venerdì 6 novembre 2009

Il Nastro bianco (Das Weisse Band) di Michael Haneke (2009)

Se non fosse per il bianco e nero, ogni singolo fotogramma di questo film potrebbe essere ritagliato, incorniciato e venduto in maniera fraudolenta come un’opera di Grant Wood. E’ infatti un’ inarrestabile serie di scenari spaventosamente incantevoli e solitari, magicamente desolanti e dispersivi, nei campi di grano, nella sterminata campagna coperta di neve e di sole, fino ai primi piani strettissimi su volti inespressivi di pelli d’alabastro, ingabbiati nella colpa celata, nell’austerità del rigore. Una regìa meravigliosamente stabile e statica quella espressa da Haneke: camere immobili su grandi piani dove i personaggi si muovono come in un vero e proprio dipinto animato ed incolore, o fisse su porte chiuse da cui, assieme ai protagonisti, entrano ed escono orribili dubbi, scivolano come fredde correnti d’aria sospetti inconfessabili, atroci, diaboliche, graffianti paure. L’ultima palma d’oro compie un salto felino sul male assoluto, il male nel suo stadio primordiale, universale ed antropologico, il più umano e disumano allo stesso tempo: la sua scoperta, la sua pratica, la sua messinscena compiaciuta e viscerale, feroce. Un salto che lo proietta ben aldilà del brusìo creato dall’assegnazione del premio da parte di una giuria la cui presidentessa (Isabelle Huppert) si è vista solo qualche anno fa assegnare il titolo di miglior attrice sulla croisette per un film (La pianista) diretto dallo stesso Haneke. 

In un minuscolo villaggio protestante della Germania del nord di inizio novecento, strutturato su di una ferrea piramide gerarchica, dove il potere temporale e quello spirituale si sostengono, complici, e annientano ogni forma di diversificazione ed ogni evoluzione dallo status quo feudale, d’improvviso sinistri e angosciosi episodi cominciano a colpire gli esponenti di questo apparentemente intoccabile ordine sociale: il medico, simbolo della pubblica sanità ma autore di sordide azioni private, il capo dei massai, brutale amministratore del giogo che opprime i lavoratori, il Pastore, garante della morale che non può che passare dalla severità e dalla reciprocità dell’azione-punizione, fino al suo apice, il Barone, padrone di cielo e di terra, colpito nell’intimità della sua famiglia. La cronaca di quegli anni viene narrata da una morente voce fuori campo, quella dell’ allora giovane istitutore, piombato in seno a questa comunità rurale ed in braccio agli oscuri eventi che la colpiscono come scudisci sulle sue certezze più profonde e fragili.
L’analisi della violenza che ne scaturisce è lucida e terrificante, braccante negli angoli meno visitati dalle letterature di ogni genere, schiacciante nel constatare che il male è insito nella nostra coscienza e che quest’ultima ne fa l’uso che farebbe un cefalopode del suo inchiostro: schizzarlo via con rabbia come difesa, estremo tentativo di confondere la realtà, mistificarla, affinché nulla sia più comprensibile. Saranno quindi gli stessi strumenti di questi esercizi abusivi di potere a ritorcersi contro chi li detiene: la mano vendicativa del divino, la corrosiva diffidenza verso gli altri, l’esclusione della diversità non omologata al volere comune. Lasciando l’unico diritto alle congetture, l’autore abbandona la storia in preda ad un evento altresì tragico (la Grande Guerra), rivoltando ogni punto di vista, fiondandolo verso la medesima atmosfera di terrore imminente, con il medesimo virulento male a dettarne i tempi, abile direttore d’orchestra, a suo agio anche su scala planetaria, come lo era stato nel particolare, nel microscopico inferno creato incarnando un nastro bianco di purezza.

Voto: 8
Carlo Ligas

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