martedì 3 novembre 2009

SIN NOMBRE (SIN NOMBRE) DI Cary Fukunaga (2009)


Non è facile parlare di cinema. Non perchè il primo coraggiosissimo lungometraggio di Cary Joji Fukunaga (padre giapponese, madre svedese, nato negli USA e vissuto in tre continenti) non sia una buona prova della settima arte, al contrario, ma perchè tali e viscerali sono le emozioni suscitate da rendere forse meno determinanti certi dettagli, seppur rimarcabili. Questo film (premiato alla regìa al Sundance e dalla giuria a Deauville) è un nodo stretto alla gola dalle tematiche affrontate, talmente taglienti da lasciare in imbarazzo al solo realizzare che tutto ciò non è plausibile, ne’ verosimile. E’ vero. E su questa terribile alternativa si struttura il film: delinquere o fuggire. Il terribile fenomeno delle Maras del centroamerica, che non sono delle bande di teppisti in lotta intestina come spesso si tende a vederle in occidente ma delle effettive ed efficienti organizzazioni criminali ramificate (fino a L.A. nel film, dove in realtà la prima è nata da immigrati salvadoregni, la "Salvatrucha" o "13" o "MS 13", protagonista del film) che controllano lo stesso traffico di migranti verso gli Stati Uniti, i loro connotati terribili di protettività e supplenza sociale laddove le famiglie o lo stato sono presenti a stento nel vocabolario, la loro capacità di affiliazione nei giovanissimi, Smiley ha ad occhio e croce dieci anni quando viene affiliato con tredici secondi di pestaggio (buon per lui non aver scelto la principale rivale, la 18..) e qualche giorno in più quando ammazza per la prima volta, il senso gerarchico dei tatuaggi come galloni, delle armi da fuoco costruite con tubi idraulici, l’irreversibilità del morire per la Mara o farsene uccidere. Il controcanto è dato da una flebile speranza, figlia indesiderata della disperazione e dell’istinto più bieco, non la volontà di raggiungere qualcosa ma la schiacciante consapevolezza di non poter fare altrimenti.
"Sin Nombre" ricalca il percorso del Road Movie senza forzare i tempi, con silenziosi passaggi introspettivi perfettamente tristi: Sayra è una ragazzina che rincontra il padre già espulso dagli U.S.A. e con lui tenta il viaggio della speranza su di un treno (e "su di un treno" significa proprio sul tetto). Il "marero" Willy ("Casper", nome di battaglia) è un giovane ormai perduto al quale la stessa Mara ha portato via la cosa più preziosa, che su quel treno ci finisce per obbedienza, salvo poi compierci l’irreparabile e non poter più tornare indietro, restandoci sopra, anch’egli privo di alternativa. La sottile ombra lunga della pellicola sta nell’aver mostrato il "prima" del problema dell’immigrazione, la terribile selezione naturale di intemperie, fame, polizia di frontiera come setaccio per i pochissimi che in realtà raggiungeranno la meta. Non ponendosi come intento principale quello di fornire un ulteriore punto di vista e analisi sui problemi che stanno nel "poi", ovvero le difficoltà di integrazione, la ghettizzazione, argomenti già ampiamente discussi, anche cinematograficamente.


Una fotografia vivace accompagna virtuosamente la storia, rossa sul sangue profuso, disperso come un allucinante voodoo sacrificale. Verde sulla jungla, bellissima e sconfinata, a dispetto della disarmante assenza di prospettive che si respira attraversandola. Gialla di polvere sul dolore e sul costante amaro che costringe ad ingoiare, mentre questi due fragili destini si uniscono, spinti dall’umana necessità del bene, del buono, come universale arsura d’amore, che dissetandoli li avvelenerà.

Voto: 7
Carlo Ligas

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