giovedì 18 luglio 2013

Un canarino in una miniera di carbone: Kurt Vonnegut


Con una certa aria di sicurezza, mentre guarda fuori dalla finestra del salotto del suo elegante appartamento a Manhattan, Kurt Vonnegut spiega «Non sto dicendo che Dio è arrabbiato con noi. Sto dicendo che con la benzina stiamo uccidendo il Pianeta. Molto presto finiremo il petrolio, e tutto dipende dal petrolio. È la fine del mondo. Le fonti improvvisamente si asciugheranno. Si parla degli anni 20, gli ingordi Anni Ruggenti. Non era niente. Siamo pazzi, stiamo diventando pazzi per il petrolio. È una droga, come il crack. Tutto questo deve finire. Mi dispiace». 
L’attitudine apocalittica è una prerogativa di Vonnegut, che, dopotutto, già in Ghiaccio Nove (1963) aveva inventato una sostanza (il ghiaccio nove, appunto) capace di annientare la Terra come se «la grande porta del paradiso venisse chiusa lentamente». L’ingenuo protagonista— un personaggio chiamato John/Jonah — si sforza inutilmente di scrivere il libro Il Giorno in cui il mondo finì. Nelle interviste di Conversazioni con Kurt Vonnegut, lo scrittore rifiuta l’idea che i suoi 14 romanzi, le sei raccolte di saggi e le dozzine di racconti brevi siano rivelatori, sostenendo che «chiunque abbia un po’ di buon senso sa che l’intero sistema solare andrà progressivamente distrutto come una striscia di celluloide». 
Se insieme a questo scenario da giorno del giudizio consideriamo la sua depressione cronica, i quotidiani attacchi di malinconia e le tendenze suicide, ne deriva l’immagine di una Cassandra letteraria di prim’ordine. Negli annali della letteratura americana, Vonnegut è stato catalogato fra gli umoristi neri: uno scrittore post Hiroshima che porta i lettori a ridere della squallida assurdità della condizione moderna. Ecco probabilmente perché, dopo cinque anni e mezzo di amministrazione Bush, la sua singolare intelligenza cupa sembra più pertinente che mai. L’ultimo libro, Un uomo senza patria, una raccolta di saggi, è stato a sorpresa uno dei libri più venduti lo scorso anno negli Stati Uniti. Tutto sommato, sarebbe facile pensare che la sua carriera sia risorta a nuova gloria. Ma Vonnegut è una di quelle rare figure letterarie che non hanno mai smesso di fare tendenza. Fin dagli anni 6o viene considerato uno stregone della prosa con il cappello pieno di assurdi personaggi. Harper’s lo definì «inimitato e inimitabile nella satira sociale» e il New York Times lo consacrò «ironico profeta di sventura». Ma oggi, mentre guardo Vonnegut sorseggiare il caffè con i mugolii del suo cagnolino bianco Flour in sottofondo, non trovo segni di ironia o satira sociale. Vedo solo un acceso dissenso per il modo in cui la tecnologia e il capitalismo globale stanno usurpando gli ultimi anditi di bontà dalle vite degli onesti lavoratori e una profonda tristezza per il modo in cui gli esseri umani massacrano quotidianamente i loro impulsi più civilizzati. 
Vonnegut inizia a tossire schiarendosi la gola dal catarro e afferrando un pacchetto di Pall Mall abbandonato su un tavolino da caffè. Accende velocemente una sigaretta. L’affanno cessa. 
Gli chiedo se non si preoccupa del fatto che le sigarette lo stiano uccidendo. «Oh certo» -, risponde, proponendomi quello che di sicuro è il suo pezzo forte. 
«Fumo sigarette senza filtro da quando avevo 12, 14 anni. Ho intenzione di fare causa alla casa produttrice. Sai perché?» «Cancro ai polmoni?», azzardo «Perché ho 83 anni. Bastardi millantatori! Sul pacchetto promettevano di uccidermi. Ma le loro sigarette non funzionano. E ora sono obbligato a sopportare leader con nomi tipo Bush e Dick». 
Essendosi auto-definito agnostico, Vonnegut non è afflitto dal timore di una divinità vendicativa, ma dalla «benzino-tristezza» e dalla «Bush-influenza». Gli mancano i giorni in cui le voci appassionate di Franklin D. Roosevelt, Robert F. Kennedy o Martin Luther King Jr. rivendicavano diritti per gli oppressi. «I nostri leader sono stanchi di tutta la solida informazione che è stata riversata addosso all’umanità grazie alla vera ricerca, al sapere eccelso e al giornalismo investigativo», sostiene. «Vogliono riportarci indietro agli standard medievali».


Vonnegut possiede un addestrato istinto umoristico che non è diminuito con il tempo. La sua voce letteraria è paradossalmente impregnata tanto di tragicità quanto di comicità. E qui sta la parte divertente: 
Vonnegut riesce a far coesistere queste diverse correnti non solo nello stesso libro o capitolo o pagina, ma a volte all’interno della stessa frase. Come scrittore, Vonnegut, che fa uso di frasi semplici e periodi brevi per catturare l’attenzione del lettore, non è mai banale. Ripetitivo, a tratti anche lezioso. Ma i suoi sono libri che si leggono d’un fiato. 
Il tratto distintivo di Vonnegut è la sua costante insistenza nel sostenere che siamo tutti ugualmente responsabili per gli orrendi crimini commessi contro l’umanità. Il grande tiratore (1982) la storia del figlio 12enne di un artista fallito, Rudy Waltz, che uccide accidentalmente una donna incinta sparando con la pistola del padre, mentre la città in cui è ambientata la storia, Midland City, viene distrutta da una bomba al neutrone. La morale è che gli scienziati che mettono armi nucleari nelle mani dei politici sono tanto irresponsabili quanto i padri che lasciano ai figli libero accesso alle armi da fuoco. Tutte queste inquietudini morali e tragicomiche sono raccolte nel libro contro la guerra del 1969, il capolavoro di Vonnegut: Mattatoio n.5. Il romanzo è largamente autobiografico, infarcito di una grossa dose di fantascienza. 
Billy Pilgrim, il personaggio principale, è «libero nel tempo» perché viaggia attraverso i momenti significativi della sua vita, compresa la visita al pianeta Tralfamadore e il bombardamento di Dresda in Germania. «La Seconda guerra mondiale era giusta, ha reso rispettabile il concetto di guerra», afferma Vonnegut. «Non me la sarei persa per niente al mondo. Quante altre guerre giuste ci sono state? Non molte. E i ragazzi con cui ho servito la patria sono diventati miei fratelli. Se non fosse stato per la Seconda guerra mondiale, adesso sarei il redattore agrario dell’Indianapolis Star. Non mi sarei mai mosso da là». 
Cresciuto in Indiana durante la Grande depressione, Vonnegut studiò chimica alla Cornell University. Al college, divenne redattore del Cornell Daily Sun: si occupava delle rubriche. Poi si arruolò nell’esercito per aiutare a sconfiggere il Terzo Reich. Venne addestrato a usare l’artiglieria da campo: l’obice da 240, un gigantesco cannone in grado di scagliare un proiettile da 135 kilogrammi. Catturato dai nazisti durante la battaglia delle Ardenne, il 21enne soldato scelto divenne un prigioniero di guerra e fu spedito a Dresda. Sulla quale, il 13febbraio1945, gli Alleati decisero di sganciare nuove bombe incendiarie. Infinite palle di fuoco sommersero la popolazione civile, uccidendo circa 135 mila persone. Interi isolati vennero ridotti a detriti incandescenti. Era un inferno infuocato come il mondo non ne aveva mai visti prima, il peggiore massacro della Storia europea. 
Vonnegut sopravvisse. Per ironia della sorte, i nazisti avevano rinchiuso lui e altri sei prigionieri in una cella sotterranea per la conservazione della carne conosciuta come “Mattatoio n. 5”. «Non riuscimmo a vedere la tempesta», scrisse poi Vonnegut. «Sentimmo le bombe che cadevano sopra le nostre teste. Ogni tanto ci cadeva addosso un po’ di calce. Se fossimo andati di sopra a dare un’occhiata, ci saremmo trasformati nei caratteristici oggetti forgiati da una tempesta di fuoco: tizzoni ardenti di legno carbonizzato lunghi circa un metro: esseri umani grottescamente piccoli o maxi cavallette fritte, se preferisci. Il fetore era un misto di rose e mostarda». 
Quando emerse dal nascondiglio, sopravvissuto all’annientamento, era inebetito. «Distruzione totale», ricorda. «Una carneficina inspiegabile». I nazisti lo obbligarono a raccogliere i corpi per la sepoltura di massa. «Come prigionieri di guerra, dovevamo occuparci dei tedeschi morti, tirarli fuori di là e portarli a un enorme rogo», spiega. «Ma c’erano troppi cadaveri da bruciare. E i nazisti mandarono uomini con il lanciafìamme. Tutti i resti furono ridotti in cenere». 
La Seconda guerra mondiale finì e Vonnegut tornò in Indiana con una medaglia al valore. Ma i fantasmi di Dresda lo perseguitavano (doveva anche fare i conti con il suicidio di sua madre, avvenuto nel 1944): il bombardamento è trattato in almeno sette dei suoi libri. Sì, i nazisti erano colpevoli, ma la rabbia e la disperazione di Vonnegut si rivolsero all’intera dannata razza umana. 
Come molti veterani di guerra, Vonnegut dovette faticare per riportare la sua vita reale sui giusti binari. Per un po’, si occupò di una concessionaria Saab a Cape Cod. Poi lavorò come addetto alle pubbliche relazioni per la General Electric Company a Schenectady, New York, dove vide stravaganti macchine fabbricare i “giocattoli del futuro” con mostruosa efficienza meccanizzata. «La parola “automazione” non era ancora stata inventata», ricorda. «Ciò che vidi fu la fine del lavoro individuale». Ne aveva abbastanza. Decise di dedicare la vita alla scrittura. 
Dresda l’ha trasformato in un pacifista convinto: non sorprende scoprire che disdegni tutto quello che riguarda la guerra in Iraq. Il solo pensiero che più di 2500 soldati americani siano stati uccisi in quello che considera un conflitto inutile lo fa imbestialire. «Onestamente, rimpiango Nixon», lamenta, «Bush è molto ignorante. E a me non piacciono le persone stupide e impulsive. Non è capace. La guerra in Iraq dimostra che è un falso cristiano. Ricordatevi quello che ci insegna Shakespeare: “Il diavolo sa citare le Sacre Scritture per i suoi fini”». Mi chiede poi se so il motivo per cui il Presidente Bush è così incazzato con gli arabi. Io alzo le spalle. «Ci hanno fatto conoscere l’algebra», dice ridendo. «Anche i numeri che usiamo, incluso il simbolo per il nulla. Lo zero». Quando gli chiedo un’opinione sul recente conflitto Israele-Hezbollah, mi propone una risposta buffa: «Tutti noi, anche i neonati, abbiamo fatto qualcosa di terribile per meritarci una punizione così feroce e insensata». 
Ultimamente Vonnegut sostiene di essere un «maestro del fancazzismo», l’occupazione per la quale lui crede, siamo stati creati. Il fancazzismo per Vonnegut, comunque è un’attività che lascia spazio a diverse opzioni. Occasionalmente scrive strani racconti o saggi, molti dei quali, alla fine, sono stati inseriti in Un uomo senza patria. Poi ci sono le poesie ironiche. In cima alla sua scrivania c’è un plico di poesie ancora inedite, alcune delle quali dileggiano l’Occidente e l’imbranata destra radicale. Oltre che dalle poesie assurde, Vonnegut trae grande conforto dalla musica. «La musica rende la vita della gente molto più piacevole», riflette. «Nonostante io sia un pacifista, anche le bande militari riescono a risollevarmi il morale. E poi amo Strauss, Mozart e la musica classica in generale. Bisogna rendersi conto che l’inestimabile dono che ci offrono musicalmente gli afroamericani è forse l’unica ragione per cui gli stranieri ancora tollerano noi americani. Il rimedio migliore per l’epidemia di depressione 
che affligge il mondo intero è il blues». «Il compito dell’artista è far amare più che mai la vita alle persone», continua. «Quando mi chiedono se è possibile, rispondo: “Certo, i Beatles l’hanno fatto”». Qualche anno fa, Vonnegut fece un’improvvisazione canora durante una serata a Northampton, Massachusetts. Compose un libretto d’opera per L’histoire du soldat di Stravinsky, che nelle sue mani si trasformò nel commento all’infame morte del soldato semplice Eddie Slovick nel 1945, l’unico soldato americano giustiziato per diserzione dai tempi della Guerra civile. Vonnegut ha poi registrato il cd Tock Tick, nel quale legge brani di Mattatoio 5. Nel frattempo, è giunto a una fase di stallo nella stesura del romanzo If God Were Alive Today (“Se Dio fosse vivo oggi”): «Ci ho rinunciato», dice con gli occhi stanchi e leggermente iniettati di sangue che mi fissano. «Non succederà». Le attività che lo occupano ora, come negli ultimi 13 anni, sono la pittura e il disegno. Nel 1979 ha sposato Jill Krementz, la sua seconda moglie, eccellente scrittrice e fotografa specializzata in ritratti d’autore. Lei lavora al piano terra della loro casa a New York, mentre lui si rintana al piano superiore. L’arredamento prende spunto dalla semplicità tipica dell’Indiana, ma è più personale: sedie chiare con disegni floreali, un pianoforte, litografie con paesaggi idilliaci, tappeto decorativo e bambole antiche. La famiglia occupa la gran parte del tempo dei Vonnegut: insieme, hanno sette figli e 12 nipoti. 
E sebbene Vonnegut non abbia più pubblicato romanzi importanti dai tempi di Cronosisma, circa 20 anni fa, un fiume di lettere arriva ogni giorno dai suoi fan, molti dei quali cercano consigli in merito all’angoscioso e tormentato mondo post 11 settembre. Un giovane fan di Seattle scrisse a Vonnegut dell’indignazione che provò in un aeroporto quando gli venne praticata una perquisizione che assomigliava molto a uno spogliarello. Vonnegut gli rispose: «Negli aeroporti e in posti simili vanno di moda gli scherzi. Il mio preferito rimane quello che si è inventato quel santo pagliaccio pacifista di Abbie Hoffman, durante la guerra del Vietnam. Annunciò che il massimo sballo consisteva nell’assumere bucce di banana per via rettale. E allora tutti gli scienziati del Fbi si infilarono bucce di banana su per il culo per vedere se era vero o no». 
Kurt Vonnegut è evidentemente stanco. E un uomo senza aspettative: «Come dicono loro, ho 83 anni e sono un senzatetto», rivela. «Ero nella stessa situazione quando finì la Seconda guerra mondiale. L’esercito mi volle tenere perché sapevo dattilografare, quindi battevo a macchina il congedo di altri soldati, cose così. Ma pensavo: “Per favore, ho fatto tutto quello che dovevo. Posso andare a casa ora?”. Ora mi sento così. Ho scritto libri. Molti. Per favore, ho fatto tutto quello che dovevo. Posso andare a casa? Mi sono chiesto dov’è casa mia. A Indianapolis, come quando avevo nove anni e avevo un cane, un gatto, un fratello, una sorella». 
Dopo un paio d’ore di amabile conversazione, decidiamo di andare in un vicino ristorante. Camminiamo per la Terza Strada avvolti da un caldo soffocante: 
il livello d’inquinamento atmosferico sembra insopportabile: per un paio di minuti, Vonnegut continua a tossire. Abbiamo le sopracciglia imperlate di sudore. Il suo buon umore svanisce, ed eccolo tornare alle sue elucubrazioni improvvisate sui «rischi del petrolio». «L’evoluzione è un errore», dice disgustato. «L’umanità stessa è un errore. Abbiamo distrutto l’intero pianeta lasciandoci trasportare dall’euforia per i trasporti. L’amministrazione Bush sostiene di aver bandito una crociata contro la droga? Allora che distruggano le lobby del petrolio. Una sostanza orribile e distruttiva. Riempi il serbatoio con questa specie di gas e puoi coprire un centinaio di miglia in un’ora, uccidendo animaletti e mandando in pezzi l’atmosfera». 
Poi, dopo un silenzio imbarazzato, il sopravvissuto di Dresda azzarda una battuta filosofica. «La vita», proclama, «non è il modo giusto di trattare un animale». E poi, per qualche ragione, entrambi scoppiamo a ridere.


(Douglas Brinkley, Rolling Stone Usa, Ottobre 2006)
  

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