giovedì 10 aprile 2025

Perché «ora»? I misteri del Tempo secondo Paul Davies



Il presente non è oggettivamente privilegiato: secondo la relatività, tutti i momenti del tempo coesistono, quindi "ora" è solo una percezione soggettiva.
Il principio antropico e la statistica bayesiana suggeriscono che il nostro tempo di esistenza non è casuale ma legato a condizioni cosmiche favorevoli alla vita.
Viviamo in un’epoca speciale, in cui la vita intelligente è possibile, ma potrebbe essere solo una breve parentesi nella storia dell’universo. Paul Davies prova a spiegarci

Perché «ora»?


Perché non viviamo nel regno di Giorgio III?
John McTaggart


Non è solo l'idea di flusso temporale a lasciarci perplessi. Il passare del tempo è spesso visto come l'avanzare dell'«ora» attraverso il tempo. Possiamo immaginare la dimensione temporale come una linea del destino, e identificare un istante particolare - l'«ora» - in un piccolo punto luminoso sulla linea. Con il «trascorrere del tempo» il punto luminoso si muove regolarmente in avanti lungo la linea verso il futuro. Inutile dire che i fisici non trovano nulla del genere nel mondo oggettivo: nessuna lucina, nessun presente particolare, nessuna migrazione lungo la linea temporale. Ma dove se ne va l'«ora»? Da bambino fui profondamente colpito quando mia madre mi disse che se non avesse incontrato mio padre io non sarei nato: non mi era mai venuta in mente una cosa simile. Naturalmente lei avrebbe sì potuto dare alla luce un bambino nel 1946, ma quel bambino non sarei stato io, sarebbe stato qualcun altro! E allora? La mia infantile fiducia nell'idea che lei avesse ragione mi portò a pensare che sarei nato in un altro tempo, da altri genitori. Ma quando? Stavo sveglio di notte a meditare su tutto ciò. Perché stavo vivendo ora invece che in qualche altro periodo storico? Mi sarei così facilmente potuto trovare a vivere al tempo dei Romani, oppure nel XXI secolo. Dato che io devo esistere, che cosa, mi chiedevo sconcertato, determina il momento in cui esistere? Per me, «ora» è il momento in cui mi sento vivo e ho esperienza del mondo. E allora perché siamo nel XX secolo ora? In altre parole, perché ora è «ora»? C'è forse qualcosa di speciale rispetto a questo «ora» - il mio «ora» -in quanto opposto agli altri «ora», come quelli del xxv secolo? Forse anche gli spiriti problematici del XXV secolo si interrogheranno riguardo a cosa ci sia di speciale rispetto ai loro «ora»? 

Ovviamente, sempre che a quell’epoca ci sia ancora qualcuno. 

Ah, ma allora questo potrebbe spiegare perché sono vivo ora... forse perché non potrò esserlo allora? Oppure, ribaltando il discorso, forse il fatto che io sia vivo ora implica qualcosa di spiacevole per la razza umana del XXV secolo?

Brandon Carter, un astronomo inglese che vive in Francia, ha un suo parere in merito. Tra i colleghi astrofisici Carter è diventato famoso per il suo lavoro sui buchi neri. Altri ne conoscono il nome in rapporto al cosiddetto «principio antropico». Questo principio afferma in modo abbastanza innocente che il mondo che ci circonda non può essere tale da impedire l'esistenza di esseri coscienti. Dato che noi siamo qui e coscienti, non c'è da stupirsi se vediamo il mondo congruente con la nostra esperienza: non potrebbe essere altrimenti. In questa forma il principio antropico è banale. Diventa tuttavia più interessante quando si tiene conto del fatto che alcuni aspetti di ciò che osserviamo potrebbero non essere propri dell'intero complesso. Per esempio, non si può certo sostenere che la nostra localizzazione nello spazio sia tipica. La maggior parte dell'universo o è vuota oppure è costituita da gas rarefatto, mentre noi viviamo sulla superficie di un pianeta solido. La maggioranza dei pianeti è o molto fredda o molto calda, mentre il nostro ha condizioni intermedie. Non c'è nulla di misterioso in tutto ciò: l'esistenza di organismi biologici coscienti richiede circostanze speciali, quali quelle di un pianeta solido a una temperatura adatta. Non ci sarebbe stata evoluzione in condizioni molto diverse. Potrebbe anche essere che il nostro Sole, o la Via Lattea, siano in un qualche modo speciali (non esiste comunque alcuna evidenza osservativa che lo siano). Se così fosse, ci sarebbe allora una ragione per cui ci troviamo a vivere in questa parte dell'universo piuttosto che in qualsiasi altra. 

Riconoscere che la nostra localizzazione nello spazio non è tipica porta facilmente alla stessa conclusione per quanto riguarda il tempo. Forse viviamo in quest'epoca piuttosto che in altre perché la vita nelle altre sarebbe impossibile?

L'astrofisico americano Robert Dicke sottolineò molti anni fa che la vita (almeno come noi la conosciamo) richiede alcuni elementi chiave, come il carbonio, ed è improbabile che tali elementi esistessero subito dopo il Big Bang. Il carbonio all'inizio non esisteva ma venne prodotto solo in seguito all'interno delle stelle. Queste possono liberare poi il carbonio nello spazio in molti modi diversi, per esempio con l'esplosione di una supernova, che permette di riciclare il carbonio con una nuova generazione di stelle e di pianeti. Dicke calcolò che sarebbe occorso che almeno una generazione di stelle vivesse e morisse prima che potesse avere inizio la vita biologica. D'altro canto, dopo qualche generazione, le stelle comincerebbero a scarseggiare e i sistemi planetari equabili, come il sistema solare, sarebbero qualcosa che appartiene al passato. Ciò significa che la nostra esistenza in quest'epoca (circa due o tre generazioni stellari dall'inizio del grande dramma cosmico) è del tutto particolare e per nulla sorprendente. Nel corso di un memorabile incontro alla Royal Society di Londra nel 1983, Brandon Carter impresse al tema del «perché ora?» un drammatico (e, almeno secondo l'opinione di molti, assurdo) sviluppo.

Ecco il suo ragionamento: provate un po' a immaginare tutti gli esseri umani che esisteranno nel corso del tempo. Se l'umanità risolvesse i suoi attuali problemi e prosperasse per migliaia o persino milioni di anni, la maggior parte degli uomini vivrà nel nostro futuro. Noi saremmo quindi degli esseri umani molto atipici che vivono alla fine del XX secolo. Ma quale ragione abbiamo di supporre che noi, gente del tardo XX secolo - semplici esseri umani casuali nella vastità della storia umana - siamo speciali? Nessuna. Di conseguenza, l'idea che l'umanità prospererà a lungo è sospetta. Se noi siamo davvero atipici, allora il genere umano è condannato e destinato a una scomparsa imminente. Questa predizione apocalittica venne formulata in tono serio e tranquillo e resa quindi oscura da diapositive quasi illeggibili, e fu forse a causa di ciò che all'epoca rimase inascoltata. Lo stesso Carter non insistette sull'argomento pur ritenendo che i comandanti dei sottomarini nucleari avrebbero fatto bene a rifletterci sopra. L'audace riscontro di Carter dell'enigma del «perché vivo ora» era simile alla mia perplessità infantile.



Osservate le tre curve della figura. Mostrano tre possibili scenari per il futuro dell'umanità basati su proiezioni alternative della crescita della popolazione. In
a il numero degli esseri umani continua a crescere anche nel lontano futuro. È difficile immaginare come ciò possa accadere senza una rapida colonizzazione degli altri pianeti. In b la popolazione della Terra cresce impetuosamente, per poi stabilizzarsi forse intorno ai venti miliardi. In c la curva raggiunge il suo massimo in corrispondenza di un valore che non è molto maggiore di quello attuale, per poi scendere bruscamente. Ogni grafico mostra la nostra posizione approssimativa (l'«ora») che coincide con il brusco aumento della popolazione caratteristico del XX secolo. È interessante notare che, a causa della crescita accelerata di popolazione, circa il 10% degli esseri umani che esisteranno nel corso del tempo stanno vivendo proprio ora.

Siamo al giorno del giudizio? I grafici mostrano tre proiezioni alternative per la crescita della popolazione umana. La caratteristica comune è la brusca crescita nel xx secolo. La nostra esistenza in questa particolare epoca è atipica e casuale eccetto nel caso della curva c, in cui la crescita della popolazione subirà un brusco declino, forse a causa di una catastrofe improvvisa.

Appare subito chiaro che vivere su questa ripida pendenza è altamente atipico sia nello scenario a, sia in quello b, mentre è abbastanza naturale nel caso c. Ciò ci suggerisce che c possa essere più vicino alla vera distribuzione degli esseri umani, e che il valore massimo probabilmente non è troppo lontano nel futuro. Il successivo e drastico declino della popolazione potrebbe avere molte cause; guerra nucleare, malattia, disastro ecologico, impatto di un asteroide, ecc. 

Molti accantonano l'argomento di Carter in maniera sprezzante. Come è possibile predire il futuro di esseri umani liberi basandosi su grafici immaginari e argomentazioni probabilistiche? Quei futuri esseri umani non esistono neppure. Come possiamo porre le loro osservazioni (per esempio gli «ora» del xxv secolo) - o forse le loro non-osservazioni - sullo stesso piano delle nostre osservazioni ora (cioè in questo «ora»)? Dopotutto noi esistiamo davvero ora, mentre loro ancora non esistono! Ma questa è un'obiezione fallace. Einstein ha demolito l'idea di un «ora» universale e ha indicato la strada verso un «tempo bloccato», nel quale tutti gli eventi - passati, presenti e futuri - sono ugualmente reali. Per il fisico, gli esseri umani del XXV secolo sono «là» (oppure no, se la curva c della figura 12.1 è una previsione corretta). Loro sono là, nel futuro.

Anche se Carter si è mostrato cauto riguardo a quest'argomentazione apocalittica (e infatti la omise nella versione della sua conferenza che pubblicò in seguito), il filosofo canadese John Leslie le ha dedicato molta attenzione. Leslie paragona l'insieme di tutti gli esseri umani che esisteranno nel corso del tempo a gettoni collocati dentro un'urna immaginaria. C'è un gettone per ognuno di noi con sopra scritto il nostro nome. La mano del destino si tuffa nell'urna ed estrae i gettoni uno a uno, portando così in vita la persona corrispondente. Sappiamo che fino a oggi sono stati estratti circa quaranta miliardi di gettoni (oggi ci sono circa quattro miliardi di persone). A partire dai dati disponibili possiamo trarre delle conclusioni riguardo al numero di gettoni che rimangono nell'urna? Carter e Leslie dicono di sì, e sostengono che è poco probabile che il numero sia molto più grande del totale estratto finora.

Per capire perché, proviamo a ridurre i numeri in gioco alle dimensioni di una vera urna e facciamo un semplice esperimento pratico. Supponiamo che vi venga mostrata un'urna e vi venga detto che esistono due possibilità: 

1) l'urna contiene dieci gettoni (la visione apocalittica di Carter) e 

2) l'urna contiene mille gettoni. 

Non avete alcuna idea riguardo a quale delle due possibilità corrisponda al vero stato delle cose, ma vi viene detto che, in ogni caso, il vostro nome è scritto su uno e un solo gettone. Vi viene chiesto di scommettere su 1) o su 2). In assenza di qualsiasi indizio ulteriore ogni risposta è buona. Supponiamo che voi siate scettici rispetto a 1) e lo diate 50 a 1. I gettoni vengono ora estratti uno a uno e dopo averne estratti tre appare già il vostro nome. Vi viene allora chiesto se intendete rivedere le vostre stime delle probabilità. Naturalmente lo vorrete: state puntando forte sull'urna che contiene mille gettoni e il vostro è stato estratto dopo tre soltanto. È più probabile che ci siano solo dieci gettoni nell'urna piuttosto che mille. Alla luce di questa nuova prova, c'è una ben nota formula matematica, chiamata «regola di Bayes», per calcolare le probabilità migliori. Con le cifre sopra indicate risulta che la probabilità che 1) sia corretta è ora 2/3, cioè doppia di quella 2). 

La regola di Bayes è una tecnica standard per assegnare delle stime di probabilità a ipotesi tra loro in competizione quando siano disponibili solo informazioni limitate. Leslie crede che la si possa applicare al caso della «grande urna umana»; visto che «i nostri gettoni» sono stati estratti abbastanza presto, noi possiamo ragionevolmente concludere che Carter ha ragione e che presto arriverà l'apocalisse. 

L'argomento del giudizio universale trova ancora un inatteso sostegno. Non è strano, ha chiesto Carter, che «ora» sia circa quando il Sole si trova nella sua mezza età? Se l'evoluzione fosse avanzata solo poco più lentamente, noi non avremmo mai fatto in tempo a esserci. Il Sole avrebbe bruciato costantemente per qualche miliardo di anni; la vita sarebbe nata sulla Terra e si sarebbe sviluppata un poco, per venir poi spazzata via dai raggi mortali della nostra stella, prima che qualunque essere senziente potesse comparire per preoccuparsene. Dal momento che i processi dell'evoluzione biologica sono in gran parte casuali e non hanno un'ovvia connessione con i processi che determinano il tasso di invecchiamento del Sole, sembrerebbe non esistere alcun collegamento fisico tra la durata della vita del Sole e la scala temporale dell'evoluzione. Il fatto che questi lunghi periodi risultino tuttavia differire all'incirca solo di un fattore due sembra decisamente sospetto. 

Carter spiega l'approssimativa «coincidenza» di queste due scale temporali, evidentemente indipendenti, con una curiosa argomentazione. Forse, ragiona Carter, gli esseri intelligenti come noi sono altamente improbabili, tanto improbabili che ci si aspetterebbe un'enormità di tempo perché si possano evolvere. Ciò non significa che non possono sorgere prima (il che è ovvio, dal momento che l'hanno fatto) - un processo casuale molto raro può sempre verificarsi più velocemente per puro caso, contro ogni probabilità - ma è preferibile che queste probabilità si concretizzino il più tardi possibile, per consentire la massima durata di tempo necessario a che si verifichi una qualsiasi sequenza rara di eventi.

Per chiarire questo punto ricorrerò a un'altra analogia con il gioco d'azzardo. Supponiamo che vi venga chiesto di lanciare tre dadi e di ottenere dapprima tre uno, seguiti a un certo punto da tre due, e infine da tre tre. Queste improbabili terne corrispondono a un qualche passo poco probabile nell'evoluzione dell'umanità (per esempio, l'emergere della coscienza). Vi vengono concessi cinquanta lanci in tutto. Le possibilità sono: di non ottenere del tutto la sequenza richiesta; oppure di ottenerla, ma allora è più probabile che i tre tre compaiano verso la fine della serie di lanci piuttosto che all'inizio, affinché ci sia il maggior numero di tentativi perché i primi due passi si verifichino contro le previsioni. La ragione di ciò è che le probabilità di ottenere tre uno, tre due e tre tre sono molto più basse nei primi lanci rispetto alla fine.

Applichiamo queste idee pericolose all'evoluzione umana: se ci sono n passi improbabili nel nostro sviluppo, maggiore è il numero n, più vicini probabilmente saremo alla «fine del processo», cioè al giorno del giudizio. Ora, alcuni biologi potrebbero argomentare che n è uguale a uno o due. Se ciò è corretto allora si spiega facilmente il fatto curioso che l'epoca in cui si è sviluppata la vita dell'uomo risulta coincidere (con l'approssimazione di un fattore due) con la probabile vita totale del Sole. D'altro canto, si può fare a meno del Sole e della coincidenza tra le scale temporali e ribaltare l'argomento, supponendo invece che n sia un numero molto grande.

Molti biologi, in realtà, pensano che si sia verificata una lunga serie di eventi improbabili per arrivare all'Homo sapiens. Se hanno ragione, allora molto probabilmente siamo vicini al giorno del giudizio. Carter è riuscito a determinare una formula pratica, basata sulla semplice teoria delle probabilità, per stabilire quanto tempo possiamo sopravvivere. Per calcolare il tempo che ci rimane, si divide la presunta vita totale del Sole (diciamo otto miliardi di anni) per n + 1. Se n è pari a un milione, possiamo pensare di avere non più di circa ottomila anni prima di essere annientati in un modo o nell'altro. (Per una lista delle orribili alternative vi consiglio il mio libro Gli ultimi tre minuti.) 

Se credete all'argomento di Carter, allora non avete bisogno di preoccuparvi del perché siete esseri umani che vivono ora anziché piccoli omini verdi nella galassia di Andromeda tra cento miliardi di anni. Molto probabilmente questi esseri non esisteranno, né verdi né di nessun altro tipo. Anche se la possibilità di una forma di vita inferiore da qualche altra parte rimane aperta, l'argomento lascia intendere che la vita intelligente è verosimilmente circoscritta alla Terra di quest'epoca, il che fornisce un'unica e improbabile apertura nello spazio e nel tempo che a noi capita di occupare per un puro colpo di fortuna.


Paul Davies, I misteri del tempo. L'universo dopo Einstein, traduzione di Elisabetta del Castillo, Milano, Mondadori, gennaio 1996

Paul Charles William Davies (Londra, 22 aprile 1946) è un fisico, saggista e divulgatore scientifico inglese, famoso anche per i suoi studi di cosmologia e di esobiologia. Si è laureato in fisica presso l'University College di Londra nel 1967 e ha conseguito il dottorato di ricerca nel 1970 lavorando all'osservatorio astronomico della stessa università diretto da Fred Hoyle. È titolare della cattedra di Natural Philosophy presso l'Australian Centre for Astrobiology della Macquarie University a Sydney. È stato titolare di cattedre presso l'Università di Cambridge, l'Università di Londra, l'Università di Newcastle-upon-Tyne e l'Università di Adelaide. I suoi interessi di ricerca vanno dalla cosmologia, alla teoria quantistica dei campi, all'esobiologia. Dal 2005 è direttore del programma SETI "Post-Detection Science and Technology Taskgroup" dell'Accademia Internazionale di Astrofisica.