sabato 2 marzo 2013

Coriolanus, di Ralph Fiennes (2011)

"Cosa volete, cani, che non amate né la pace
Né la guerra? L’una vi atterrisce,
L’altra vi rende insolenti. Chi si fida
Di voi scopre, dove vorrebbe
Trovare leoni, che siete lepri;
Dove volpi, oche. Voi non siete più solidi,
No, del carbone che arde sul ghiaccio
O della grandine al sole. La virtù
Vostra sta nel considerare degno
L’uomo la cui colpa lo fa punire
E nel maledire la giustizia che l’ha fatto.
Chi merita grandezza merita il vostro odio
E le vostre inclinazioni sono come
L’appetito di un malato che desidera di più
Ciò che accresce il suo male. Chi dipende
Dai vostri favori nuota con pinne
Di piombo e abbatte querce con giunchi.
Impiccatevi! Fidarsi di voi?
Cambiate opinione ogni minuto,
Chiamate nobile ciò che un momento prima
Odiavate, e vile colui che era
La vostra ghirlanda. Per quale motivo,
Nei diversi luoghi della città gridate
Contro il nobile Senato, che, sotto l’egida degli dei,
Vi tiene a freno, voi che altrimenti
Vi divorereste l’un l’altro?"                                                 (Coriolano, W. Shakespeare)



Il Coriolano è l'ultima tragedia che Shakespeare scrisse e, probabilmente, anche una delle meno conosciute. 
Eppure è un dramma dalla fortissima connotazione emotiva e politica che, anche nelle nuove vesti regalategli da Ralph Fiennes, al suo esordio da regista, ben si presta a questi tempi di crisi morale ed economica.

Caio Marzio (il soprannome Coriolano arriverà più avanti) è un generale romano, un soldato valoroso e un uomo affetto da incomunicabilità, sconsiderato nel suo coraggio e dipendente dall’adrenalina del combattimento (che, al contrario dello sminatore di ‘The Hurt Locker’, film con cui condivide il direttore della fotografia Barry Ackroydinnesca la pugna). Detesta la plebe del suo impero, per la quale rischia la vita in ogni battaglia, e non sa gestire il minimo cerimoniale, l'ipocrisia dei rapporti umani e politici. Coriolano è un eroe e, al tempo stesso, un loser, un disadattato.

La prima impressione, quella più superficiale, ci racconta come, al primo colpo, Ralph Fiennes riesca a portare in scena Shakespeare liberandolo da ogni pericolo di logorio (nonostante i dialoghi mantengano la sintassi originale), anzi rivestendolo di nuovo lustro come mai ha saputo fare per esempio un Kenneth Branagh nelle sue numerose rielaborazioni, quasi tutte pervase da un irritante portamento ridondante e frou-frou. 
Il regista, nello scegliere la Belgrado post conflitto balcanico come luogo dove ambientare le riprese, utilizza lo stesso accorgimento di Shakespeare, che trascriveva Roma attraverso le letture classiche di Ovidio e Virgilio per rappresentare gli scontri sociali, la precarietà della monarchia, della Londra del XVII secolo. 


Ma il dato teatrale che traspare dalle coreografie spoglie (potrebbe essere interamente girato on the backlot, come uno dei primi Tarzan, come un film di Fellini costruito a Cinecittà, o come la Parigi completamente posticcia di Irma la Dolce), dichiara apertamente il vero protagonista: la potenza dei caratteri in scena e la grandezza degli attori. 

Dall’interpretazione straordinaria di Fiennes stesso, a quella miracolosa di Vanessa Redgrave nella parte della madre di Coriolano, Volumnia; da quella perfetta, nella sua trattenuta condiscendenza, della moglie Virgilia, di Jessica Chastain, al contributo prezioso, senza rumori di fondo, del sempreverde Brian Cox e del muscolare Gerard Butler, è una persistente manifestazione del talento attoriale.
Questo, Fiennes lo sa bene e ha l'accortezza di disidratare completamente ogni barocchismo scenografico e folcloristico, narrativo e retorico (grazie anche all'oculata sceneggiatura di John Logan).

Il racconto dei moti che si svolgono esternamente al palcoscenico, viene delegato alla televisione, ad una sorta di notiziario CNN, disegnando così una messa in scena solida e primitiva, una geografia con pochissimi meridiani e paralleli, la vicenda umana sopra qualsiasi tentazione di sfarzo pretestuoso.


È interessante la differente concezione geometrica che nell’arco del tempo quest’opera ha saputo evocare in due intellettuali come il poeta T.S. Eliot e il filosofo Zizek: il senso orizzontale di una trama che si muove decisa e compiuta tra due punti, superiore all’ambiguità dell’Amleto (secondo l’autore di ‘The Waste Land’) e quello circolare dell’ideologia politica del protagonista, che nasce come braccio armato del potere imperialista, per poi unirsi ai ribelli volsci seguendo l’impulso della vendetta e infine ritornare nell’alveo conservatore a seguito delle preghiere di madre e moglie (nell’analisi dello sloven). 

Ma è tutto il film ad essere abitato da spostamenti di insiemi significativi. Oltre la cornice, una verità si muove armonicamente rispetto al narrare: tutte le rappresentazioni caratteriali dei personaggi non sono altro che i loro più manifesti tratti distintivi, nessun divenire o trasformazione in atto: la Plebe, il Guerriero, la Politica, la Madre e le parole stesse di Coriolano (così organiche da divenire animate). Proprio come è impossibile per Coriolano dire bugie, adulare e aggirare la plebe, il senato, il suo istinto e, per la proprietà transitiva, lo spettatore: nessun travisamento abita la messa in scena.

Caio Marzio è sempre e solo condannato ad essere stesso, una specie di Alessandro irascibile, violento, tuttavia irraggiungibile per forza d'animo e coraggio, senza mire espansionistiche se non quelle intrinseche, quelle che rispondono ad una battaglia con se stessi. 
Al contempo, dentro la cornice, c’è una ferita profonda, una gigantesca incongruenza tra quello che la plebe crede, di volta in volta, desiderare, la sua volubilità luculliana, e lo spirito aristocratico e puro del generale romano, sublimato nell’atto eroico ed egotico del combattimento efferato (eppure, quasi inconsapevolmente e involontariamente, proteggendo quel popolo così disprezzato). 
Anche in questo caso Ralph Fiennes mette in sordina il resto e illumina due punti, che come due razzi traccianti si muovono parallelamente, si incrociano, si separano, per tutta la durata dell’opera: la volubilità dei media nel trasmettere i discorsi alla base e l’essenzialità furiosa dei caratteri portati in scena. Tutto spinge su questa dicotomia: l’arte (o la truffa) della dialettica e l’arte della guerra, ragione e istinto. 

E’ l’unica fine possibile, quella di Coriolano. Morire per il tramare di una congiura e la ferocia di un gesto: una pugnalata. Essere o non essere; la purezza dell’istinto o il compromesso, la poesia o il discorsivo.


 Luca Tanchis

Ralph Fiennes parla del suo Coriolanus


«Coriolano mette in scena i conflitti del presente. Viviamo tempi in cui le autorità non sono credibili, ovunque il concetto di autorità si va ridefinendo, e così il concetto di democrazia: cosa è, cosa implica viverci. Cosa è diventata e cosa non è più. Le nostre economie sono crollate come un domino, il sistema capitalistico è in dubbio. Per me questa storia di Plutarco ripresa da Shakespeare è moderna, i temi sono il potere e la rappresentazione del potere, il potere militare. E sono temi che sento vivi intorno a me, riguardano America, Russia, Cina, l’Africa delle guerre tribali, il mondo arabo, il Medio Oriente».

Meglio, quindi, un’ambientazione contemporanea?


«Shakespeare è più accessibile per il grande pubblico se ci si può identificare: jeans, cellulari, pistole. Amo il “Romeo+Juliet” di Baz Lurhman, è riuscito a creare un mondo chiaro e vivido immediatamente comprensibile».

Coriolano è un eroe solitario incapace di comunicare con le masse.



«Sì. È un ragazzo dentro il corpo di un uomo e l’uniforme di un soldato. Un ragazzo che non è mai cresciuto, per lui il campo di battaglia è come un giardino di giochi. Si sente realizzato e completo solo quando combatte. Non ha vocabolario sociale. Ha antipatia per la gente, una profonda paura delle masse. Una figura tragica, per questo Shakespeare la chiama “La tragedia di Coriolano”. Il Bardo mostra la sua unica intimità con un altro uomo, Aufidio, una sorta di bizzarro amore omosessuale: sono come due wrestler. Coriolano è destinato alla sconfitta. Non ha l’abilità dei politici. È vulnerabile e non è attraente ma vuole essere se stesso. Questo non è possibile in società che funzionano su un certo grado di cortesia».

Spesso lei ha incarnato personaggi soli, diversi.

«Non so, credo perché mi ci identifico, non è una scelta consapevole».

Ama la solitudine?

«Mi piace stare solo, non mi piace essere solo. Ma a volte ne ho bisogno».

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