sabato 29 settembre 2012

La sottile linea rossa (Gli uomini ai tempi della guerra), di Marco Lodoli


Che cosa è e cosa separa la sottile linea rossa tracciata nel titolo del più bel film dell’anno? 
E' la linea del sangue che ogni giovinezza deve versare per accedere alla compassione e al disincanto della maturità? 
O è la linea feroce che divide la Storia dalla Natura, il rimbombo del mortaio da quello del temporale, la marcia del guerriero da quella delle stagioni o, ancora, la crudeltà che l’uomo agita per sentirsi forte dalla bellezza indifferente dell’universo? 
Dove passa quel filo insormontabile, dentro i nostri sgretolati pensieri, tra l’affanno delle domande e il bisbiglio indecifrabile delle risposte? Tra la vita e la sua fine? 
Scriveva Ortega y Gasset che «la realtà tutta, il mondo reale, tutta questa gran cosa non è che frammento, e come tale è priva di senso, e ci costringe con dolore a cercare la porzione mancante, che non è mai là, che è l’eterno Assente — e che ha nome Dio: il Dio che si nasconde, Deus Absconditus ». 
Dunque è tra il mondo e il Dio celato, inaccessibile, che corre il filo tagliente della linea: tra ciò che si frantuma nel disordine dell’incompiutezza e ciò che rimane perfetto e distante, come distante e perfetta è l’amata nei sogni cupi e febbrili dell’innamorato. 
«Se io non ti incontrerò mai, fa’ che senta sempre la tua mancanza», prega nel pensiero uno dei tanti soldati che il regista Malick ci racconta.


Nulla ha a che spartire quest’opera con Salvate il soldato Ryan, ed è del tutto sbagliato misurare un film raro come questo con il metro di legno usato per l’altro. 
Là tutto procedeva come un cuneo che stringe inesorabilmente verso un punto; il tema era classico, epico-cavalleresco: la storia di una ricerca e di un sacrificio, un percorso fatto di prove tanto terribili quanto necessarie a valutare la nobiltà degli eroi, per fissare il senso della vita nella fedeltà con cui si affronta un compito insensato. Il film di Spielberg andava avanti deciso come il resoconto d’una crociata, protetto dalla fede nel bene che gli americani e i vincenti spesso si portano dentro. E' la forza delle nostre scelte a dare verità alle cose — suggerisce Spielberg. 
La sottile linea rossa, invece, vuole mostrare lo smarrimento degli esseri umani, formiche rosse e nere a combattere sotto una volta celeste che sembra l’occhio d’un cieco, e lo fa sfarinando la rocciosa compattezza del film di guerra. 
Ciò che era pietra diventa vento, lo slancio diventa caduta e ciò che pareva carattere si rivela anima vaga. Le azioni belliche — attacchi, smitragliamenti, esecuzioni — sono corrose dai pensieri e dai colloqui dei protagonisti, che come un tamburo continuo battono l’unico tempo della sconfitta. 
Certo, c’è un bunker da conquistare, ci sono giapponesi da abbattere, un coraggio e una paura da mettere alla prova, ma più forte è il sentimento della pochezza umana, di un mistero che tutto avvolge e copre come un manto scuro. 
Le domande essenziali picchiano nella mente più dure delle bombe, strisciano più pericolose dei nemici: chi siamo, da dove viene il male, perché sprechiamo cosi ignobilmente la nostra unica vita? 



A molti spettatori potranno sembrare questioni retoriche, vaghezze metafisiche che ritardano il ritmo militare del film sfasciandone la tensione, ma a me sono suonate più che mai necessarie: mettono aria in una fisarmonica non più compatta come quando stava chiusa, ma che dilatandosi finalmente suona la musica del mondo, larga e malinconica. 
Così il film spesso pare sgangherarsi e perdere di vista l’obiettivo, si distrae contemplando gli animali, le nuvole, le folate che passano sull’erba alta, i dialoghi portano dubbi e lontananze, e i volti dei soldati sono i volti dell’incertezza umana — ma tutto ciò ci fa più vicini a quella sottile linea rossa dove il tempo e l’eterno si fronteggiano e, a volte, per un secondo che batte solo nell’anima di chi si sente perduto, si toccano.




Articolo tratto da 'Fuori dal cinema' - Il "Diario" di 100 film, di Marco Lodoli, ed. Einaudi - 1999

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