mercoledì 27 novembre 2013

Douglas Coupland, un'intervista sulle interviste


Ho intervistato soltanto una persona in vita mia. Morrissey, a Roma, nel gennaio 2006. 
Nel 2000 sono stato a un passo dall’intervistare Martin Amis, a Vancouver, in occasione del tour di presentazione della sua autobiografia Esperienza. Avevo accettato di farlo perché, beh, perché lui è Martin Amis. E perché così, per una volta, avrei capito che si prova a essere nei panni dell’inquisitore. In realtà ero dall’altra parte della barricata sin dal 1991, ma in quel caso avrei avuto io il coltello dalla parte del manico. Avevo letto la sua autobiografia e preparato un elenco di domande. Era stato più impegnativo di quanto pensassi, perché all’improvviso quello che era partito come un articolo si era trasformato in una specie di compito a casa, e..... io ho sempre odiato i compiti a casa. Il tempo passava. All’una avrei dovuto trovarmi seduto in una stanza con Martin Amis. Ero fottuto.
Ho messo insieme un paio di domande, e mi sono presentato in un ristorante giapponese del centro. Vancouver aveva appena approvato una legge molto restrittiva riguardo al fumo nei luoghi pubblici ma Amis aveva dato la propria disponibilità all’intervista soltanto a condizione di poter fumare. L’imbarazzante preludio all’intervista è dunque consistito nella creazione di una sala fumatori clandestina, il chè faceva molto rockstar, ma non abbastanza da superare il fattore seccatura. Avevamo messo delle vedette alla porta d’ingresso, e tutti si muovevano agitati come fossimo sotto minaccia di una prossima invasione aliena.

Infine Martin Amis è entrato nella stanza, stressato e scorbutico, e mi ha detto: «Non penserai davvero di andare fino in fondo con questa cosa, no?». «No», gli ho risposto, con la sensazione di essere appena scampato al peggio nel migliore dei modi. Dopodiché mi ha chiesto se sapevo dove poter comprare dell’erba, così siamo andati da un tizio che conoscevo, ed è finita che Mr. Amis ha trascorso un piacevolissimo e rilassante pomeriggio senza intervista, giù al porto. 

Con Morrissey le cose sono andate un po’ diversamente. L’incarico di intervistarlo mi era stato offerto da un settimanale inglese assieme a una vergognosa somma di denaro e a un biglietto di prima classe, destinazione Roma. Ora: tenendo presente che la vita raramente offre occasioni divine come questa, se proprio dovete fare un’intervista nella vostra vita, fate in modo che sia con qualcuno di fronte a cui vale la pena di essere intimiditi, che preveda un volo in prima classe fino a Roma e un soggiorno in un hotel a cinque stelle vicino a piazza del Popolo. 

Avevo deciso di accettare, e mi ero preparato al viaggio. La preparazione includeva chiedere al mio medico alcune pillole di sonnifero di nuova generazione che mi sprofondassero in un dolce sonno REM sopra nuvole a forma di gattino e cagnolino. Nessun problema. Ho preso una di queste pillole sull’aereo per Francoforte, e sono stato avvolto da un sonno leggero. Ne ho presa un’altra all’aeroporto Da Vinci, al mio arrivo a Roma, ma non ha fatto effetto: così ne ho presa un’altra ancora e alle nove di sera sono sprofondato nel sonno. Mi sono svegliato alle cinque del mattino, troppo presto per fare qualsiasi cosa. Ho inghiottito ancora un’altra pillola, e mi sono svegliato intorno alle 11 del mattino, lucido e fiducioso. 

Mancavano ancora otto ore all’intervista. Ho passeggiato per la città in preda a una meravigliosa sensazione di acutezza dei sensi, uno stato di oblio simile a quello che talvolta precede l’influenza, bevendo grandi quantità di caffè ristretto italiano per aumentare l’effetto complessivo. 

Tornato in hotel nel tardo pomeriggio, ho ricevuto una chiamata. Morrissey si annoiava, e si chiedeva se era possibile fare l’intervista subito. Annoiato? Che poteva esserci di più tipicamente Morrissey di un misto di irritazione e noia? Bene. Sono sceso al bar dell’hotel per incontrare l’uomo che ha scritto gran parte della musica che aveva definito la mia vita per oltre un decennio. Mi hanno portato in sala da pranzo ed eccolo, seduto a un tavolo, anche se l’unica cosa che sono riuscito a notare era la sua enorme testa. Non un po’ più grande: proprio clinicamente, antropologicamente sproporzionata. Due volte più grande di come avrebbe dovuta essere in base alle dimensioni del suo corpo. Mi ha chiesto di sedermi, e la cosa immediatamente successiva che ricordo sono io al telefono col mio agente, sei ore più tardi, che dico parole tipo: «Aspetta... Che ora è? Eh? Sul serio?». 

Non ricordavo assolutamente niente dell’intervista con Morrissey, tranne (e non ho davvero idea di cosa questo significhi) che stavo parlando di mostri — in particolare del Mostro della laguna nera — e che... uh, oh, sì, avrei comunque dovuto in qualche modo scrivere l’articolo (cosa che ho fatto: l’equivalente giornalistico di guardare dentro a un frigo vuoto cercando un modo per mettere in tavola un’omelette dignitosa). 

Caro Morrissey, se stai leggendo queste righe ti prego di accettare le mie scuse, e — per favore — se le nostre strade dovessero incrociarsi ancora in futuro, dimmi di cosa diavolo ti stavo parlando quella sera a Roma. Oh, e ti prego anche di credere che normalmente non sono uno che parla a vanvera. E che lì era tutto un po’ andato per la tangente. Colpa del jet lag e dei sonniferi di nuova generazione. 



Del resto la maggior parte delle interviste funzionano sempre nello stesso modo. L’intervistato si siede lì, e in cambio di un numero imprecisato di benifici dalla natura incerta, consente a un estraneo di calargli le braghe e attaccare delle sonde al suo corpo, accettando tacitamente di rispondere educatamente a domande scortesi o sconsiderate, mettendo il silenziatore ai propri veri pensieri e sentimenti, e finendo — spesso — per uscirne come un povero scemo. 

Qualche anno fa ho insegnato per un semestre alla Emily Carr University of Art and Design di Vancouver. Tenevo un corso sui media cartacei, e in una lezione abbiamo trattato il tema della fama e di quel che rappresenta. Ho chiesto agli studenti quale fosse il vantaggio principale dell’essere famosi, e la loro risposta mi ha mandato al tappeto: «Il fatto di essere intervistati!». Il buon Dio ci protegga da ciò che desideriamo... Non c’è stato modo di convincerli che le interviste sono spesso un’esperienza disgustosa, sgradevole e brutale: una specie di stupro della mente dai benefici decisamente relativi (la “pubblicità”? Ugh!). 

La mia prima intervista in assoluto l’ho concessa al Los Angeles Times. Un buon inizio. Ma il mio editore era l’unico sulla faccia della Terra che, davanti all’aumento delle vendite dei miei libri, invece di capitalizzare ha detto: «Hmm, secondo me non dura. Smettete pure di organizzare interviste per questo Coupland. Chiunque lui sia». Così, nel momento della mia vita in cui le interviste potevano essere davvero utili, sono stato abbandonato a me stesso. Erano gli albori: registratori a nastro che morivano o non avevano batterie di ricambio; appuntamenti telefonici negli orari più assurdi del giorno e della notte; scarso, quando non inesistente, aiuto della casa editrice nel trattare con i fuori di testa…Ed era prima dei blog, prima dei fan- site, prima di qualsiasi cosa. Dio, non riesco a credere quanto fosse tutto primitivo, low tech e triste. 

(...) La mia politica nei riguardi delle interviste è di non leggere mai quello che scrivono su di me, nel bene e nel male, perché se si crede al bene allora è necessario credere anche al male — rischiando di perdersi in un labirinto di specchi come è accaduto a Courtney Love, che perlustra il pianeta inseguendo ogni molecola di stampa esistente su di lei. Io in genere chiedo a un paio di persone di cui mi fido di leggere tutto quel che esce, e se c’è qualcosa di insolito me lo passano. Fine. 

Una volta, nel 1995, ero in visita in Irlanda, dove vive mia cugina. Avevo dato un’intervista all’Irish Times, ma avevo bevuto troppo e mi ero dilungato in allarmanti dettagli sui demoni che abitavano dentro di me. Una settimana dopo mia cugina mi ha faxato (ebbene sì: faxato!) l’articolo e l’ho letto. Il giornalista si era semplicemente inventato l’intervista. Ogni singola citazione o aneddoto erano frutto di fantasia. Era come se non ci fossimo mai incontrati. È stato allora che ho deciso che non ne potevo più delle interviste vecchio stile — e nel 1995 mi sono iscritto al partito della tecnologia digitale. Sapevo che la svolta stava per arrivare. Usavo il servizio email di Aol e ho realizzato che con le interviste online non esistono citazioni errate: le risposte riflettono davvero la realtà, e il risultato è in genere migliore e più vero. Ho quindi cominciato a concedere solo interviste via mail, e stavo in effetti ottenendo qualche risultato quando i Duran Duran hanno mandato all’aria l’idea stessa dell’intervista via mail quando è venuto fuori che era il loro ufficio stampa a rispondere ai posto loro. Grazie ragazzi!

     

Se digitate su Google il mio nome e le lettere “Q” e “A” sarete sommersi da una quantità imbarazzante di interviste, in gran parte successive al 1998. Apprenderete qualcosa su di me? Sì. No. Sono un intervistato difficile, perché troppo consapevole del processo e troppo poco tollerante davanti a domande noiose o a cui ho risposto molte volte — o davanti alle persone incompetenti. Vai al punto. Non farmi perdere tempo.
Che tipo di persona sceglie di fare interviste? Una domanda che nessuno ti ha mai posto prima può essere molto interessante, e nei casi migliori può anche finire che tu diventi amico del tuo intervistatore: a me è capitato. Devo invece rilevare (con tristezza) che non sono mai finito a letto con qualcuno conosciuto durante un’intervista. Questo non perché manchino gli intervistatori attraenti, anzi: credo piuttosto abbia a che fare con la natura asessuata delle interviste. 

Andy Warhol l’aveva capito. La gente è noiosa. Le macchine sono sexy. Che camicia indossi? Cosa hai mangiato a colazione? Dopo 20 minuti le riposte diventano inevitabilmente stupide. È quello il momento in cui ti chiedono cosa hai mangiato a colazione. I particolari che distinguono una persona da un altra non sono per forza eccezionali, e il 21esimo minuto lo rende fin troppo evidente. Così negli ultimi tempi ho semplicemente smesso di preoccuparmi, e dico esattamente quello che ho in mente. Forse avrei dovuto farlo fin dall’inizio. Magari in questo modo negli articoli sembrerò più antipatico di quello che sono, ma che c’è di male? Essere gentile è noioso. Soffrire della sindrome di Tourette è parecchio più interessante. 

Questo testo è un estratto dalla prefazione al libro Interviews Vol. 2 di Hans Ulrich Obrist (Charta, 2010).

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