venerdì 9 maggio 2014

James Salter, Tutto quel che è la vita.




Scrivere: una forma di preghiera
(Franz Kafka, Diari)


La storia della vita di un ragazzo che diventa rapidamente uomo. Prima sottotenente della marina militare americana, poi editor in una prestigiosa casa editrice newyorkese. Dalla seconda guerra mondiale a metà degli anni '80.
Attraverso “le sue donne, le sue case, le sue città”, con andamento sinuoso, fra stagioni regolari e improvvisi bagliori, si intrecciano una moltitudine di storie.
A volte queste vicende conservano lo spessore di quelle del protagonista, Philip Bowman, altre, invece, si dissolvono lasciando tracce sempre più impercettibili.

All That Is, Tutto quel che è la vita, arriva silenziosamente in Italia e, almeno per quanto mi riguarda, scompagina tutta una serie di frivole graduatorie letterarie che, da tempo, sonnecchiavano indisturbate attorno allo stesso manipolo di eminenti scrittori. A ottantasette anni suonati, James Salter dà alle stampe un libro magnifico: un testamento e un capolavoro.

L'epigrafe iniziale, “C'è un momento nella vita in cui ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla scrittura hanno qualche possibilità di essere reali.” è una lettera d'intenti alla quale il romanzo avrà premura di rispondere, pagina dopo pagina, fino alla fine, in una taumaturgica tenuta tra forma e sostanza; una confessione placidamente offerta per preservare la possibilità di un reale; il cono di memoria di Bergson che versa su un letto di magnifica prosa.

Tra gli appunti dello Zibaldone, Leopardi afferma che, nelle “opere di genio”, “l'anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria”: questo libro ne è una riprova, e quella che può sembrare freddezza è il tocco imparziale del suo autore: il creatore che dona la vita, anche per poche righe o una sola pagina, a un nugolo di anime. La voce di Salter le narra per epifanie – come i respiri profondi, del nuotatore di copertina, appena giunto in superficie – in un mantra di frasi, dettagli e descrizioni piane ed essenziali, levigate fino allo splendore, facendo emergere saltuariamente un richiamo lirico. Una fessura luminosa tra la sistematica dei fatti e il mistero del tempo, della fine. Come il distendersi di una grande tovaglia di lino chiaro sul desco che attende i commensali e i lettori; avvicinando lo sguardo, una cosmogonia di fili sottili si incrocia senza apparente sforzo. È il tramare indolente dei giorni, il flusso della storia di tutti; finché non incontriamo una discontinuità, un residuo di stoppa.
Su questa grande, dominante visione panteistica della narrazione, il punto di reversibilità estetico e sensibile, “la calza che si rovescia dall'interno verso l'esterno”, è la parola salvata. La reliquia reduce da un'economia stilistica che prosciuga il mormorio del tempo, evidenziando i punti luce.


Paradossalmente vi è più un agire postmoderno in questo lirico e laconico novantenne, che in molti tentativi celebrati e cerebrali. È modernissima l'idea stessa di struttura: frasi inscindibili come link, che si aprono modulari, corpi variabili per l'immaginazione del lettore.
“Tutto ciò che non è pronunciato, tende al non-essere” diceva Czeslaw Milosz; Salter ribalta la sentenza perchè sceglie solo le parole che annunciano, perchè il suo pudore è al contempo una sospensione di giudizio e una speranza: non frughiamo troppo nel cuore di questi uomini, sembra dire, ed è difficile non diventarne compagni di fato.
Lo scrittore americano compie un incantesimo anche lavorando sulla dimensione della profondità: tutto quel che è la vita, tutte le sezioni invocate, vengono messe in precisa relazione con la nostra progressiva confidenza all'interno di queste stanze.
L'incipit è sulla grande Storia, sugli stravolgimenti planetari:

“La nave più grande, invincibile, costruita con un acciaio dallo spessore mai visto e il progetto ingegneristico più avanzato, portava l’antico e poetico nome del paese, Yamato. Con l’ordine di attaccare la flotta di invasori al largo di Okinawa, la Yamato salpò da un porto del mare Interno dove era rimasta in attesa, accompagnata da una scorta di nove navi.(…) Spuntavano dalle nuvole, bombardieri e aerosiluranti, più di cento alla volta. La Yamato era stata costruita per essere invulnerabile agli attacchi aerei. Tutte le sue bocche da fuoco erano in azione, quando le prime bombe arrivarono. Uno dei cacciatorpedinieri che la scortavano sbandò, colpito a morte, e si inabissò mostrando il ventre rosso cupo. Sott’acqua i siluri correvano verso la Yamato, lasciando scie come fili bianchi. L’imprendibile ponte di coperta era stato sventrato, acciaio spesso più di un palmo, gli uomini maciullati o tagliati in due. «Non perdetevi d’animo!» gridava il comandante. Gli ufficiali si erano legati alle proprie postazioni sul ponte sotto le bombe nemiche.(...) Non era una battaglia, era un rito, la morte di una bestia enorme abbattuta da una gragnuola di colpi. Dopo un’ora arrivavano ancora aeroplani, una quarta ondata, poi una quinta, una sesta. Un grado di distruzione inimmaginabile. Era stato colpito il timone e la nave girava a vuoto su se stessa. Cominciava a inchinarsi e il ponte imbarcava acqua. Tutta la mia vita è stata un dono del tuo amore, avevano scritto alle loro madri. I libri con i codici erano chiusi in contenitori di piombo e sarebbero affondati con la nave, e l’inchiostro era di quelli destinati a dissolversi nell’acqua. Dopo circa due ore dall’inizio dell’attacco, ormai sbandata di ottanta gradi, con a bordo centinaia di morti e un numero ancora maggiore di feriti, cieca e storpiata, la gigantesca nave cominciò ad affondare. Le onde la avvolsero e gli uomini rimasti aggrappati al ponte vennero trascinati in mare in ogni direzione. Mentre la Yamato affondava, le si formò intorno un enorme gorgo, un torrente scatenato in cui sopravvivere era impossibile, e gli uomini vennero trascinati direttamente sul fondo come se precipitassero dal cielo.(...) Dalle profondità del mare si scatenò un’immensa esplosione e affiorarono bagliori così intensi che furono visti anche a Kyushu, mentre saltava in aria l’intero arsenale. Si alzò una colonna di fuoco altissima, una colonna biblica, e il cielo si riempì di pezzi d’acciaio arroventati che ricadevano a pioggia. Come un’eco, dal fondo del mare venne una seconda esplosione, in successione, e un denso fumo nero salì verso il cielo. Alcuni membri dell’equipaggio che non erano stati trascinati sott’acqua dal risucchio nuotavano ancora. Erano coperti di petrolio e soffocavano fra le onde. Alcuni cantavano. Erano gli unici sopravvissuti.”

Poi stringe lentamente la zoomata sulla vita di Bowman – dall'Oceano Pacifico si passa a New York – e allestisce una descrizione dei sentimenti e delle sensazioni sempre più minuziosa, pur raccontando la stessa danza, le stesse dodici battute, sull'attimo e sul labile confine tra l'esserci e non esserci più; siano queste esistenze, navi, persone, foglie o stagioni:

“Forse a causa della morte del padre, che ricordava vividamente, Beatrice aveva un timore cronico dell’autunno. C’era un momento, di solito verso la fine di agosto, in cui l’estate investiva gli alberi con una forza abbacinante e le fronde erano rigogliose, ma poi di colpo, da un giorno all’altro, diventavano stranamente immobili, come se attendessero qualcosa e ne fossero consapevoli. Gli alberi sapevano. Ogni essere sapeva, gli scarabei, le rane, i corvi che zampettavano solenni sul prato. Il sole era allo zenit e abbracciava il mondo, ma stava finendo, tutto ciò che si amava era a rischio.”

Non c'è nella letteratura americana un romanziere a cui Salter si possa accomunare. Non l'egocentrismo verboso di Philip Roth e di Henry Miller, non il processo mimetico di Salinger o l'ironia psichiatrica di Vonnegut e Bellow. La sua sensibilità impressionista è lontana da quella claustrale di McCarthy. Non c'è in lui il sogno decadente di Fitzgerald. Il suo spirito olimpico è lontano da quello del rabdomante pieno di amarezza che agita Cheever, e non ha la visione politica di una palla da baseball che vola nel cielo come in DeLillo.
Forse è avvicinabile alla prosa di Dos Passos (quello di Manhattan Transfer), al ritmo descrittivo di Edith Wharton (l'ordinato concentramento di Ethan Frome), all'atteggiamento equanime di Richard Ford (penso soprattutto a Lo stato delle cose), ma sicuramente il mondo di James Salter risplende nella sua originalità e compiutezza.
C'è in lui, nei suoi protagonisti, nel suo testo, una rara comunione tra sintesi e sensibilità: la struttura reticolare e rizomatica è garantita da un presidio di purezza, qualcosa di molto vicino all'idea di Emerson dell'Oltreanima; una scrittura che ha il potere di un'istanza personale e collettiva.

“Gli capitava spesso di pensare alla morte, ma di solito era per un moto di compassione verso un animale o un pesce, per l’erba che moriva in autunno o per le farfalle aggrappate all’erba bambagia che si nutrivano prima del grande volo mortale. Erano in qualche modo consapevoli della forza eroica che richiedeva il viaggio? Pensava alla morte, ma non era mai stato capace di immaginarla, di immaginare che cosa significasse non esserci più mentre tutto il resto continuava a esistere. L’idea di passare da questo mondo a un altro, il prossimo, era troppo irreale per essere credibile, O l’idea che l’anima risorgesse misteriosamente per unirsi all’infinito regno di Dio. Là si sarebbero trovate di nuovo tutte le persone che si erano conosciute e anche tutte quelle che non si erano mai conosciute, gli incalcolabili morti il cui numero continuava a crescere senza però mai raggiungere l’infinito. Gli unici assenti sarebbero stati quelli convinti che dopo non c’era niente, come aveva detto sua madre. Il tempo non sarebbe più esistito — il tempo sarebbe passato in un’ora, come accade nell’attimo in cui ci si addormenta. Ci sarebbe stata soltanto gioia. 
Sarebbe accaduto quello che credevi dovesse accadere, aveva detto Beatrice. Lei sarebbe andata in un posto bellissimo. A Rochester, aveva detto scherzando. Lui l’aveva sempre vista come un fiume scuro, con lunghe file di persone che aspettavano il traghettatore, con la rassegnazione e la pazienza che l’eternità richiede, spogliate di tutto tranne che di un unico, ultimo oggetto, un anello, una fotografia, o una lettera che rappresentava ciò che avevano di più caro e che si lasciavano indietro per sempre e in qualche modo speravano, poiché era così piccolo, di poter portare con sé. Lui aveva una lettera di quel tipo, di Enid. I giorni che ho passato con te sono stati i più belli della mia vita... 
E se invece non ci fosse stato nessun fiume, ma soltanto code senza fine di persone sconosciute, persone assolutamente senza speranza, come in guerra? Sarebbe stato costretto a unirsi a loro, ad aspettare per sempre. Poi si chiese, come spesso faceva, quanto gli rimanesse da vivere. Era sicuro solo di una cosa, quello che gli sarebbe accaduto era identico a ciò che era accaduto a tutti coloro che avevano vissuto. Sarebbe andato dove erano andati tutti e — era difficile da credere — avrebbe portato con sé tutto ciò che conosceva, la guerra, il signor Kindrigen e il maggiordomo che versava il caffè, i primi giorni a Londra, il pranzo con Christine, il suo corpo splendido come un’entità separata, i nomi, le case, il mare, tutto ciò che conosceva e tutto ciò che non aveva mai conosciuto ma che comunque c’era, le cose del suo tempo, tutti gli anni, i transatlantici con il loro invincibile fascino pronti a salpare, la banda che suonava mentre si allontanavano dal porto, la distesa di acqua verde che diventava sempre più ampia, il Matsonia che lasciava Honolulu, il Bremen che partiva, l’Aquitania, l’Ile de France, e la flotta di piccole navi che li seguivano. La prima voce che aveva mai sentito, quella di sua madre, era al di là della memoria, eppure la beatitudine che provava quando da piccolo le stava vicino, quella sì, la ricordava. Riusciva a ricordare i primi compagni di classe, i nomi di ciascuno di loro, le aule, gli insegnanti, i particolari della sua camera, a casa — la vita che era impossibile da calcolare, la vita che gli era stata offerta e che aveva posseduto.

(James Salter, Tutto quel che è la vita - Ed. Guanda, 2014, trad. Katia Bagnoli)

Luca Tanchis


James Salter (New York, 1925) si è diplomato all’Accademia Militare di West Point e per oltre dieci anni ha prestato servizio come pilota nell’Aviazione militare americana, che ha lasciato dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, The Hunters (1956). Ha vinto premi prestigiosi con le raccolte di racconti Dusk and Other Stories (PEN/Faulkner Award) e Last Night (Rea Award; PEN/Malamud Award). Tra le sue opere si contano sceneggiature cinematografiche, libri a sfondo autobiografico e romanzi, tra i quali ricordiamo A Sport and a Pastime, Light Years e Solo Faces. Vive tra New York e il Colorado.

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