che scorticano chirurgicamente filetti di pesce, che ha tutte le caratteristiche per essere il più classico Deus ex machina, piombato sulla narrazione per mettersela in spalla e sollevarla dal torpore incipiente, salvo (purtroppo) vederlo prematuramente ed ingiustificatamente scomparire (peccato mortale!) nel groviglio delirante dei canovacci spesso inconcludenti che seguiranno.

Lo sbarco dell’ingombrante personalità di Shayn al “Soul Kitchen” (“Se vuole la pizza, può andare al supermercato” Shayn rivolto ad un cliente abituale) cambia diametralmente le atmosfere del locale, senza, in un primo momento, giovarne agli introiti, affondando Zinos in uno stato pre-depressivo, già minato dalla partenza della fidanzata per Shangai e dall’improvviso ed imprevisto arrivo del fratello Illias, Moritz Bleibtreu, superbo (all’epoca) interprete di “The experiment”, qui in un ruolo appena defilato ma tutto sommato riuscito, che Zinos è costretto ad assumere al ristorante per permettergli la libertà vigilata, giocatore di poker e cavalli, dj improvvisato per amore, dai metodi da gangster usato che legherà con la cameriera Lucia, splendida, tutta schnaps e weltangschaung, che abita il quartiere bohème di Amburgo e cita Goethe “i colori sono il dolore della luce” mentre tracanna quantità irragionevoli di policromatici drinks.
Questo, se non degenerasse diventandone il solo strumento narrativo, sembra essere l’unico spessore della pellicola: una carrellata di ben riusciti ritratti, in assoluto molto vicini alle bizzarrie della realtà (imprenditori prostitutari, marinai sproloquianti, truci ispettrici peccatrici) ma che malauguratamente offuscano (o volutamente coprono?) una trama asfittica che sublima in harakiri grotteschi quale il funerale della nonna, o la cena a base di un’afrodisiaca corteccia dell’Honduras, con crudo amplesso consumato su di un pilastro del locale, mentre i Kazantsakis brothers si lanciano in un sirtaki, leggeri come il pesce fritto che servivano, o ancora bottoni di fantozziana memoria che schizzano come proiettili.


Non bastano a risollevarne il tono il cammeo di Udo Kier, nella parte di un affarista silente come uno squalo, compulsivo mangiatore di mentine, ne’ una buona fotografia con gradevolissime alternanze di luci tra gli interni e le interminabili sere buie del Nord Europa, ne’ una complessa colonna sonora, Zorba-Disco-Funky, consona al mélange di culture corrente nel film.
Solo l’arte culinaria, meno protagonista di quanto ci si potesse aspettare, resta intatta nel suo universale aspetto di necessità, in quello più moderno di ricerca del piacere ed in quello sociale di patrimonio culturale che, a “conto fatto”, permetterà a Zinos, dopo aver sfiorato lo sfacelo, di rimettersi in piedi.

A Zinos, non al film.


Voto: 5,5
Carlo Ligas

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