lunedì 19 settembre 2011

Habemus Papam, di Nanni Moretti - 2011

Fumata bianca. Decisamente, indiscutibilmente bianca. A dispetto di quanto ci si potesse aspettare, il Maestro affronta quello che entrerebbe di diritto nella cerchia dei nemici storici, per mera semplificazione bipolare o per più sottili tematiche affrontate in tempi più che sospetti, senza fare ricorso alla veemenza già prodigata al momento di mettere in discussione l’altro Totem sociale, quello civile, allora, senza quegli affondi che crudelmente avevano sviscerato la figura politica protagonista de “Il Caimano”. Resta certo perfettamente apprezzabile la fine strafottenza con la quale Moretti varca i confini inviolabili di un mondo agli antipodi del suo, del nostro, un mondo agli antipodi del mondo, recintando però furbescamente il film di un’aurea di tenerezza forse più inattesa che inconsueta. Sono gli strumenti stessi di Santa Romana Chiesa che il regista utilizza in questa sua scorribanda che ha piuttosto il passo della gita domenicale. E’ in primis il concetto di ascensione, pilastro della dottrina, senso unico in direzione della vita eterna, ad essere demistificato in un continuo senso alternato tra sacro e profano, divino e umano, terreno: questo saliscendi senza forzature riesce candidamente a mostrarci l’umanità più intima di un pugno di uomini, tutti papabili, che scivolano dall’alto della loro porpora giù nelle loro più profonde paure carnali, che nei loro pensieri rifiutano, scongiurano, la loro elezione, la sublimazione del loro mandato e della loro vocazione.
Scopriamo, ripartendo dalle paure umane per ritornare verso l’alto della materia divina, le prime tracce della depressione perfettamente dipinte nella Bibbia, per ridiscendere poi a picco nella noia materiale di uomini ormai liberati dal rischio ma costretti ai passatempi più popolari per sciogliere il loro dovere di presenza in un soggiorno obbligato da rendere quantomeno tollerabile. Questi repentini cambi di atmosfera sono sapientemente gestiti dal burattinaio Moretti, tanto dal regista quanto dal personaggio interpretato, che schernisce definitivamente la sacra istituzione ecclesiastica facendole pagare un ennesimo dazio alla storia, obbligandola a subire uno smacco umiliante, costringendola a fare ricorso ad uno strumento tra i più simbolici della modernità, quale la psicanalisi, che rimpiazza con l’uomo ed il suo inconscio la posizione centrale del Divino, rendendola così remissiva quando non trova altra via se non quella di rimettere alla scienza il suo pastore supremo.
Questo avviene tramite un ulteriore appropriazione da parte dell’autore di un elemento secolarizzato della pratica del credo, la confessione, sommessa prima, umanissima ammissione con lo sguardo nel vuoto del passato da parte del pontefice in pectore di aver soppresso una ben differente vocazione che lo possedeva in giovane età, confessione sostenuta nella sua antropica naturalezza da una notevole recitazione di Piccoli, folgorante e puerile allo stesso tempo, adagiata delicatamente su di un rocambolesco parallelismo con Čechov, palesata poi “apertis verbis” in una pubblica ammissione di piazza. Restano lievissime ombre, a voler stigmatizzare da un punto di vista più tecnico il film, lasciate impercettibilmente da un montaggio ripetitivo e scollato delle scene di massa, sicuramente dovuto a delle riprese di non semplice messa in opera sul sagrato di quei luoghi spaziali così protetti invero, meno protetti d’altronde di quelli comuni derisi bonariamente nella narrazione.

Voto: 7
Carlo Ligas
 

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