giovedì 26 novembre 2015

The Rhythm di Robert Creeley, una poesia da Eden di Mia Hansen-Løve



It is all a rhythm,
from the shutting
door, to the window
opening,

the seasons, the sun's
light, the moon,
the oceans, the
growing of things,

the mind in men
personal, recurring
in them again,
thinking the end
is not the end, the
time returning,
themselves dead but
someone else coming.

If in death I am dead,
then in life also
dying, dying...

And the women cry and die.

The little children
grown only to old men.
The grass dries,
the force goes.

But is met by another
returning, oh not mine,
not mine, and
in turn dies.

The rhythm which projects
from itself continuity
bending all to its force
from window to door,
from ceiling to floor,
light at the opening,
dark at the closing.

(The Rhythm, poem by Robert Creeley, from Words, 1967)


Tutto è ritmo,
dalla porta che si chiude,
alla finestra che si apre,
le stagioni, la luce del sole,
la luna, gli oceani,
la crescita di tutte le cose,

ricorrono ancora nella mente di ciascun uomo, pensando che la fine
non sia la fine, il tempo del ritorno, la loro stessa morte,
ma l'arrivo di qualcun altro

Se nella morte sono morto, allora anche nella vita sto morendo e morendo...
E le donne piangono e muoiono.

I bambini piccoli crescono fino a diventare vecchi uomini.
L'erba si secca, la forza svanisce

Ma si imbatte in un altro ritorno
oh non il mio, non il mio,
che a sua volta muore.

Il ritmo che si proietta dalla sua persistenza, piega tutto alla sua forza
da finestra a porta,
dal soffitto al pavimento,
luce in apertura,
buio alla chiusura.

lunedì 2 marzo 2015

Javier Marías, L'uomo sentimentale


«L'uomo sentimentale è una storia d'amore in cui l'amore non si vede né si vive, ma si annuncia e si ricorda». 
«Niente mi annoierebbe e mi dissuaderebbe quanto il sapere in anticipo, quando comincio un romanzo, ciò che questo sarà: quali personaggi lo popoleranno, quando e come appariranno o scompariranno, che cosa ne sarà delle loro vite o del frammento delle loro vite che racconterò. Tutto questo accade mentre il romanzo viene scritto, appartiene al regno dell'invenzione nel senso etimologico di scoperta, ritrovamento; e vi sono anche momenti in cui ci si ferma e si vedono aprirsi due possibilità di prosecuzione, totalmente opposte. Quando il libro è concluso [...], sembra impossibile che avrebbe potuto essere diverso da come è».
Javier Marías

Il Leone di Napoli. È cosí che gli appassionati chiamano il protagonista, un famoso tenore catalano. Quando inizia a raccontare, si trova a Madrid, e le sue giornate si dividono tra la solitudine di un albergo e la ripetitività delle prove al Teatro de la Zarzuela, dove interpreterà Cassio nell'Otello di Verdi. Ciò che racconta è una passione d'amore in qualche modo parallela a quella shakespeariana: non è solo in scena che si crea un triangolo amoroso; e non è solo in scena che il Leone di Napoli svolge il ruolo, tutto sommato, di comprimario - mentre il vero protagonista è il suo avversario nella lotta per la diafana, sfuggente, Natalia: il banchiere belga dagli occhi color cognac e dall'inverosimile cappello floscio.
Vincitore del Premio Flaiano 2000, L'uomo sentimentale mette in scena un gioco perverso di cui tutti i personaggi divengono, piú o meno inconsapevolmente, prigionieri; un gioco magistralmente condotto dalla scrittura ironica e suggestiva di uno degli autori piú acuti e affascinanti dei nostri tempi.


****
Quando morirai io ti piangerò per davvero. Io mi avvicinerò al tuo volto trasfigurato per baciarti con disperazione le labbra in un ultimo sforzo, pieno di presunzione e di fede, per restituirti al mondo che ti avrà bandita da sé. Io mi sentirò ferito nella mia stessa vita, e considererò la mia storia divisa in due da quel tuo momento definitivo. Io chiuderò i tuoi restii e sorpresi occhi con mano amica, e veglierò il tuo cadavere sbiancato e mutante per tutta la notte e l’inutile aurora che non ti avrà conosciuta. Io toglierò il tuo cuscino, io le tue lenzuola inumidite. Io, incapace di concepire l’esistenza senza la tua presenza d’ogni giorno, vorrò seguire senza rinvii i tuoi passi contemplandoti esanime. Io andrò a visitare la tua tomba, e ti parlerò senza testimoni nella parte più alta del cimitero dopo aver percorso la salita e dopo averti guardato con amore e fatica attraverso la pietra incisa. Io vedrò anticipata nella tua la mia stessa morte, io vedrò il mio ritratto e allora, riconoscendomi nelle tue fattezze rigide, cesserò di credere nell’autenticità della tua fine perché questa dia corpo e verosimiglianza alla mia. Perché nessuno è in grado di immaginare la propria morte.

(tratto da El hombre sentimental (1986) / L'uomo sentimentale, Javier Marías - 2000, Einaudi)

Allan Gurganus, Non abbiate paura


"Quante strade per la gioia; per lo più, deviazioni." 
In questa frase sta tutta la luce sfolgorante della scrittura di Allan Gurganus, scrittore americano poco noto al pubblico italiano.
Nato in North Carolina nel 1947, dopo essere stato soldato in Vietnam, fu compagno di college di Grace Paley, e allievo prediletto di John Cheever all'Iowa Writers' Workshop.
Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo, “Oldest living confederate widow tells all” (“L'ultima vedova sudista vuota il sacco”, nella traduzione italiana), versione dissacrante e iconoclasta della Guerra civile americana. Il romanzo viene tradotto in dodici lingue, e vende due milioni di copie.
Dopo alcune raccolte di racconti, esce nel 2013 “The local souls”, trittico di racconti, segnalato dal New York Times fra i migliori libri dell'anno.
Ora, su suggerimento dello stesso Gurganus, è arrivata in Italia la traduzione di uno dei tre racconti, "Non abbiate paura", occasione per avvicinarsi a questo scrittore, figlio della tradizione affabulatoria della letteratura del sud degli Stati Uniti.
La novella è divisa sostanzialmente in due parti: nella prima vediamo Gurganus stesso il quale, reduce dalla fatica della stesura del romanzo sulla guerra civile americana, per distrarsi si reca con un'amica a teatro per la recita scolastica del figlioccio, in una fredda sera di novembre.
Nell'attesa dello spettacolo, lo scrittore si guarda in giro, constatando la banalità dei cittadini della middle class del North Carolina lì convenuti, quando la sua attenzione viene attirata da una coppia di innamorati di eccezionale bellezza, alti, biondi, e magneticamente attratti l'uno dall'altra:“Sono così belli che potresti trovarli nelle pubblicità, o anche al cinema. Un'energia erotica inconfondibile. Scoppiettano come popcorn nel microonde”.
  

L'amica dello scrittore gli passa un bigliettino “Attento a quei due. Fatti un'idea. La storia dopo. E' buona.” Dopodichè, nella seconda parte, comincia la narrazione della storia vera e propria preceduta dalla premessa “Giuro su Dio che almeno l'81% della storia è vera”.
E la storia è il susseguirsi di eventi tragici e straordinari che si snodano nell'arco di venticinque anni. Alla protagonista, Maria, giovane ragazza dorata della buona società, soprannominata dai compagni di scuola “Non abbiate paura”, era successo di assistere, quattordicenne, alla morte del padre, investito e orrendamente decapitato dal motoscafo guidato dal suo migliore amico, mentre faceva sci nautico sulle acque di un lago. La giovane orfana, “adottata” dall'amico del padre, macerato dai sensi di colpa, rimane incinta di un di lui figlio in circostanze poco chiare.
Il bambino le viene tolto, e lei metabolizzata apparentemente la tragedia cresce, si sposa, e rientra nei binari dell'esistenza normale e banale di una quieta casalinga della middle class, covando la disperazione “dietro la lustra vernice crema dell'agiatezza”; fino a quando, grazie a una svolta fortunata del destino, riesce a trovare di nuovo (forse) la felicità.
Si rimane incantati di fronte allo stile molto originale di Gurganus, che prende in ostaggio il lettore, rapito dalla prosa e dallo svolgimento del racconto come di fronte al flauto di un ammaliatore di serpenti.
La lingua emana una luce sfolgorante; ed è la luce del mito.
Come dice Gurganus, “le stesse storie travolgenti delle tragedie greche si consumano in qualche traversa delle nostre cittadine dove si pagano le tasse.
In poco più di 120 pagine, Gurganus costeggia i grandi tabù di una società perbenista: omosessualità, legame sentimentale di un adulto con una ragazzina, incesto, senza che nessuno di questi temi venga esplicitamente chiamato per nome, ma piuttosto evocato tramite allusioni e immagini che emanano la luce di un Icaro che si avvicina troppo al sole.
Non c'è psicologismo nella narrazione di Gurganus: i personaggi sono assoggettati alle forze ancestrali di Eros e Thanatos.
E, sembra dirci Gurganus, in questo modo di vivere che accetta ciò che di estremo e straordinario e anche terribile può accadere, c'è spazio prima o poi anche per la felicità.

Laura Anfossi

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Sto quasi per chiederle perché gli adulti hanno sempre un’aria sciatta alle recite degli adolescenti, quando l’arrivo di una coppia strepitosa mi smentisce immediatamente. Salve! La mia esausta capacità narrativa avverte un fremito, se non proprio uno stimolo. 
Con un sorriso, chiedono se le poltrone accanto a noi sono libere. «Prego, tutte vostre.» Sono entrambi biondi, alti e atletici, con le sopracciglia scure; stesse giacche di montone, da sci. Il vento ha arrossato la carnagione di lui, acceso di rosa quella di lei. La bufera sembra studiata per esaltare il loro incarnato. Giuro che dovrebbero stare sul palco, non qui tra i nonni con gli zaini di Greenpeace e i sandali da cui sbucano orrendi calzettoni peruviani. 
Sono i giovani genitori “capobranco” che tutti i liceali desiderano, invece di, be’..., invece di noi: io e la mia deliziosa amica, che siamo seri, informati, sui cinquanta e più. 
Jemma fa un cenno ai nuovi arrivati, rivolge loro un vero sorriso ma poi, solo per i miei occhi, scribacchia un messaggio sul blocco. Indicandoli con la testa, nasconde loro le parole: 
ATTENTO A QUEI DUE. FATTI UN’IDEA. LA STORIA DOPO. È BUONA.

(tratto da Non abbiate paura, Allan GurganusPlayground 2014 - Trad. Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)

lunedì 23 febbraio 2015

Criolo: con Amore. Intervista al musicista brasiliano


L’ultima volta che sono stato a São Paulo non si riusciva a fare un passo per strada senza sentire da qualche parte la musica di Criolo. Era la fine del 2011 e il rapper 37enne era appena uscito con la sua magna opera multi-genere, Nò Na Orelha, dopo aver covato sotto le ceneri dell’underground paulista per decenni. Improvvisamente, cominciò a fare il pienone ad ogni concerto e festival a cui partecipasse. Ad ogni angolo, ci si poteva imbattere negli struggenti accordi e nel cantato delicato di Não Existe Amor en SP, (non c’è amore a São Paulo). Il pezzo meno brasiliano di sempre, un lento, cinico lamento sull’espansione della città più grande dell’America Latina di uno sconosciuto artista rap, senza essere un pezzo rap, in ogni caso. Ma il tipo di canzone che ti entra dentro.
Per quanto inatteso, nessuno poteva negare che Criolo stesse creando qualcosa di assolutamente nuovo e potente. In una città con almeno un migliaio di scene musicali differenti, lui si indirizzava a tutti. I boss dell’Hip Hop da favela lo prendevano in considerazione, i ragazzini indie in strettissimi jeans approvavano. Inoltre, aveva un “santo in paradiso”: in un articolo di qualche mese prima, Caetano Veloso ha scritto di lui: “Probabilmente la figura più rilevante della scena pop odierna”, che equivale a Michael Jordan che ti dice che sei il miglior giocatore di basket sulla terra.


Ciò che lo distingue dai suoi colleghi è che più che un musicista lui si sente un messaggero. Alla testa di una band di sette componenti, al Brazilian Summerfest nel Central Park di New York, passeggiava tranquillo sul palco con aria estatica, allucinato, quasi messianico: “questa è musica per il cuore e per lo stomaco” ha gridato, incoraggiando il pubblico a alzare le mani e far ondeggiare le dita, come se fosse una riunione della chiesa pentecostale. “Musica che rispetta la gente”. Si è inginocchiato ed inchinato davanti al pubblico, puntando un dito verso il cielo: “La musica è amore!”.
Prima della sua esibizione, ho avuto occasione di chiacchierare un po’ con lui della sua missione musicale, nel backstage. Di persona, è disarmante. È gentile, quasi timido ma con una notevole intensità. I suoi occhi restano fissi su chiunque a cui parli, la sua voce così melliflua va in crescendo ogni volta che l’argomento che affronta lo appassiona: disparità, disuguaglianze, ingiustizie. Parla forbito, evitando espressioni gergali, come a declamare delle grandi verità, in un portoghese preciso e labirintico allo stesso tempo. Eccovi i pensieri di Criolo, il re dei filosofi Paulisti.

Hai fatto un lungo viaggio per arrivare fin qui. Oggi sei stato elogiato come uno dei musicisti brasiliani più importanti. Che effetto ti fa?

In Brasile, puoi trovare persone talentuose dappertutto; certi trovano l’opportunità giusta, altri no. Molte persone mi hanno aiutato e continuano a farlo, sono molto grato a tutti loro per la fiducia e l’affetto che mi hanno dimostrato. Ciò che faccio, lo faccio col cuore. Ma allo stesso tempo non mi esalto.

Sei cresciuto col rap ma l’album che ha lanciato questa fase di successo della tua carriera non è un album propriamente rap. In realtà canti veramente nella maggior parte dei pezzi e la musica ha influenze che vanno dall’afrobeat al reggae. Cosa ti ha ispirato?

Certo, questo album contiene pezzi scritti negli ultimi quindici anni e col tempo anche il mio stile è evoluto. I miei genitori erano emigrati a São Paulo dal nord-est del Brasile quindi sento in me molte influenze che provengono da quella parte del paese. Sono cresciuto tra le feste da ballo scolastiche con DJ improvvisati e la chiesa e mi sono formato con la pop internazionale. Questo album è stato l’occasione di mettere insieme molti tipi di suoni spesso diversi fra loro. È molto organico, molto naturale.

Crescere in quella che a São Paulo chiamano pereferia (i sobborghi) sembra aver influenzato parecchio la tua musica. Puoi spiegarci un po’?


Sono nato e cresciuto nei sobborghi della Favela das Imbuidas. Ho vissuto laggiù per sei anni, in una baracca di legno, mura e soffitto, col pavimento in nuda terra. Poi ci siamo spostati a Grajaù, appena aldilà della strada, e lì ho vissuto tutto il resto della mia vita. Ogni giorno, vedevo mio padre alzarsi alle sei del mattino e rientrare a mezzanotte: era così per tutti.
Avevamo molte difficoltà: negli anni ’80 e ’90, secondo il tuo quartiere d’origine e i vestivi che portavi, la gente ti guardava con occhi diversi. Ma tutto quello che so l’ho imparato a Grajaù: il rispetto verso le persone, come sopravvivere a São Paulo, città traboccante d’arte e diversità culturali ma anche di dure prove da affrontare.

Credi che ci siano parecchi pregiudizi verso gli abitanti delle favelas?

Non soltanto in Brasile, ovunque nel mondo. È dovuto al fatto che le attitudini delle persone scaturiscono dal loro bagaglio culturale, dalle loro convinzioni, dalla maniera con cui etichettano la gente. Questo non succede solo nei paesi meno sviluppati, a causa della povertà materiale ma anche altrove, dove c’è una povertà morale che ci impedisce di capire che siamo tutti fratelli e tutti uguali. Questo male non è quindi limitato a certe zone del mondo, è nella mente umana. Perciò l’arte è così importante. Oltre a rigenerarci e farci vivere belle esperienze ci permette anche di riflettere. Crea delle interazioni tra le anime, ci dà la possibilità di cambiare idea, di chiederci “cosa ci stiamo a fare qui?”. I pregiudizi, al contrario, sono qualcosa di infimo ed insignificante, che non merita la nostra attenzione.


Il pezzo principale del tuo disco è “Não existe amor en SP”. Pensi davvero che non si possa trovare amore nella città che ami?


È una canzone che si indirizza direttamente alle persone che hanno creato la realtà attuale di São Paulo. L’amore esiste, certo, nel cuore di ogni persona, ma mi chiedo: c’è amore nel cuore delle persone che prendono le decisioni che riguardano tutto il mondo? E come possiamo creare una realtà nella quale ognuno stia meglio con sé stesso?
È facile dire che la gente è depressa, ma quando nasci, sei una creatura pura e da quel momento in avanti tutto ciò che vivi e che provi dipende dalla situazione in cui ti trovi: hai tutto se nasci ricco o niente se sei nato in una famiglia in ristrettezze. Le tue possibilità sono determinate da due o tre momenti prima di cominciare a prendere decisioni da solo. Quindi dove è nato questo scoraggiamento?
Possiamo viaggiare per il mondo e vedere che abbiamo punti in comune e diversità culturali, ma c’è gente che vive in strada e muore di fame. C’è così tanto amore nel cuore di ogni persona in ogni città di questo pianeta, ma c’è un pensiero positivo nelle teste di chi immagina queste città per i loro abitanti?

           


Si fa un gran parlare sull'impressionante crescita economica del Brasile. Credi che le cose miglioreranno? Che queste disuguaglianze scompariranno?

Questa domanda la devi fare ai nostri amministratori. Io ti posso dire che ogni giorno il 95% della nostra popolazione si sveglia e svende la sua vita per dare un minimo di dignità alla sua famiglia. Come possiamo immaginare di essere la sesta economia mondiale mentre le persone hanno ancora così tante necessità? La nostra gente è così meritevole, così di buon cuore, lavoratori instancabili che continuano a vivere così tante ingiustizie.

Prima ti facevi chiamare Criolo Doido. Criolo in portoghese è un dispregiativo usato per le persone di colore e Doido significa pazzo. Perché ti sei scelto questo nome?

La parola “pazzo” la vedo sotto un’accezione positiva, per me identifica qualcuno che prova ad essere diverso e cerca stili di vita alternativi. Credo che mi manca ancora molta strada prima di comprendere appieno questo aggettivo.

Parlami della canzone “Bogotà”. Non succede spesso che un cantante brasiliano si occupi di una città colombiana, cosa c’è dietro?

È una città di cui si parla ancora e soltanto sotto una luce negativa. Perché è così facile stigmatizzare certi luoghi? Ma la canzone non parla realmente di Bogotà. Ogni giorno, ovunque, si fa mercato di droga ed armi ed alla fine tutto ciò arriva fin dentro casa della gente, distruggendo le loro vite. Perché succede? Chi li ha fatti entrare? Quindi la canzone è un tributo alla gente per bene in una città che soffre. È facile andare in TV e accusare un bambino di otto anni che vende droga ma chi è che ci guadagna milioni e milioni? Diventiamo trafficanti di libri, arte, bellezza e amore. Di questo parlo.



Quel che dici è molto interessante perché ascoltando l’album non appare evidente che molte canzoni abbiano un messaggio politico così forte, sembrano piuttosto sottili allusioni. Era questa la tua intenzione?

Questo è il mio modo naturale di fare musica. Se pensassi solo ad accattivarmi la tua attenzione mentre faccio musica ciò che otterrei sarebbe una bugia e non meriterei che tu ascoltassi i miei dischi.

Come hai sviluppato questo interesse nelle tematiche sociali e nell'attivismo?

Quello che faccio io non è niente. Crescere nelle difficoltà di una favela lascerebbe il segno a chiunque. Da cui l’importanza della musica nella mia vita. Perché ti permette di elevarti, ti fa sentire forte. Ti sembra di essere qualcuno per il solo fatto che hai creato qualcosa. Questa è l’importanza dell’arte.

Pensi che la tua capacità di parlare dei mali del mondo da un palco possa cambiare le coscienze delle persone?

Ho fatto quello che sto facendo per ventitré anni, credo che la vera forza venga dagli scambi collettivi. Una persona sola non può cambiare il mondo. Un piccolo gesto può fare molto ma in grande scala c’è bisogno di uno sforzo collettivo. Devo ringraziare tutti i brasiliani di aver ascoltato e diffuso la mia musica, dandomi la forza e la possibilità di ritrovarmi dove sono oggi. Questa è stata, per esempio, una coscienza collettiva, tutte queste mani tese che ti aiutano e ti supportano lungo il cammino, quest’energia positiva che sgorga ad ogni momento. La vita è fatta di momenti, è ciclica, ma penso che la mia sia una voce collettiva, un’unica entità che fa il possibile pur di non tacere.

Il rap in Brasile è sempre stato un movimento underground. Pensi che oggi, col tuo successo e quello di altri artisti come Emicida per esempio, possa raggiungere una platea più vasta?

In effetti il rap è stato sempre molto presente in Brasile. Non tutti se ne sono accorti ma l’hip hop è un’energia universale, un’attitudine positiva. Ognuno crea le sue connessioni a partire da questo unico strumento e ne interpreta la sua individualità. Come ci si muove dentro, come cattura le realtà che lo circondano e come le elabora, sono cose che sgorgano dal suo cuore. Questo ci offre entrambi gli aspetti, quello individuale e quello collettivo, ognuno come unità individuale ma ognuna di queste unità che trae energia dalla forza collettiva. Quindi a mio avviso il rap è sempre stato forte e sempre lo sarà, perché scaturisce da un bisogno semplice: la ricerca dell’uguaglianza. Ovunque si manifesterà un’ingiustizia, un gesto positivo apparirà per contrastarla.

Oggi molti accusano il rap di essersi trasformato da arte di coscienza sociale in un genere materialistico e schiavo del capitalismo. Che ne pensi?

Ognuno ha la sua opinione. Ciò che fa piangere alcuni fa ridere altri. Ciò che facciamo, ciò che siamo, sta ad ognuno di noi.


Traduzione: Carlo Ligas (Articolo Originale)

martedì 17 febbraio 2015

Antonio Inoki, il wrestler giapponese che quasi amputò una gamba a Muhammad Ali


A volte, il wrestling, fa sul serio.


Se non avete mai sentito parlare dell’incontro del Giugno 1976 che ha quasi causato l’amputazione di una gamba a Muhammad Ali, non sentitevi ignoranti, malgrado la vostra passione per lo sport: probabilmente significa soltanto che non siete giapponesi. Eccovi gli eventi: nel 1975, Ali venne a conoscenza della New Japan Pro Wrestling League e apparentemente ebbe a dire: “C’è qualche lottatore orientale che avrebbe il coraggio di sfidarmi? Sono pronto a scommettere un milione di dollari”.

La notizia arrivò fino in Giappone ed un “tizio” decise di accettare la sfida di Ali. Dopo qualche mese e il classico viavai di documenti, le basi di uno dei più strani e pericolosi incontri a cui Ali avesse mai partecipato erano gettate.

All'angolo destro, Muhammad Ali


Età: 34 anni
Altezza: 1,92 m
Peso: 97 kg
Portata di braccio: 198 cm
Paese d’origine: USA
Stile di combattimento: Boxe
Particolarità: Campione del Mondo dei pesi massimi.
Vola come una farfalla, punge come un’ape.

All'angolo sinistro, Antonio Inoki


Età: 33 anni
Altezza: 1,92 m
Peso: 108 kg
Portata di braccio: Non importa (vedremo perché)
Paese d’origine: Giappone
Stile di combattimento: Lotta libera
Particolarità: Wrestler professionistico formatosi alla leggendaria scuola Rikidozan. Celebre per la sua “presa del polpo”. Il suo allenatore una volta l’ha spinto fuori da un’auto in corsa, per temprarlo.

Comincia lo spettacolo

Ovviamente, i media sono impazziti all'annuncio del combattimento. Ali si lavorò le camere e i microfoni come solo lui sapeva fare, pavoneggiandosi e vantandosi di come avrebbe ridotto Inoki in poltiglia.


Il giorno del combattimento

Anche il fatidico giorno arrivato, Alì continuava con le sue dichiarazioni strafottenti e provocanti. Gridò che “non ci sarebbe stata un’altra Pearl Harbor” e derise Inoki chiamandolo “pellicano” per via del suo mento particolarmente sporgente. Inoki non raccolse la provocazione sulla Seconda Guerra Mondiale ma rispose ad Alì tramite il traduttore che avrebbe fatto meglio a procurarsi dei buoni guantoni, capaci di evitargli di ferirsi i pugni su quel mento. Aggiunse poi: “Fatti insegnare un po’ di giapponese amico: nella nostra lingua, Ali significa piccolo insetto”, con un atteggiamento che avrebbe avuto un cattivo dei manga sul punto di uccidere il suo antagonista.

Primo Round

I due contendenti salirono sul ring in un Tokyo Budokan Hall tutto esaurito. L’evento era stato presentato come il più grande combattimento di tutti i tempi, la folla è letteralmente in delirio. Al suono del primo gong, Alì saltella come suo solito ma Inoki non si lascia coinvolgere. Al contrario, resta rannicchiato per terra, indietreggiando come se fosse già stato colpito. Improvvisamente, attacca in scivolata e colpisce Ali ad una gamba, con un calcio. Per il resto del round, non fa altro che aggirarsi sul tappeto come un granchio, senza mai alzarsi ad un’altezza tale che permetta ad Alì di scaricare un solo pugno. A volte si limita a giacere supino, sfidando Alì ad avvicinarsi abbastanza per ricevere un altro calcio. Ali sembra confuso ed agitato e grida ad Inoki di “alzarsi e combattere da uomo”. E nulla di più.


Ma facciamo un passo indietro: ci sono versioni contrastanti sugli eventi, specie sull'organizzazione del match; siccome però c’è abbastanza letteratura al riguardo diffusa in inglese e partigiana di Ali, daremo qui di seguito la versione di Inoki. Alì sarebbe arrivato in Giappone supponendo che l’incontro sarebbe stato poco più di una farsa. Conoscendo la teatralità del Wrestling americano, immaginava che avrebbe passato una serata divertente davanti ad un nuovo pubblico. Ma quando si presentò per le “prove” e vide Inoki allenarsi con uno sparring partner, tra calci volanti e prese da combattimento, cominciò a preoccuparsi: non assomigliava agli esercizi ginnici che era abituato a vedere in TV.


La risposta di Inoki alle interrogazioni di Ali fu glaciale: ”Niente prove, non sarà una pagliacciata, sarà un vero combattimento”. Ali lasciò la sala. Poi improvvisamente il suo staff apparve e proclamò che l’incontro sarebbe stato annullato se certe regole non sarebbero state prestabilite. La maggior parte di queste regole prevedeva sostanzialmente una limitazione alle capacità di combattimento di Inoki: niente prese, niente sgambetti, niente colpi diretti al volto, niente calci da dietro nè sopra la cintola nè se l’avversario ha un ginocchio per terra. In pratica, queste nuove regole bandivano tutto il repertorio di lotta di Inoki: la sola arma che gli restava erano i calci in scivolata.

Secondo e Terzo Round

Più o meno stesso scenario del primo: Inoki sdraiato di schiena, Ali che gli grida di alzarsi. Inoki di tanto in tanto si solleva e tenta un calcio, Ali riesce, per il momento, ad evitarli.


Nel filmato dell’incontro la telecamera inquadra occasionalmente l’angolo di Ali ed il suo staff che sembra cominciare ad innervosirsi; all'angolo di Inoki invece tutti stanno letteralmente tremando di tensione: la cosa non fu di dominio pubblico se non molto tempo dopo l’incontro ma Inoki aveva investito una somma esorbitante per realizzare l’incontro. Non erano i soldi della federazione, erano i suoi e buona parte di essi presi in prestito. Quindi, in caso di sconfitta, lui e tutta la sua squadra sarebbero finiti in rovina. Ma forse ancor più del denaro, l’onore dei due combattenti era davvero in gioco; nessuno dei due avrebbe accettato facilmente la sconfitta.

Quarto Round

Inoki incolla Ali alle corde. Ali tenta di rispondere ai calci ma in realtà non fa che agitarsi invano, mentre i calci di Inoki cominciano a far danni.



Ovviamente, nella squadra di Inoki sapevano benissimo che Ali non avrebbe saputo difendersi coi piedi e avevano basato gli allenamenti su questa particolare situazione all'angolo. Spesso Ali è salvato dall'arbitro che viene a interporsi tra i due. Fino ad ora, il pubblico è deluso: quello sotto i loro occhi non è il combattimento che si attendevano.

Quinto Round

Inoki comincia a girare intorno ad Ali, cercando una faglia nella sua difesa. Trova un’opportunità e ci si fionda, mettendo Ali per la prima volta al tappeto. Ali scivola ma riesce ad aggrapparsi ad una corda, appena in tempo per evitare un sinistro al volto portato da Inoki. Il pubblico ha un sobbalzo: questo è il tipo d’incontro che sono venuti a vedere!



Sesto Round

Inoki guadagna centimetro dopo centimetro nella distanza che li separa e calcia. Ali commette l’errore di bloccare il piedi di Inoki e quest’ultimo effettua una rotazione su sé stesso che stende l’americano: questo genere di contromossa è il suo pane quotidiano, l’occasione che stava cercando.



Inoki gli si siede sul petto, lo blocca e comincia a stringere le gambe in una vera e propria morsa. Ma Ali riesce ad agguantare una corda e l’arbitro interviene per separarli. Se i due fossero stati al centro del ring, l’incontro si sarebbe probabilmente concluso in quel preciso istante.

Settimo Round


Inoki mette a segno almeno quindici calci nel corso della ripresa. Le gambe di Ali sanguinano almeno dal terzo round ed ora l’emorragia è così forte da obbligare l’arbitro ad una pausa. L’angolo del campione del mondo accusa Inoki di aver nascosto qualcosa di tagliente nei suoi stivaletti.


In effetti, l’intuizione degli americani non era del tutto infondata: prima dell’incontro, l’allenatore di Inoki gli aveva procurato un paio di stivaletti con speciali cuciture in acciaio. Inoki li indossò ma non riuscì a tenerli: il rimorso di aver barato in quello che sapeva sarebbe diventato il più importante incontro della sua vita sarebbe stato troppo forte per lui. Sfilò quindi i nuovi stivaletti e ne indossò un paio normali. Insomma, non c’era niente nascosto negli stivaletti di Inoki ma si decise ugualmente di proteggerli con del nastro adesivo.


Nono Round

Alì riceve un calcio particolarmente brutale. A partire da questo momento, le intenzioni di Inoki sono chiare: non sta semplicemente mirando alle gambe ma si sta focalizzando su di un punto in particolare per farlo crollare. Tutti i suoi calci sono indirizzati nella parte posteriore del ginocchio sinistro di Ali.

Decimo Round

Ali riesce a metter a segno il secondo pugno della serata, colpendo Inoki alla testa. Anche se Alì era rinomato per la sua agilità e non certo per la sua potenza, Inoki confessò in seguito la sensazione di stordimento conseguente ad ogni colpo centrato dal boxeur.

Undicesimo Round

La gamba sinistra di Ali è completamente gonfia. Fino a quel punto, riusciva a schivarsi saltellando per far intendere che i calci di Inoki non gli facevano male ma ora non può più fingere. La farfalla non riesce più a volare.

Dodicesimo Round

Inoki va a segno con dieci calci. Non si preoccupa più della precisione, ogni contatto è suscettibile di arrecare dolore all'avversario. Le gambe di Ali sono pesanti ma la sua bocca va ancora e riprende le sue aggressioni verbali.

Tredicesimo Round

Ali mantiene il suo incedere strafottente ma zoppica visibilmente. Inoki finta un calcio, Ali si spaventa e si scopre sul lato vulnerabile, esponendo la gamba ferita. Inoki affonda e afferra Ali alla cintola, ingaggiando un corpo a corpo.



È quasi riuscito ad avere la meglio – a suo dire – se avesse stretto Ali qualche centimetro più in basso sarebbe senza dubbio riuscito a farlo scivolare al tappeto. Ma Ali riesce ad incurvarsi e l’arbitro li separa. Inoki tenta di divincolarsi ma non riesce ad affondare. Stringe Ali, cerca di sollevarlo ma quest’ultimo riesce a liberarsi aggrappandosi alle corde. Inoki comincia a peccare di presunzione. E Ali parte in contrattacco.



Scarica una serie di tre pugni che porteranno ad un totale di cinque nell'intero incontro. Ma al suono della campana si sdraia al suo angolo con la gamba ferita a penzoloni fuori dal ring.

Quattordicesimo Round

Niente da segnalare. Essenzialmente i due si guardano in cagnesco e si insultano, entrambi esausti.

Quindicesimo Round

Inoki raggiunge il centro del ring per stringere la mano al suo avversario. Ali gli scaccia la mano col guantone. Cominciano a girarsi intorno.. e nulla più.

L’ultima campana

Inoki alza le braccia al cielo in segno di disgusto, chiaramente frustrato dalle innumerevoli regole che gli hanno impedito di battersi come poteva. Ali avanza, abbraccia il suo avversario e gli dice qualcosa all'orecchio. Sorride ma sembra anche sollevato che tutto sia finito.



La folla non è altrettanto divertita. Erano venuti per vedere scorrere il sangue (quello di Inoki, quello di Ali, quello di chiunque) ma l’incontro è stato di una noia mortale. Ora, questo genere di cose sono all'ordine del giorno negli incontri di MMA (Mixed Martial Arts, ndt) ma all'epoca il pubblico voleva vedere darsele, e di santa ragione. Il palazzetto si trasformò in una mini-sommossa: la gente spintonava, urlava, tirava ogni genere di spazzatura sul ring per manifestare la sua delusione. Probabilmente vi immaginate il giapponese medio come una persona educata e pulita ma vi sbagliate, ci vollero giorni per riordinare quel casino.

Niente Knock Out, la parola ai giudici


Inoki mise a segno un totale di sessantaquattro calci. Ali, cinque pugni.

..e chissà come.. fu un pareggio!

“In termini di colpi portati, ero certo della vittoria di Antonio” ha recentemente dichiarato un rappresentante dello staff di Inoki. “Ma uno dei giudici diede il suo voto ad Ali vincente! Andai su tutte le furie, ero sicuro che fosse stato corrotto. Dopo il match, giravo intorno e gridavo:"Trovatemi quello stronzo di giudice, voglio ucciderlo!". 
Alla fine della storia, Inoki tenne il suo denaro ed il suo orgoglio ben in alto. Ma non ne uscì incolume: dopo tutti quei calci, aveva riportato molteplici fratture al suo piede destro.

Ma per Ali fu molto peggio!

Pare che abbia lasciato discretamente il ring ed una volta che le porte dell’ascensore chiuse dietro di lui sia stramazzato al suolo. Soffriva maledettamente ma aveva una tournée d’incontri previsti nelle Filippine ed in Korea e, a dispetto dell’opinione del suo allenatore, mantenne gli impegni presi. Una volta tornato a Los Angeles gli vennero diagnosticati due trombi alla gamba sinistra e per qualche tempo ci fu il rischio di dover ricorrere ad un’amputazione per contrastare le infezioni. Passò molte settimane in ospedale e ci tornò regolarmente per effettuare dei controlli nei cinque anni seguenti, fino al suo ritiro. Come confermò il suo allenatore, il suo leggendario gioco di gambe non fu più. Ma Ali non era il tipo di atleta da covare rancore, per quanto imbarazzante e dannosa fosse stata l’esperienza vissuta in Giappone. Quando Inoki dichiarò pubblicamente nel 1994 che avrebbe effettuato il suo ultimo incontro, Ali volò dritto a Tokyo ed assistette in prima fila. A fine incontro salì sul ring ed offrì ad Inoki un bouquet di fiori e due o tre parole discrete che nessuno saprà mai.


Per ragioni del tutto evidenti, le biografie ufficiali di Muhammad Ali non si sono mai soffermate a lungo sull'incontro con Inoki per il quale invece fu un episodio leggendario della sua carriera come del resto uno degli eventi sportivi più celebrati in Giappone. A partire da quel giorno ed in onore al suo avversario Inoki adotto la canzone “Ali Bom-Ba-Yè” scandita dal pubblico di Kinshasa durante il match contro Foreman, trasformandolo in “Inoki Bom-Ba-Yè”. Un recente sondaggio in Giappone ha dimostrato che le generazioni più giovani non hanno idea che la canzone appartenesse in origine ad Ali. Questo gesto di grande riconoscenza e di rispetto ha forse aiutato Ali a guarire dalle ferite (morali) riportate su quel ring.

Un’ultima cosa...


Inoki ed Ali condividono un altro aspetto. Nel 1991, poco prima l’esplosione della prima Guerra del Golfo, una quarantina di ufficiali e diplomatici giapponesi erano praticamente tenuti in ostaggio dal governo di Saddam Hussein. I negoziati del governo nipponico erano in stallo così Inoki salì a sue spese su un aereo diretto in Iraq. Organizzò un evento sportivo e pacifico, del wrestling e della musica con l’intenzione di ammorbidire le relazioni tra i due paesi. Durante questa visita, ebbe occasione di visitare una moschea e ne uscì convertito all'islam, prendendo proprio il nome di Muhammad Ali. I giapponesi furono tutti rilasciati.

Highlights Inoki VS Ali





Traduzione: Carlo Ligas (Articolo Originale)