domenica 26 maggio 2013

Gonzai.com: Daft Punk, Ritorno al passato




Ci siamo: Random Access Memories arriva finalmente sugli scaffali. O almeno ciò che ne resta, giacché l’attualità ci ricorda solo quello a cui internet ha dato risalto da tempo. Da una settimana l’album è disponibile sulla rete: inizialmente con piccoli samples, per essere poi reso rapidamente pubblico sulla piattaforma di iTunes. Certo, l’entourage dei Daft Punk aveva anticipato per bene la cosa, un’operazione di promozione a raffica. Da circa una settimana quindi tutti conoscono il contenuto del disco più atteso dell’anno, tutti hanno potuto parlarne, esprimere la loro opinione. E così facendo, partecipare alla più formidabile operazione di comunicazione mai condotta, in questi ultimi anni, nel campo della musica contemporanea. Quindi, una domanda è sorta spontanea: c’era davvero bisogno che vi dicessimo cosa pensiamo di questo quarto album? La risposta è altrettanto spontanea: no.



Di sicuro sarete delusi: nel pezzo che seguirà, non leggerete niente che possa darvi la minima idea di ciò che noi pensiamo di Random Access Memories. Non una sola riga su questi tredici pezzi che abbiamo ascoltato come un tutt’uno e che gli specialisti, così come i neofiti, già vivisezionano ed analizzano. Questo per una ragione molto semplice: “RAM” (per farla breve, senza che nessuno ci veda un’allusione all’eponimo album di Paul McCartney) è un disco che appartiene già a tutti. Per la sua stessa natura, a causa del contesto, della personalità degli autori e dell’attesa che ha suscitato, fa già parte di quei totem universali sui quali ogni forma di critica è, infine, inutile. Il nostro avviso? Chi se ne frega. L’opinione dei colleghi parigini, americani, marsupiali? Altrettanto. Volendo parafrasare una celebre battuta estratta da non so quale western virile: “I pareri sull’album dei Daft Punk sono come i buchi del culo: tutti ne hanno uno”. Del resto, come potrebbero i giornalisti, dopo appena qualche giorno, pontificare su questo blockbuster che è stato pensato, minuziosamente elaborato, concepito durante cinque lunghissimi anni? È la prima trappola nella quale cadere ed è, ovviamente, facilissimo: pronunciarsi in maniera assoluta su questo disco, lungo e cosparso di trabocchetti, in un’epoca in cui tutto ci invita alla precipitazione. C’è dell’altro, che si ha un po’ la tendenza a occultare: l’opinione espressa da un media altro non è che l’opinione di un’unica persona, quella che la firma. Succede che in certi casi, più soggetti alla polemica, le opinioni non sono condivise, o addirittura sono contrarie: ci sono, di conseguenza, tante opinioni sul nuovo disco dei Daft Punk quanti giornalisti. In ordine sparso: quelli che lo adorano, quelli che lo detestano, quelli che pensano che erano meglio prima, quelli che ci ritrovano qualcosa, qua e là...poi ci sono quelli che... chi se ne frega, di nuovo...



Ma allora, perchè consacrare un pezzo così lungo all’uscita di “RAM”? Beh, semplicemente perchè ci sono mille cose da dire around the RAM. 

Come a proposito dei Daft Punk, del resto: un argomento senza fine, in fondo. Argomento che non è soltanto una questione di musica, nel senso di materia sonora grezza, piuttosto di come riuscire a farne un mezzo capace di veicolare il sogno, ovunque sul pianeta. Daft Punk è un’idea, un’ideale, quasi: quello di un’opera totale che si piazza all’incrocio tra musica e cinema, tra underground e pop, tra la nostalgia per certi anni d’oro (tutti relativi) e l’ossessione per le tecniche di comunicazione più moderne. A questi livelli, non è più soltanto Musica nel senso stretto del termine: è strategia. I Daft Punk hanno ormai abbandonato da parecchio tempo il campo dell’avanguardia per occupare quello, molto più impattante, dell’entertainment. Questa mutazione è stata progressiva: in retrospettiva, il suo anno zero, coincide con l’uscita di “Discovery” (2001). L’odissea un po’ fanfarona comincia precisamente in quel momento, quando Thomas e Guy-Manuel decidono di comparire per la prima volta, al fine di creare rumore attorno all’uscita dell’album, col volto coperto da due caschi robotico-futuristici. Fino a quel momento, pochissimi conoscevano il loro viso, dissimulati com’erano dietro al culto dell’anonimato, così caro ai loro modelli, padri fondatori della techno. Paradossalmente, mostrandosi così mascherati, guadagnarono una fisionomia, anzichè perderla: quella di mutanti che non smetteranno di mescolare le piste tra umanità e tecnologia (filo conduttore della loro opera omnia), la fisionomia di supereroi che concentrano i loro poteri su di un unico obiettivo: conquistare il pianeta. Fino a quel momento, non si tratta di un cartone animato creato dal disegnatore di Albator (il figlio di Capitan Harlock), si tratta ancora di realtà. Una realtà che diventerà altrettanto rappresentativa e riconoscibile come con certi marchi-icona: Disney, Apple o Coca Cola.

Diciamocelo chiaramente: quella dei caschi, è stata la migliore idea che i due abbiano mai avuto. 

Innanzitutto perchè indossandoli sono diventati istantaneamente riconoscibili da chiunque. Nell’immaginario collettivo, due tizi con un casco, sono i Daft Punk. È come un logo. Un robot qualsiasi non avrà mai l’impatto di questi due androidi (a meno che non parliamo di D2-R2 o Z-6PO, e nessun altro forse..). Inoltre, con questa trovata, i Daft Punk riescono a conciliare l’inconciliabile: ovvero celebrità e anonimato. Chi altro, nella costellazione dello star system, può raggiungere milioni di persone e allo stesso tempo poter andare a fare la spesa in tutta tranquillità? E chissà quanti fan si sono ritrovati a parlare con loro o a camminare al loro fianco senza sapere di essere ad un passo dagli Dei? E ovviamente, più di una teoria è scaturita a partire da questo stato schizofrenico, comodo ma aleatorio allo stesso tempo, perchè basato su un’incognita permanente: mai Daft Punk, sono davvero i Daft Punk? Esistono davvero? Esistono ancora? Rinchiusi nell’alto della loro piramide di luce, in posa per un set fotografico, digitalizzati in un videogioco? La sola certezza assoluta, è che ci sono due cervelli, dietro a quei caschi. Di un’intelligenza considerevole. Inoltre, e cominciamo a rendercene conto soltanto ora, l’aspetto più geniale di quest’idea dei caschi è che sono perfettamente refrattari allo scorrere del tempo: insomma, i Daft Punk non invecchieranno mai. Aldilà del denaro, della gloria e della posterità, è possibile immaginare qualsiasi altra star, che finisce immancabilmente per farsi liftare come un rovescio sulla terra battuta, poter fregarsene così altamente dello scorrere del tempo? A conti fatti, in vent’anni di carriera, i Daft Punk non hanno una sola ruga, non hanno borse sotto agli occhi, zero calvizie (una buona lega metallica non ha bisogno di shampoo anti-caduta). Tra trent’anni, potranno ancora tirare fuori un album retro-futurista, improvvisando un concerto con quei vecchiacci di Justice, Strokes, Kavinsky o Pete Doherty (che sarà in un polmone d’acciaio), celebrando quegli anni in cui la French Touch riciclava la French Touch, il Rock riciclava il Rock, prima che i veri robots prendano il controllo, eleggendo i Daft Punk a modello assoluto, matrice di tutte le tendenze a venire in materia di revival computerizzato. Nel mentre, generazioni e generazioni di nuovi fans saranno nate e senz’altro noi saremo ancora lì, magari ancora non per molto, comodamente allettati in una casa di riposo dove saranno diffuse le immagini delle serie TV degli anni 2000, cullati dal suono di un buon vecchio Harder, Better, Faster, Stronger, prima dell’arresto cardiaco che ci attende. Insomma, siamo ancora all’inizio.

Pensavate che “RAM”, con i suoi mentori e le sue referenze agli anni settanta potesse essere il loro canto del cigno?


Vi sbagliate. Questo disco marca il lancio di una terza, decisiva tappa nella carriera dei Daft Punk e accompagna naturalmente la nascita di una terza categoria di fans. Fino ad oggi, potevamo in effetti distinguerne due, ognuna delle quali non necessariamente incompatibile con l’altra. Da una parte, i fans della prima ora: che si tratti dei puristi che hanno avuto la fortuna di vedere il duo nei raves della metà degli anni novanta o di un più largo pubblico che li ha scoperti con la follia del video di Around the world, tutti concordano che “Homework”, il primo album che fece l’effetto di una bomba, sia stato il big bang dell’elettronica francese, la cui deflagrazione continua ancor oggi a nutrire e contaminare numerosissime produzioni contemporanee. Dall’altra parte, i fans della loro opera, intesa nella sua globalità: quelli che si sono incendiati all’uscita di “Discovery”, album dal suono kitsch, dagli universi visionari, dalla nostalgia galoppante per gli anni ’80, che seguiranno ogni epopea del tandem negli anni seguenti, estèti, gente qualunque, festaioli da sabato sera, giovani studenti, quadri dirigenziali, insomma, quei tutti che fanno chiunque.
2013: annunciato a sorpresa ad inizio anno, “RAM”, che nessuno si aspettava, esce accompagnato da una campagna marketing sbalorditiva e rivela che la voglia di Daft Punk non si è mai assopita. Al contrario, è andata crescendo. In dieci anni (se ci basiamo più o meno su “Discovery”) è apparsa una nuova generazione di fans: giovanissimi, ascoltano la musica sui cellulari, comunicano coi social networks e costruiscono la loro cultura musicale quotidianamente su Youtube. È nata talmente dopo i Daft Punk che non ha avuto il tempo di crescere coi Daft Punk, ma si rende conto che la loro musica è una porta di Sesamo che può permetterle non solo di giustificare ciò che già ascolta (electro, R&B, stronzate varie) ma soprattutto di aprire tutto un insieme di vie verso il buon suono. Non hanno potuto apprezzare “Homework”, impegnati con il biberon, “Discovery”, distratti dalla ricreazione, ma faranno un trionfo di “RAM”, la loro “Sgt Thriller’s Nevermind Side of the moon”.
Riveniamo dunque su quest’oggetto del desiderio, già ora l’evento musicale dell’anno, giacché il più popolare. Si tratta, come detto, di un disco realizzato in cinque anni, all’antica, con musicisti in studio e (ufficialmente) nessuna macchina, almeno apparente, registrato tra Los Angeles e New York, con special guest di ieri (Nile Rodgers, Giorgio Moroder..) e di oggi (Pharrel Williams, Julien Casablancas..), con un budget totale che resterà segreto di Stato. Prima ancora che il disco appaia in rete, c’era già questa certezza: “RAM” sarebbe stato l’anti “Homework”. Fino ad oggi, i Daft Punk si erano sempre rimessi in questione ad ogni uscita di un nuovo album ma mai come in questa occasione avevano preso le distanze da ciò che aveva loro permesso di esistere, di acquistare legittimità. La forza di “Homework” era il suo geniale taglio amatoriale. Ciò che identifica oggi “RAM” è il suo professionalismo quasi ostentato. Essenzialmente, più niente deve, d’ora in avanti, eccedere, nella musica come nella maniera di venderla. Più che i suoi modelli storici, di cui è meglio tacere i nomi per preservarli da eventuali torti, “RAM” è senza dubbio il primo prototipo di disco “perfetto” ad essere mai stato concepito. Perfetto poichè totalmente eterogeneo e quindi suscettibile di avvicinarsi, con un pezzo o una altro, ad ogni membro della famiglia. Immaginando uno spot delirante, sarebbe qualcosa del genere: “L’ultimo dei Daft Punk? Un disco per i piccoli e per i grandi, da consumare senza moderazione. Provatelo!” Radio, TV, Web: tutti i canali tradizionali di ieri e di oggi ne sarebbero invasi. Da buoni ascoltatori che siete, vi sarete senza dubbio posti la domanda del perchè, oltre alle due referenze più palesi, la disco Moroderiana e il film Phantom of the Paradise e a qualche ospitata ben selezionata, i Daft Punk si sono divertiti a riempire il disco di una serie di piccole, accattivanti cosucce. 

Qui sta il paradosso della storia: tentando di ritornare ad una certa forma di suono “caldo”, organico, quasi carnale, i Daft Punk non sono mai apparsi tanto inumani. 


“Humans after all”? Bisognava superare questo concetto. Stabilirsi infine e definitivamente come entità extraterrestre. Ovviamente tutti, o quasi, hanno seguito. A cominciare dai giornalisti che hanno assunto il ruolo delle agenzie di comunicazione in una campagna: come un organo ufficiale di propaganda. In Francia, a sorpresa, è stato Manoeuvre a sfoderare per primo una copertina di Rock&Folk coi Daft Punk. Hanno visto in “RAM” un disco perfettamente omogeneo (ah sì?), futurista da morire (ci siete ancora? Mi ricevete?) e così estremo nel prendersi rischi da poterne forse patire al momento dell’uscita (ma dai..). Delle lunghe interviste sono state accordate ai media generalisti più importanti e quelli che non hanno avuto questo favore hanno, al culmine dell’eccitazione, riempito pagine e pagine del tema più caliente del momento: alcuni lodando il disco prima dell’uscita, altri dando, con più moderazione, la parola agli esperti, altri ancora mettendo il duo sugli allori senza per altro avere granché da dire. E non stiamo considerando ciò che ne ha detto il web o semplicemente la gente. Col terreno così ben spianato, ufficialmente legittimato dal “i robots stanno tornando”, i Daft Punk possono oggi tranquillamente far atterrare la loro navetta sul pianeta Terra e contemplarne il paesaggio. Ovunque i fans vogliono avvicinarsi ai loro idoli immateriali, venuti da un mondo dove non esistono miseria, maltempo o conflitti. Dalla capsula fuoriesce l’oggetto della ricerca del Sacro Graal, un pezzo di plastica o di metallo, poco importa la forma che avrà, ma un pezzo di tecnologia di cui abbiamo bisogno e finchè ne resta, un pezzo della memoria del tempo passato e felice, così prezioso, qualcosa che ci permetta di fuggire, di crederci, dobbiamo sforzarci a crederci. Plastica o metallo, non sarà mai peggio della realtà che ci circonda. 
“Popolo della Terra, possa questo disco portarvi la luce, un’altra visione del mondo, quel mondo di libertà, giustizia e pace al quale voi tutti aspirate." Possa salvarvi da ogni tentazione, da tutti i mali che vi affliggono e mostrarvi la retta via. Possa mostrarvi tutto ciò che l’ha modellato, Chic, Supertramp, Giorgio Moroder, Steely Don, Kool & The Gang, Alan Parson Project, 10 cc, Dennis Wilson, Kraftwerk, Roxy Music! Crescerete, brucerete le tappe, sfonderete i muri e non sarete mai più soli. Allora un giorno, forse, dopo aver assimilato le radici del mainstream che ha predisposto le vostre vite, vi rivolgerete a coloro che in quello stesso tempo hanno trasmesso un messaggio di resistenza. Perchè ritornerà il tempo della rivolta, popolo della Terra!”


C’erano una volta, tanto tempo fa, da una galassia lontana, due giovani uomini che si davano da fare per scoprire nuove vie nella musica.

Erano cresciuti con la cultura Pop, avevano preso una sberla sorprendente con l’avvento dell' House e della Techno e avevano, senz’altro per caso, avuto accesso a queste nuove macchine che, di lì a poco, avrebbero riempito le stanze dei loro compagni di classe e dei loro successori. Avevano talento, senza dubbio, talento che hanno utilizzato per cambiare i codici di questa musica sintetica e futuristica che rinviava alle sue radici nere. Il minerale che ne estraevano era grezzo, incandescente, denso, quasi radioattivo. Ben presto, esposto alla luce del sole, si è irradiato dappertutto con il suo splendore, come un enorme diamante ben intagliato. Le conseguenze furono importanti, per tutti coloro che subirono l'esposizione, ma anche per i due uomini che l’avevano messo a nudo. Lentamente ma con sicurezza, quel minerale ha compiuto la sua opera: cominciò inebriando chi ne entrava in contatto e ne faceva un uso indirizzato al divertimento di massa. Forse non era la miglior cosa da fare: tutti questi bagni con solventi commerciali potevano diluirlo. Ma il suo effetto si fece progressivamente più intenso e provocò delle mutazioni sui due uomini che già non erano più tali: il loro aspetto esteriore evolveva, come le loro attività, vieppiù divergenti da ciò a cui la natura li aveva inizialmente predestinati. Avanzavano verso un altrove, certo, ma non perdevano in fondo in profondità ciò che stavano guadagnando in polivalenza? Il problema è che si indebolivano: ben sfruttato da altri, quel minerale rinvigoriva. Non più sprigionato da loro due, diventò presto la palla di neve che ingrandisce e inghiotte la vallata. Allora, quando il tempo finì di risucchiare i poteri ai nostri supereroi, che ne mantenevano le forme ma non la sostanza, ridiventarono dei semplici mortali. Invitando alla loro tavola coloro che avevano in altri tempi conosciuto la stessa sorte, immortalando la scena, il banchetto, su di un pezzo di memoria vivente che riguardava soltanto quella dei loro prestigiosi ospiti.


E nel clamore generale, non abbiamo che due voci di robots.


(traduzione: Carlo Ligas. L'articolo originale )

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