Pubblicato per la prima volta nel 1969, "Cicatrici" è un romanzo che Saer scrisse in venti notti, ispirato da un fatto reale. Quattro parti, quattro narratori in prima persona: Ángel, giovane reporter; Sergio, avvocato divorato dal vizio del gioco; Ernesto, giudice misantropo che si ostina nell'ennesima traduzione di Oscar Wilde; Luis Fiore, operaio che commette un omicidio inspiegabile.
Quattro vite, ognuna ossessionata da qualcosa, che hanno un unico punto di intersezione: il delitto commesso da Fiore. Saer scrive un romanzo a spirale, per ricreare attraverso la circolarità un'illusione di ordine che nel funzionamento del mondo non esiste, perché nel continuo conflitto tra caos e ordine "non sei tu che vinci, è il caos che accondiscende".
Vedo generazioni e generazioni di gorilla, che avanzano emergendo dall’oscurità. Orde ostili che sbavano nei primi crepuscoli con un misto di terrore e di sbigottimento. Mosche color smeraldo si posano sulle ferite aperte nei loro corpi da denti e grinfie, frutto delle ultime battaglie. Le orde vagano inquiete in una radura nel bosco, e i gorilla si guardano l’un l’altro sbigottiti, in attesa della notte. I genitali dei maschi penzolano tra le estremità inferiori, dondolando. Quelli delle femmine sono fessure rosse e umide. Digrignano i denti e socchiudono gli occhi, scrutando lo spazio aperto che li circonda, gli alberi e le rocce sempre uguali a se stessi, statici, di notte e di giorno, a bloccare la visuale. E quando scende la notte, li vedo raggrupparsi eccitati, strofinarsi gli uni contro gli altri, attorno al grande falò che hanno acceso con rami secchi e che riempie di ombre concavità e sporgenze dei volti bestiali. Quando comincia il tamtam, i gorilla formano cerchi, anelli concentrici, file che si intrecciano incessantemente con un ritmo goffo, finché i più deboli cadono ansimanti sull’erba, la lingua rosea penzoloni, che lecca l’angolo delle labbra nerastre.
Al centro del cerchio, accanto al falò che mugghia e crepita spandendo un gran fulgore che si fa più tenue man mano che sale verso il nero del cielo, il gorilla femmina e il gorilla maschio rotolano per terra avvinghiati, sollevando nuvole di polvere. Il cerchio dei gorilla in piedi che li osserva batte le mani a tempo. Producono un rumore secco, plurimo, che imita il fragore del tamtam.
Maschio e femmina si alzano, ricadono a terra, avviluppati, accompagnando i movimenti violenti con ansiti, grida soffocate, sospiri, lamenti, risate, colpi. Poi la femmina si mette a quattro zampe, in attesa, e il maschio la penetra. La femmina grida. E entrato tutto, salvo i testicoli che sbattono sotto il sedere della femmina. Senza uscire, con le ginocchia un po’ piegate, i piedi nudi bene ancorati a terra, il gorilla maschio si erge il più possibile, alza le braccia, come per dimostrare che non c’è trucco e non c’è inganno, e saluta il circolo degli spettatori. Il battito di mani si fa ancora più fragoroso, e i gorilla in cerchio lo accompagnano battendo furiosamente i piedi per terra in segno di soddisfazione, sollevando una nuvola di polvere. Il ritmo del tamtam si fa più rapido. Al battito di mani, i colpi sordi dei piedi per terra e la sonora, continua esplosione del tamburo si aggiunge ora un baccano indiavolato fatto di voci, risate, pianto. La coppia al centro si confonde con le numerose altre coppie che si sono formate tra gli astanti, che già si avvinghiano e rotolano per terra, sollevando una nuvola di polvere che la luce delle fiamme cobra di rosso. In mezzo alla polvere sanguinolenta una coppia allacciata rotola per terra e finisce in mezzo al falò, producendo un tremendo sfrigolio. I due gorilla non si staccano neppure, ma ricominciano a rotolare, coprendosi le bruciature di polvere. Ora tutta la radura si è trasformata in una massa informe di corpi che gemono e si trascinano, si montano a vicenda, si colpiscono, si leccano, si mordono, si accarezzano, si penetrano l’un l’altro.
Poi il tumulto, in mezzo alle nubi di polvere rossa, comincia ad acquietarsi. La polvere si dirada, si deposita a terra. I gorilla si fermano e rimangono immobili, nelle posizioni più strane: alcuni sono proni, la faccia schiacciata a terra, mentre altri giacciono sopra di loro, proni anch’essi, il ventre sulla schiena di chi sta sotto, a formare una croce. Altri sono su un fianco, un braccio lungo il corpo e l’altro piegato a sostenere la testa. Altri ancora sono supini, con le gambe aperte. Uno si masturba in silenzio, ansimando. Il respiro di tutti si fa sempre più profondo e regolare, si sentono sospiri, qualcuno che russa. Una risata risuona improvvisa e si spegne. Più tardi, non si sente altro che il respiro.
L’alba li sorprende addormentati, gli occhi cisposi. Sbuffano e soffiano. Si agitano inquieti e si rannicchiano per difendersi dal fresco del mattino. La prima luce del giorno comincia a infastidirli: si mettono a sedere, guardandosi attorno perplessi e storditi; tossiscono e sputano. Hanno gli angoli della bocca impiastricciati di bava secca. Del falò non è rimasto che un cumulo di cenere biancastra, anche le ultime braci sono ormai spente. Alcune macchie sanguinolente si mescolano all’erba e alla polvere, quasi secche: le macchie delle ferite prodotte durante la notte. Si scambiano pochi gesti stanchi, pochi cenni, Dì tanto in tanto emettono un suono con la bocca. Alcuni, più pigri, poltriscono ancora un po’ prima di alzarsi; altri accarezzano per l’ultima volta, meccanicamente, le braccia lisce delle femmine. Vanno nelle caverne — scavate nella roccia dall’erosione — a prendere pezzi di carne cruda che mangiano imbrattandosi il mento di sangue. Sbattono le palpebre alla luce del sole, strappando enormi bocconi dai pezzi di carne.
Sono di nuovo nella stessa radura, chiusa ai quattro lati da un orizzonte di alberi e rocce, su cui lo sguardo rimbalza. Ci sono le stesse pietre e gli stessi alberi, e sopra le loro teste lo stesso cielo azzurro, e il disco giallo, incandescente, che attraversa il cielo con una lentezza esasperante, sorda, senza stridore: la superficie azzurra e levigata si riempie di bagliori e a mezzogiorno è impossibile guardarla. Li circonda lo stesso spazio di ogni giorno. In esso si muovono, senza capire. Chi varca la linea di roccia o di alberi, l’orizzonte immobile e stabile, perpetuo, scompare, e non fa più ritorno. Proprio come succede all’animale che attraversa l’orizzonte in direzione contraria e penetra nella radura: i denti, le pietre, le lance e le frecce che presidiano lo spazio di cui i gorilla si sono impadroniti si abbattono su di lui e lo fanno a pezzi. Rimangono dunque acquattati, armati delle lance, le pietre e le frecce, in attesa che qualcosa di vivo oltrepassi la linea del pericolo per gettarvisi sopra e farlo a pezzi. Quando l’animale esala i suoi ultimi palpiti caldi e rimane rigido, morto, lo portano nella caverna e se lo spartiscono. Le parti più succulente vanno al capo, gli scarti alla marmaglia. Le mosche smeraldine si posano in nugoli sui resti, ronzando. Una volta riempito lo stomaco, i gorilla si siedono sui talloni all’ombra, pensosi, e osservano l’orizzonte, un braccio piegato sull’addome, il gomito appoggiato sul palmo della mano e la mandibola appoggiata sul palmo dell’altra mano.
Di tanto in tanto sospirano e socchiudono gli occhi per meglio mettere a fuoco la distanza nitida che li separa dalla linea dell’orizzonte su cui gli alberi e le rocce sembrano muti testimoni dell’altra parte, testimoni che proprio del loro silenzio fanno evidenza testimoniale. Altri gorilla contemplano imbambolati il proprio corpo: le rocce delle ginocchia, la vegetazione del pelame, le protuberanze delle dita, le caverne segrete degli sfinteri, la vita torva e lenta dei genitali che crescono o si schiudono umidi per conto proprio. Trascorrono le ore d’ozio in questa malinconia assorta, finché il sole comincia a calare ancora una volta, e l’orizzonte si cobra di rosso, e la notte cade di nuovo sul falò acceso al crepuscolo attorno al quale ricominceranno le cerimonie notturne.
Me ne sto disteso nel letto, nella totale oscurità, con gli occhi aperti. Rimango immobile. E un’oscurità senza crepe, senza spiragli: la stanza non ha finestre, e la porta che dà sull’anticamera è chiusa, per cui non entra un solo raggio di luce. Ed ecco che il brusio ricomincia a crescere, tra forme fosforescenti. Tra l’oscurità interna e quella esterna non c’è più barriera divisoria, e le immagini fluttuano nella direzione — ammesso ci sia una direzione — in cui guardano i miei occhi, e poi scompaiono.
Ora vedo i gorilla sfilare in processione: portano abiti sgargianti e al collo, alle orecchie, alle dita e ai polsi paccottiglia dorata e argentata, con pietre che mandano bagliori alla luce del sole. Il tamburo ha lasciato il posto a certi strumenti in bronzo che producono suoni striduli quando li si porta alla bocca. I capi aprono la processione, con ampie tuniche porpora di cui alcuni schiavi a torso nudo reggono lo strascico per impedire che spazzino l’acciottolato. Dietro di loro vengono i secondi dignitari, vestiti di nero; poi i terzi, con tuniche verdi; formano file regolari e camminano a passo di marcia, in una sorta di danza al ritmo della musica.
Seguono le donne, con vestiti di tutti i colori, che lasciano scoperti i seni bianchi fino ai circoli violetti dei capezzoli. In fondo, dopo le donne, c’è la marmaglia stracciona, i gorilla che cercano di spiare la cerimonia e di tanto in tanto sono respinti a frustate da sgherri a cavallo. Quando i primi cadono, quelli dietro inciampano nei gorilla a terra e cadono a loro volta; quando i caduti cominciano a rialzarsi, il grande corteo con la banda musicale in testa ha già percorso un lungo tratto di strada, così gli sgherri spronano i cavalli al galoppo sull’acciottolato per raggiungere la coda del corteo e proteggerla.
La marmaglia affretta il passo, raggiunge il corteo e di nuovo gli sgherri la respingono a frustate, così la distanza guadagnata è perduta di nuovo. E di nuovo, mentre la marmaglia stracciona cerca di rialzarsi in piedi, gli zoccoli dei cavalli degli sgherri risuonano sul duro acciottolato, galoppando verso il corteo. Sui volti floridi dei capi, che camminano a testa alta ammantati nelle toghe purpuree, aleggia un’espressione solenne. I secondi dignitari fissano la nuca dei capi vestiti di porpora; e i terzi, vestiti di verde, guardano la nuca dei dignitari in nero. Le donne continuano a sistemarsi gli abiti sgargianti e la paccottiglia lucente. Qualcuna si sistema il corpetto in modo da mettere ancora più in risalto i seni bianchi. E i cavalli degli sgherri, una volta che si sono avvicinati a sufficienza alla coda del corteo, si voltano bruscamente facendo risuonare gli zoccoli sull’acciottolato. Gli sgherri guardano la marmaglia con aria minacciosa, anche se il mucchio di gorilla straccioni non è ancora riuscito a rialzarsi che a metà.
Giungono ora sul luogo della cerimonia. All’improvviso vedo, dalla ringhiera di ferro battuto del terzo piano, l’atrio quadrato del tribunale: il pavimento a scacchi, vuoto. La scala bianca che scende descrivendo una curva, vuota anch’essa. La ringhiera di ferro scuro delimita anche il grande vuoto che cade a picco sull’atrio piastrellato in bianco e nero, formando un quadrato con un lato in meno.
La cerimonia ha luogo in una sala enorme dal soffitto altissimo, con alte finestre a ogiva dai vetri decorati con motivi che rappresentano i capi gorilla in splendidi colori. C’è una lunghissima tavola apparecchiata. Sono tre tavoli disposti a ferro di cavallo, uno al centro e due ai lati, che si dipartono a perpendicolo dalle estremità del tavolo centrale. In mezzo, un grande spazio vuoto. Due file di schiavi, a torso nudo e con fiaccole accese che tengono alte sopra la testa, sono schierate ai due lati dell’ingresso, dove accolgono l’arrivo del corteo. I musici smettono di suonare i loro strumenti e dopo essere entrati nella sala si fanno da parte. I capi in porpora, a testa ancora più alta e un’espressione ancora più solenne in volto, entrano nella grande sala e prendono posto al tavolo centrale. Alla loro destra siedono i dignitari in nero. Alla loro sinistra, quelli in verde. Le donne si raggruppano nello spazio vuoto al centro e aspettano nervose. La marmaglia si è assiepata davanti alla grande porta d’ingresso e sgomita per osservare la scena. Gli sgherri sono scesi da cavallo e li colpiscono dall’interno della sala, respingendoli. L’ordine, però, è di permettere che vedano. Così li colpiscono meno forte di quanto sembri minacciare l’espressione del volto, in modo che capiscano che assistere è un privilegio che non è loro concesso, ma al tempo stesso che rimangano e i capi possano essere osservati.
Poi ha inizio il banchetto. Schiavi a torso nudo portano grandi vassoi al tavolo centrale e cominciano a trinciare gli animali sacrificati sotto lo sguardo vigile dei capi, che stabiliscono l’entità delle porzioni e il destinatario di ciascuna. I capi assaggiano appena. Il capo supremo neppure bada al lavoro degli schiavi. E seduto esattamente al centro del tavolo, e sopra la tunica porpora porta un grosso medaglione di ossidiana appeso al collo con una catena dorata. La lunga mano ossuta gioca con il medaglione.
La marmaglia stracciona lo contempla estasiata, con un misto di meraviglia, furia, ammirazione e terrore, dato che un’aureola di luce pare circondare la grande testa argentea e il volto pallido incorniciato da una barba nera accuratamente arricciolata. Quando i dignitari finiscono di mangiare, sotto lo sguardo indolente dei capi, gli schiavi a torso nudo ritirano gli avanzi e si avvicinano alla porta per gettarli ai gorilla in attesa. Nel parapiglia, i gorilla si picchiano, si spintonano, si mordono, si insultano. Ci sono corse, sputi, sangue, lamenti. Mentre i gorilla, seduti sotto il sole morente, rosicchiano gli ossi da cui pendono alcuni filamenti di carne esangue, dentro comincia la sfilata delle donne, a tempo di musica.
A turno si staccano dal mucchio nervoso accalcato in un angolo della sala e avanzano verso lo spazio che è rimasto di nuovo vuoto, dove cominciano a prodursi in contorsioni, movimenti del ventre, salti che fanno tintinnare la paccottiglia multicolore che portano addosso. Alcune si denudano durante la danza. Altre arrivano già nude nello spazio vuoto davanti ai lunghi tavoli. I dignitari in verde e in nero rimangono immobili, tesi, taciturni, e osservano le contorsioni delle donne senza aprire bocca, Solo i capi in porpora si scambiano commenti davanti a ciascuna donna. Alcuni ridono e indicano le danzatrici. Altri fanno gesti osceni.
Solo il gran capo rimane in silenzio, continuando a giocherellare, instancabile, con il medaglione di ossidiana.
Alla fine, davanti a una delle danzatrici, il capo alza la mano, senza parlare, e la indica con il dito. Gli schiavi scompaiono nei lunghi corridoi laterali e ritornano con un grande divano che trasportano sopra le teste. Collocano il divano al centro dello spazio vuoto. La prescelta si sdraia, nuda, le gambe aperte. Il gran capo si alza e avanza fino al centro dell’enorme sala. Due schiavi nudi lo seguono da presso. Giunto davanti al divano, il gran capo si ferma e fa un gesto perché i due schiavi gli tolgano la tunica. Uno di loro gli cosparge il membro di unguenti. L’altro gli bacia il medaglione. Il gran capo si getta un’ultima occhiata attorno, per essere sicuro che tutti lo stiano osservando. Fa un cenno impercettibile agli sgherri perché consentano alla marmaglia di arrivare fin sulla soglia. Poi si china e penetra la donna. La marmaglia, le due file di dignitari, gli schiavi e le donne raggruppate nell’angolo prorompono in esclamazioni di giubilo nel momento in cui il gran capo entra dentro di lei.
Poi inizia la musica.
Juan José Saer, nato in Argentina nel 1937, è stato il principale scrittore della generazione dopo Borges. Nel 1968 si trasferì a Parigi e fu professore di letteratura all'Università di Rennes. La sua vasta opera narrativa comprende dodici romanzi, cinque libri di racconti, uno di poesia e vari saggi. Nel 1987 vinse il Premio Nadal, a cui si aggiunsero altri prestigiosi riconoscimenti come il premio France Culture, e il premio Unione Latina di Letterature Romanze. Morì a Parigi nel 2005.