Anarchico, vagabondo, individualista, solidale con ogni eversione solitaria: le narrazioni di Dovlatov posseggono un'incantevole forza di immedesimazione per il lettore. Voce narrante e protagonista insieme di storie che hanno l'inconfondibile marchio del vissuto, la prosa rapida e classica di Dovlatov dà un «ordine lirico» - è stato detto - a un caos naturale. E trascina in viaggi, lungo il percorso di una trama, in un mondo popolato di umoristi naturali, che esprimono la totale insensatezza esistenziale, la definitiva casualità che stringe nel paradosso ogni genere di personalità: siano essi i confusi emigrati ex dissidenti (come nei romanzi ambientati nell'America dell'esilio) siano gli stralunati ubriaconi, mezzi intellettuali mezzi barboni, suoi amici nell'URSS anni Settanta, come in questo romanzo. Nel parco letterario Puškin, per sbarcare il lunario, è finito a fare da guida uno scrittore dissidente e fallito: dissidente dal mondo e fallito a ogni possibile impresa, il negativo esatto di quello che Puškin rappresenta per la mitologia dominante. Nei suoi giorni ciondolanti incontra persone di ogni tipo, ma ciascuna di incerta identità, arcipelago di io separati contraddittori e fragili: l'alcolista razzista, mite e generoso; il dotto che ha letto tutti i libri ma è paralizzato dall'abulia; il funzionario del KGB che si scopre saggio paternalista e dissidente; il capellone perturbatore dell'ordine che nella sbronza si rivela un erudito. Due sole convinzioni illuminano il protagonista-narratore: l'ostilità verso la santità, cioè l'idea che il bene sia facile, naturale e riconoscibile; l'avversione contro ogni attivismo. Finché a sconvolgere quella folle armonia, alcolica e dissipata, piomba la moglie che sta per lasciare l'URSS alla volta di Chicago, approfittando di uno spazio apertosi per l'emigrazione. E le peripezie di Parco di Puškin mostrano il loro senso vero: la riflessione drammatica, di un grande scrittore, sul rapporto con la propria patria, con la propria lingua, col potere.
(prefazione di Laura Salmon)
"Per quanto fosse strano, provavo qualcosa di simile all'amore.
Ma, a ben vedere, da dove poteva venire? Da quale discarica? Da quali meandri della mia vita misera e sfacciata? Su quale terreno isterilito e debilitato potevano crescere simili fiori tropicali? Sotto i raggi di quale sole?
Mansarde di pittori rigurgitanti inutilità, signorine vestite in modo volgare...chitarre, un penoso frondismo... e di colpo, santissimo cielo, l’amore...
Ma quant’è generosamente cieco questo re dell’universo!.. (…)
Ogni tanto capitavo da Tanja. Per tutta la settimana lavoravo dalla mattina alla sera. Poi andavo a trovare qualche amico. Me ne stavo in compagnia, discutevo di Nabokov, di Joyce, di hockey, di cani terrier.
Capitava che mi ubriacassi e allora le telefonavo:
— È un fenomeno mistico! — strillavo nel ricevitore. — Assolutamente mistico... Tutte le volte che ti telefono mi ripeti che sono le due di notte..
Poi vagavo trascinandomi fino a casa sua. L’edificio sembrava prorompere dalla fila, come volesse venirmi incontro.
Tanja mi stupiva per la sua muta arrendevolezza. Non capivo cosa la guidasse, se l’indifferenza, la rassegnazione o l’orgoglio.
Non chiedeva:
«Quando vieni?» Oppure: «Perché non mi hai chiamato?»
Mi colpiva per la sua immutabile disponibilità all’amore, alla discussione, al divertimento. Ma anche per l’assoluta mancanza d’iniziativa in tal senso...
Era taciturna e tranquilla. Taciturna senza tensioni e tranquilla senza premonizioni. Era la silente tranquillità dell’oceano, che ascoltava indifferente lo stridio dei gabbiani..
Come tutti gli uomini superficiali non ero un tipo particolarmente cattivo. Avevo cominciato a ravvedermi e a scherzare. Dicevo:
— Ci sono due tipi di fidanzati: i degenti e gli ambulatoriali. Io, ad esempio, sono un ambulatoriale...
E in seguito:
— Ma cosa ci hai trovato in me?! Dovresti incontrare un brav’uomo! Un militare...
— Mi mancano gli stimoli, — diceva Tanja, amare un brav’uomo non è interessante...
Viviamo in un’epoca sorprendente: per noi «brav’uomo» suona come un insulto. «Però è un brav’uomo» lo diciamo di un fidanzato che ha l’aria di essere una totale nullità...
Era trascorso un anno. Andavo da Tanja sempre più spesso. I coinquilini dell’appartamento mi salutavano e mi chiamavano se qualcuno mi telefonava.
Erano comparsi alcuni dei miei effetti personali: uno spazzolino nel bicchiere di ceramica, un portacenere e delle pantofole. Una volta avevo piazzato sul tavolo la fotografia dello scrittore americano Saul Bellow.
— Bellow, hai detto? — aveva ripetuto Tanja, — quello della rivista «Novyj Mir»?
— Proprio lui, — avevo confermato...
Ma sì, pensavo, mi sposo e non ci penso più. Mi sposo per senso del dovere. Supponiamo poi che tutto vada bene. Magari per tutti e due.
In sostanza siamo già sposati e tutto procede normalmente. È un’unione priva di doveri. Cosa che garantisce una lunga durata...
Ma dov’è l’amore? Dov’è la piena dei sentimenti? Dove sono la gelosia e l’insonnia? E le lettere mai spedite con l’inchiostro sbiadito dalle lacrime? Dove sono gli svenimenti alla vista del suo piedino? Dove sono gli amorini, i cupidi e le altre comparse di questo coinvolgente show? E infine, dov’è il mazzo di fiori da un rublo e trenta?!...
A dir la verità, non ho neppure idea di cosa sia l’amore. Mancano radicalmente dei criteri. Un amore infelice, ancora lo capisco. Ma se tutto è normale? Secondo me è una cosa che suscita perplessità: nella percezione della normalità c’è una sorta di maleficio. Del resto il caos è ancora più spaventoso...
Supponiamo di sposarci. Sarebbe comunque amorale. Perché la morale non accetta condizionamenti...
La morale è qualcosa che deve scaturire in modo organico dalla nostra natura. Come dice Shakespeare: Natura, tu sei la mia dea! E chi è, a proposito, che lo dice? Edmond, un farabutto che ce n’è pochi...
Così che, in definitiva, non ci capisco niente.
Comunque il problema resta aperto. Chi può decidersi ad accusare di immoralità un falco o uno sparviero o un lupo? Chi può definire immorale una palude, una tempesta o l’afa del deserto?...
Una morale imposta è una sfida alle forze della natura. In poche parole, se mi sposo per dovere, farò una cosa immorale...
Una volta era stata Tanja a telefonarmi. Di sua iniziativa. Considerato il suo carattere, era praticamente una diversione.
— Sei libero?
— No, mi spiace, — le avevo detto, — ho il teletype*...
Ormai, da circa tre anni, a qualsiasi proposta inattesa reagivo con un rifiuto. L’enigmatica parola «teletype» avrebbe dovuto suonare persuasiva.
— E arrivato mio cugino. Di primo grado. Da tempo volevo presentartelo.
— Va bene, — avevo detto, — vengo.
E perché non avrebbero dovuto presentarmi a un buon bevitore?!...
Quella sera ero andato da Tanja. Per farmi forza avevo bevuto. Poi avevo rincarato la dose. Alle sette avevo suonato alla sua porta. E dopo un minuto, dopo una disagevole stipatura in corridoio, avevo visto il cugino.
Si era seduto come fanno i miliziani, i cospiratori e i visitatori notturni, cioè di fianco al tavolo da pranzo.
Il cugino aveva un’aria solida: sul rialto delle spalle, si ergeva un viso di terracotta, la cui sommità era coronata da vecchi ciuffi di erba indurita e impolverata. I padiglioni scolpiti sulle orecchie si perdevano nella penombra. Al baluardo della fronte ampia e robusta mancavano solo le feritoie. Le labbra semiaperte nascondevano un cupo abisso. I bulbi paludosi e baluginanti degli occhi, coperti da una membrana di ghiaccio, mi guardavano interrogativi. Come una fenditura nella roccia, la bocca celava una minaccia.
Il caro cugino si era alzato e aveva proteso la sinistra come un carro armato. Quando la morsa mi aveva stretto il palmo, per poco non avevo emesso un gemito.
Poi il caro cugino si era lasciato cadere sulla sedia cigolante. Le macine di granito si erano mosse. Per un istante un breve sisma distruttivo aveva trasformato il suo volto in un rudere. Poi, in mezzo a quelle rovine, era fiorita, per poi appassire istantaneamente, la pallida corolla purpurea del suo sorriso.
Il congiunto si era presentato con sussiego:
— Erich Maria.
— Boris, — avevo risposto con fiacco fervore.
— Ecco, adesso vi siete conosciuti, — aveva detto Tanja.
Ed era andata in cucina a preparare. Io tacevo come fossi oppresso da un pesante giogo. Poi avevo percepito su di me uno sguardo deciso e freddo come la canna di un fucile.
Una mano d’acciaio era scesa sulla mia spalla. La mia giacca d’un tratto aveva perso una taglia.
Ricordo che avevo reagito con un gridolino insensato. Qualcosa di spaventosamente educato:
— Si controlli, maestro!
— Silenzio! — aveva proferito in tono minaccioso il mio dirimpettaio.
E ancora.
— E come mai, furfante, non ti sei ancora sposato!? Credi di svicolarla, carogna?!
«Se questa è la mia coscienza», avevo pensato rapidamente, «ha un’aria molto, ma molto squallida...».
Avevo cominciato a perdere la percezione della realtà. I contorni del reale si erano dissolti senza speranza. Il cugino-paesaggio si era allungato partecipe in direzione del vino.
Avevo udito sotto le finestre lo sferragliare di un tram. Con un movimento dei gomiti mi ero aggiustato i vestiti.
Poi, in modo il più possibile convincente, avevo detto:
— Suvvia, cugino, per cortesia evitiamo le mani! Da tempo mi apprestavo ad affrontare in modo costruttivo l’argomento matrimonio. Nella cartella ho anche una bottiglia di spumante. Un momento, prego...
E con decisione posai la bottiglia sulla superficie lustra del tavolo...
E così ci eravamo sposati.
Il cugino, com’era emerso in seguito, si chiamava Edik Malinin. Faceva l’istruttore di arti marziali alla Società dei Sordomuti.
E quella volta, chiaramente, avevo bevuto proprio troppo. Prima ancora di andare da Tanja. E chissà cosa m’ero messo in testa...
Ufficialmente il matrimonio era stato celebrato in giugno. Prima dì partire per il lido di Riga, altrimenti non avremmo potuto prendere la stessa stanza in albergo...
Erano passati gli anni. Non mi pubblicavano. Bevevo sempre di più. E in tal senso le mie giustificazioni erano sempre più numerose.
Per lunghi periodi capitava che vivessimo del solo stipendio di Tanja.
Nel nostro matrimonio convivevano i tratti della munificenza e dell’indigenza. Avevamo due abitazioni separate, alla distanza di cinque fermate di tram. Tanja aveva una stanza di circa venticinque metri, io ne avevo due anguste di sei e otto metri. Ad esprimersi in modo pomposo: lo studio e la stanza da letto.
Dopo circa tre anni avevamo commutato il tutto in un discreto appartamento di due stanze.
Tanja era una donna misteriosa. Sapevo così poco di lei che non finivo mai di stupirmi. Ogni aspetto della sua vita produceva in me l’effetto dello scalpore.
Una volta mi aveva stupito una sua affermazione politica inaspettatamente dura. Prima di allora non avevo alcuna idea del suo orientamento politico. Ricordo che, dopo aver visto in un cinegiornale Griin, un membro del Politbjuro, mia moglie aveva detto:
— Dovrebbero processarlo soltanto per l’espressione del viso..
Così tra noi si era instaurata una parziale solidarietà dissidente."
(Sergej Dovlatov, Il Parco di Puškin, Sellerio editore Palermo - 2004)
Sergej Dovlatov e la moglie Tatiana Tolstaja nel 1990 a New York |
Sergej Dovlatov (1941-1990), nato da una famiglia di gente di spettacolo, dopo una giovinezza sregolata si dedicò al giornalismo, lavorando per giornali di provincia, dai quali veniva regolarmente licenziato per indisciplina. Nel 1978 emigrò negli Stati Uniti, dove furono pubblicati i suoi racconti e romanzi, «commedie autobiografiche» pervase di umorismo instancabile e classicamente russo. Di Dovlatov, questa casa editrice ha pubblicato Straniera (1991, 1999), La valigia (1999), Compromesso (1996, 2000), Noialtri (2000), Regime speciale (2002), Il Parco di Puškin (2004), La marcia dei solitari (2006), Il libro invisibile (2007) e Il giornale invisibile (2009).