domenica 27 gennaio 2013

Kathryn Bigelow e Mark Boal, Oscar di coppia - Zero Dark Thirty


Kathryn Bigelow e Mark Boal, regista e sceneggiatore di Zero Dark Thirty, film in corsa per 5 oscar e fra pochi giorni sugli schermi italiani, sono una delle coppie più potenti di Hollywood, compagni nella vita e in campo professionale. 
Con la prima collaborazione, nel 2008 in The Hurt Locker, si assicurarono sei statuette tra cui miglior regia - lei, prima donna nella storia dell’Academy of Motion Picture - sceneggiatura e film. Zero Dark Thirty (termine militare che indica il cuore della notte, 12.30 AM) racconta la guerra al terrorismo di Al Qaeda e la cattura del pericolo pubblico n.1 Osama Bin Laden, che dopo l’11 settembre diventa il must dei presidenti americani. Obama in particolare: tanto che al film, negli Usa, non sono state lesinate fin dai tempi della lavorazione critiche di eccessiva foga filo-governativa, al limite dello spot per la rielezione del candidato Barack. Alla spettacolarità del film concorre poi il cast stellare che interpreta il gruppo di agenti Cia: Jessica Chastain (premiata nei giorni scorsi col Golden Globe), Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong, Kyle Chandler, Edgar Ramirez. 
Incontriamo Bigelow & Boal al Mandarin Hotel di New York, quando il film ha già fatto incetta di premi dei critici, da New York a Boston, da Los Angeles a Washington, più quelli di American Film Institute e National Board of Review.


Cominciamo dall’inizio. Come è nato il tutto?

Bigelow: Quando Osama Bin Laden è stato assassinato, nel maggio 2011, stavamo già lavorando da tre anni alla sceneggiatura di un film che narrasse i misteri dietro il suo esilio. Alla notizia della sua morte, però, abbiamo cestinato il lavoro fatto fino a quel momento, per scrivere un nuovo film. Mark e io sentivamo l’obbligo di andare avanti, raccontando la storia che stava sviluppandosi sotto i nostri occhi. 


Boal: Ho iniziato la mia carriera da reporter raccontando esperienze di guerra su riviste come PIayboy, The Village Voice e Rolling Stone, e amo integrare le sceneggiature che scrivo utilizzando il mio background giornalistico.


Alcune parti del film sono basate su fatti realmente accaduti, altre comprese le scene controverse sulle torture sono interpretazioni di testimonianze di gente coinvolta nelle vicende. Ma, alla fine, quanto c’è di vero?

Boal: Prima di tutto questo non è un resoconto giornalistico a cui riferirsi per capire la verità dei fatti accaduti. Volevamo fare un film, che catturasse un momento della nostra storia e sopravvivesse al passare del tempo, che al pari di altre storie sullo stesso soggetto valesse la pena di essere visto anche 5, 10 anni dopo. Quando molti dei fatti saranno stati esaminati con accuratezza. E' un soggetto delicato, su cui è stato scritto molto e su cui si scriverà ancora: come film-maker speriamo di essere stati coerenti, ma resta un film, non un documentario. Quindi è sempre difficile dire quali sono i fatti storici e quelli romanzati.

Kathryn, quando ha scoperto che una delle protagoniste di questa storia era donna, è rimasta sorpresa?

Bigelow: Sono rimasta positivamente sorpresa del fatto che c’erano e ci sono oggi parecchie donne ai vertici della Cia. Quando pensiamo a un cacciatore di terroristi, non credo che la prima immagine che ci viene in mente sia molto femminile: è ancora difficile pensare che una donna sia al centro della caccia all’uomo più pericoloso del mondo. Però è stata una realtà. Comunque per me era interessante raccontare la storia di donne e uomini che ogni giorno rischiano la vita per la sicurezza del nostro Paese, ritrarre i segreti della quotidianità del loro lavoro, aspetti di vita sconosciuti, visti con curiosità, rispetto e responsabilità.

Ha pensato di mostrare una sorta di potere femminile?

Bigelow: Se devo essere sincera, mi sono interessata alla storia al di là del fatto che una donna fosse protagonista. Per me era importante la qualità del personaggio, la sua forza e determinazione, non tanto la sua identità sessuale. Il carattere della mia protagonista è definito dalle sue azioni. Però, sì, l’idea che fosse una donna ha aumentato le mie emozioni, ha eccitato i miei pensieri. Ho letto la sceneggiatura - incredibile - ero felicissima di avere il privilegio di dirigere un film così interessante. Devo ringraziare Mark.

Quanto è reale il personaggio di Jessica Chastain?

Boal: I personaggi del film sono basati su persone reali, ma i dialoghi sono stati scritti come sceneggiatura, in modo da poter riassumere dieci anni in poco più di due ore, integrandoli poi con le informazioni che mi ha dato la gente che ho incontrato e con ciò che ho ricostruito della storia. Jessica-Maya (nel film) è un personaggio fittizio nel nostro racconto (visto che nessuno sa chi sia in realtà l’agente di cui si parla) ma anche vero, reale, basato su molti reportage di persone che hanno vissuto queste vicende incontrandola e lavorando con lei. Nessuno di noi ha mai ricevuto il nulla osta per incontrare la vera Maya, nemmeno Jessica si e mai trovata vis-à-vis con lei. Perché? Perché nessuno deve sapere chi sia, altrimenti ne andrebbe della sua vita.

Come lavorate insieme? Quanto è stato importante aver già lavorato insieme per The Hurt Locker?


Bigelow: Ci sono aspetti comuni tra The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, certo non avrei mai potuto fare questo film senza l’esperienza dei precedenti. Il nostro è un processo collaborativo molto creativo, siamo in sintonia da vari punti di vista, estetici e di contenuti, non è facile avere rapporti così interessanti, profondi con molte persone. Siamo fortunati. 

Boal: Come dico sempre a Kathryn, tu sei lo chef, mentre io ti fornisco gli ingredienti per cucinare un piatto ricco, appetitoso.


E' stato difficile raccontare una storia che sapevate già come andava a finire?

Bigelow: Ciò che mi ha intrigato della sceneggiatura è stato il fatto che era una storia drammatica, affascinante, stimolante. E che ci faceva intravedere molti aspetti, sconosciuti alla gente normale, attraverso gli occhi di Jessica e Jason: la dedizione, il coraggio, i sacrifici di gente che lavora per la sicurezza, e il prezzo che pagano ogni giorno per le loro scelte. Una storia molto drammatica: e il fatto che si sappia la fine non fa che aggiungere suspence.

Qual è stata la scena più complessa da girare?

Bigelow: Logisticamente, la cattura di Osama è stata complicata. Volevo che gli spettatori fossero immersi fisicamente in tutti gli aspetti dell’operazione, come se fossero sul luogo, al fianco degli agenti. Abbiamo girato senza luce, replicando quella famosa notte senza luna, applicando degli occhiali per la visione notturna sopra le lenti delle nostre telecamere. stato interessante vedere un centinaio di persone, tra membri della troupe e soldati, girovagare nel buio totale, cercando di non rovinare le mie riprese!

Come regista, cosa si impara da attori di talento?

Bigelow: Imparo tantissimo facendo il casting, specialmente per scoprire se la persona davanti a me ha le qualità emotive del personaggio che sto costruendo. Ho un rispetto immenso per il mestiere di attore: sono persone speciali, meritevoli di tutta la nostra-vostra venerazione. Il loro è un lavoro massacrante, infame, da infinite sedute psichiatriche. Ma allo stesso tempo li eleva, e gli permette di allargare consciamente e inconsciamente i limiti della personalità.

(Intervista di Roberto Croci, tratta da D di Repubblica, 26 gennaio 2013)

venerdì 11 gennaio 2013

Bernard Moitessier, il marinaio che sarebbe piaciuto a Conrad / Intervista alla moglie Françoise


L’immaginazione non potrà mai dare un’idea precisa di Bernard Moitessier, del suo genere di vita, dei suoi sentimenti quasi sempre celati dietro le dichiarazioni ufficiali, del suo bisogno di correre i mari tempestosi e di andare verso pericoli indescrivibili, delle sofferenze disumane per le quali il navigatore solitario prova una sorta di feroce piacere quasi di sadismo. Lo si potrebbe paragonare, seppure in direzioni affatto diverse, a certi pittori che danno il meglio di loro stessi nel tragico, nell’atroce. 
Moitessier rimarrà sempre incomprensibile. Perché? Due considerazioni forse lo chiariranno. 
La prima: egli affermava di provare un senso di rivolta verso tutto ciò che può essere definito vita civile associata. Da dove traesse origine questo sentimento non lo sapeva nemmeno lo stesso navigatore, dato che la vita associata e la civiltà — in una certa accezione del termine — egli, uccello dei mari, non le conosceva affatto. In una lettera da Tahiti, dopo essere stato in mare per 303 giorni e dopo avere compiuto una volta e mezza il giro del mondo senza scalo, Bernard mi scriveva: «Nel mondo civile ci sono molti falsi dèi, e per me non c’è posto. Vi si può trovare soltanto il gigantesco che stritola l’uomo ed il minimo che l’abbrutisce; desidero rimanere sempre in mare perché in mare sono felice, vi trovo la mia pace interiore, una pace profonda, troppo preziosa perché io debba correre il rischio di perderla fermandomi prima del tempo». A quale tempo si riferiva Moitessier? Al tempo umano o al tempo metafisico? 
La seconda: la vita di eterno errante che Moitessier conduceva era forse un'abitudine contratta fin da ragazzo, ed egli ha fatto di tutto per rinsaldare tale abitudine senza, per altro, raggiungere lo scopo. Nei suoi scritti si contraddice. Spesso vagheggiava le comodità della vita a terra, il piacere di dormire in un letto che non si muova. Riuscì anche a sposarsi e ad avere una casa. Ma la contraddizione è lo scotto che debbono pagare le nature sensitive, ingenue. 
Chi era Bernard Moitessier? 
Nato in Indocina nel 1925 da genitori francesi, trascorre l’infanzia e la prima giovinezza molto più piacevolmente di quanto non possa far supporre un’espulsione dalla scuola e la frequenza — per punizione paterna di un istituto professionale, dove impara molte cose che gli saranno utili nella sua vita di navigatore. La sua precocità marinaresca testimonia ampiamente la sua predestinazione. Debutta su piccoli «galleggianti» a vela da lui stesso costruiti, e tiene il padre e la madre costantemente con il fiato sospeso. Il mare è la sua stessa vita; non ama condurre la vita degli altri giovani. L’abisso tra lui e la società comincia a scavarsi. 
Con Pierre Deshumeurs, a bordo dello Snark, incrocia nel golfo del Siam, nel mar di Giava, nel mar della Cina, finché le innumerevoli vie d’acqua della vetusta barca non consigliano i due intraprendenti navigatori a sbarcare. 
Moitessier ha già fatto la sua scelta: vivere sul mare e scrivere. In questo vagabondo dei Mari del Sud, facciamo la conoscenza del navigatore e di due sue barche: Marie-Thérèse e Marie-Thérèse II, portate entrambe sugli scogli. La prima barca, per inesperienza, la seconda per un colpo di sonno. Ma facciamo anche un’altra conoscenza: la conoscenza di un vero scrittore. Moitessier comincia quasi per gioco. Dapprima la vita di bordo sembra opporsi alla potenza creatrice. Le pagine si ostinano a rimanere bianche; allora il navigatore si butta a capofitto nella lettura: Baudelaire, Saint-Exupéry, Moravia. Riempie il giornale di bordo di citazioni pedantesche, ricopiandole come uno scolaretto. Infine si decide. Metterà sulla carta tutto, cosi come gli viene in mente. E nasce il “Vagabondo dei mari del sud”, unanimemente definito uno dei più bei libri di barche che siano mai stati scritti, sia per una certa vena di schietto umorismo, sia per lo stile sprovvisto di qualsiasi compiacenza letteraria, sia per il contenuto, dove ogni espressione, ogni parola sono assolutamente necessarie a ciò che lo scrittore vuole narrare. 
Ma ritorniamo al navigatore. 
Dopo il naufragio di Marie-Thérèse II, perdutasi tra gli scogli, nel passaggio San Vincenzo, alla Martinica, Moitessier piombò nella più profonda disperazione. Ci vollero molti mesi per riprendersi, ma seppe incassare stoicamente. Se il disastro fu per Moitessier immane, ciò non significava, però, la fine dei suoi sogni. Poteva dimenticare tutto e ricominciare daccapo. Qualcuno ha scritto che Bernard aveva una grande capacità di dimenticare. Ed è vero. Dopo due naufragi, con perdita di corpo e beni, chiunque avrebbe desistito. Ma non Bernard. 



Non aveva dunque più nulla tranne quei pochi stracci addosso. Non aveva nulla né alle Antille né altrove. Riuscì a farsi imbarcare come uomo di fatica su una nave da carico e mettere piede per la prima volta in Francia. Qui trovò numerosi amici, molti dei quali l’aiutarono a trovar lavoro (rappresentante di medicinali) e nella realizzazione del suo sogno: avere una barca d’acciaio. L’avrà. Jean Knocker la disegnò su suggerimenti dello stesso Moitessier, e l’industriale Fricaud mise a disposizione le attrezzature del suo stabilimento. Nacque, così, Joshua con il quale Bernard fece corsi di vela d’altura in Mediterraneo, durante due stagioni. Quando ha un po’ di denaro, completa l’attrezzatura di Joshua e sposa Francoise, che gli porta tre figli nati da un precedente matrimonio. 
Bernard Moitessier poteva ritenersi tranquillo; aveva un lavoro, una casa. Ma il navigatore offrì a Francoise una straordinaria luna di miele. Partire con Joshua verso le Antille, Panama, la Polinesia Francese. 
Fu un viaggio meraviglioso e, dal punto di vista della navigazione, senza storia. Poi si pose il problema del ritorno: o far rotta per occidente e cioè capo Leeuwin o stretto di Torres, Buona Speranza o Mar Rosso, oppure far rotta per Capo Horn, la rotta logica, come la chiama Bernard. 
Scelsero la rotta logica. Partiti da Moorea il 23 novembre 1965, Bernard e Francoise avvistarono l’isola Diego Ram Erez 48 giorni dopo. L’il gennaio 1966 passavano al largo di Capo Horn, dopo aver subito per un’intera settimana una delle più spaventevoli tempeste che siano state mai registrate tra i 40° e i 50° di latitudine sud. Per sei giorni, i Moitessier furono inchiodati nel posto di governo interno, per sei giorni corsero il rischio costante di essere capovolti in senso longitudinale. Scrisse Bernard all’amico IM. Barrault: 
«Durante una settimana, rimanemmo inchiodati (Françoise splendida) alla barra. Mi domando come ce la saremmo cavata se avessimo dovuto governare stando nel cockpit, dato che le onde frangenti erano veramente assassine. Durante uno di quei colpi di vento, vidi cavalloni di 150, 200 metri di altezza che rompevano senza interruzione per 200, 300 metri lasciando dietro un mare di spuma. Assolutamente incredibile. Non cercare di immaginartelo, bisogna esserci stati. Non so se riuscirò a darne un’idea nel libro che ho intenzione di scrivere perché è impossibile immaginare che una barca come le nostre possa uscirne indenne. Posso però dirti una cosa: mai ho visto un mare così potente, così colossalmente bello, sia con bel tempo sia con cattivo tempo, e se dovessimo un giorno recarci nel Pacifico, ritorneremmo per la stessa rotta logica». 
Bernard Moitessier è tutto qui. Era un innamorato del mare violento, colossale. Era come le procellarie delle alte latitudini che morrebbero tra gli alisei. Era come lo stesso vento dei Quaranta Ruggenti, come lo stesso mare dell’Horn, dell’Agulhas, del Leeuwin. Era uno dei più grandi navigatori a vela in solitario di tutti i tempi. 
In solitario, Bernard ritorna all’Horn. E questa volta non per provare. Ma perché ci ritorna? 
I coniugi Moitessier gettarono l’ancora ad Alicante il 29 marzo 1966, dopo 126 giorni di mare ed oltre 14.000 miglia di percorso. Bernard era, allora, tutto preso dal suo Capo Horn alla vela, ma ha fretta di concludere, ha nostalgia delle alte latitudini. Mette alcuni amici al corrente del suo progetto ambizioso: fare il giro del mondo senza scalo, passando per i tre capi. 
Si era nel gennaio del 1968, quando l’idea di una competizione consistente appunto nel giro del mondo senza scalo non si era ancora affacciata alla mente degli organizzatori della gara indetta dal giornale britannico « Sunday Times ». Bernard rimise Joshua in condizioni di affrontare i Quaranta Ruggenti e ripartì quasi di nascosto. Sapeva perfettamente a che cosa andava incontro: mare gigantesco, pericolo di ghiacci che possono tagliare in due una barca come la sua, possibilità reale di essere capovolto in senso longitudinale, come capitò a Smeeton con lo Tsu-Hang o di lasciarci la pelle come lo fu per Hansen. 
Il « Sunday Times » organizzò la competizione. I concorrenti partirono e Bernard con loro contro la sua volontà. Se ne infastidì, compì il giro del mondo e, dopo aver tagliato due volte lo stesso meridiano, in netto vantaggio sui concorrenti, annunciò mentre si trovava al largo del Capo di Buona Speranza, di non voler ritornare in Europa, ma di continuare il viaggio verso le isole felici. 
La decisione di Moitessier sconcertò (non soltanto stupì) l’opinione pubblica. Si formularono molte congetture, la maggior parte delle quali sbagliate. Si parlò del tentativo di battere un nuovo record, due volte il giro del mondo senza scalo, si parlò di improvvisa pazzia del navigatore dovuta alla solitudine e allo scoramento, si disse che Bernard, e le parole gli furono falsamente attribuite, voleva salvare la sua anima. Tutto ciò « tradì» Moitessier, e di questo tradimento forse fu artefice lo stesso navigatore solitario. 
Ma perché Bernard rinunciò, povero com’era, alle 5.000 sterline offerte in premio dal giornale britannico? 
Forse questa lettera che l’amico Bernard scrisse da Tahiti può dare qualche spiegazione. 
«Non sono ritornato in Europa perché in mare ero felice, perché vi avevo trovato la pace del mio spirito, una pace totale, profonda. Non potevo sopportare l’idea che il mio viaggio dovesse concludersi poche settimane dopo il Capo Horn.» 
«Il desiderio di continuare verso il Pacifico era sorto in me molto tempo prima dell’Horn. Ma era soltanto un desiderio, qualcosa maturato dallo spirito e che la mia mente accarezzava. Soltanto dopo l’Horn, dopo l’immensa purezza dell’Horn, il desiderio di proseguire, di andare molto più lontano divenne una sorta di esigenza materiale, piuttosto che una decisione pura e semplice. Non si trattava, qui, di arrivare alla fine di un viaggio, ma di giungere alla fine di me stesso.»
«Dovevo proseguire, era necessario che rimanessi più a lungo nelle alte latitudini, dove l’essere umano si trova senza forze, smarrito per la consapevolezza dei suoi limiti, ma dove trova anche coscienza della sua grandezza. In quelle latitudini, sentivo che il mio essere si rimpiccioliva e s’ingrandiva, che lo spirito è carne e che la carne è spirito. Ecco perché, quando all’alba salivo in coperta, mi piaceva urlare la mia gioia di vivere, mentre contemplavo il cielo che andava rischiarandosi su quel mare colossale per forza e per bellezza.» 
«Per questo ho continuato. O per lo meno credo sia questo il motivo. Certo, spesso ero preso da un forte smarrimento di fronte ai potenti colpi divento, alle ondate gigantesche, alle nuvole gravide di pioggia che si rincorrevano a pelo d’acqua, portando con loro tutta la tristezza del mondo e tutto il suo sconforto. Ma dovevo continuare lo stesso, forse perché quando si comincia una cosa, si deve condurla a termine anche se, a volte, non se ne comprendono le ragioni.» 
«Ma che cosa vado dicendo? Non sono ragioni sufficienti e validissime i cieli limpidi, i tramonti color del sangue e della vita, in un mare scintillante di bellezza? Come spiegare tutto ciò? Si può forse spiegare che non sono le stelle, il mare, il vento in se stessi a procurarci l’estasi ed il sogno, ma che invece sono i nostri sensi e la nostra anima a creare tutto ciò?» 
«E' difficile dare una spiegazione alla mia decisione di continuare il viaggio, ma un motivo doveva esserci, e questo motivo aveva un valore immenso, immensamente più grande di un Globo d’oro e delle 5.000 sterline del “Sunday Times”.» 
Le parole di Bernard sono quelle di un inquieto, di un filosofo, di un asceta a modo suo. Sono le parole di chi cercava continuamente di dare un senso e uno scopo a quello che faceva. Ma nulla ha senso, nulla ha uno scopo, lontano dal mare, perché Moitessier si identificava con il mare. Fu egli stesso una forza della natura, un uccello dei mari — come egli amava definirsi —. Fu uno dei pochi uomini che hanno doppiato Capo Horn, ma uno dei rari che ci sia stato due volte. Già, due volte l’Horn, ma due volte Capo Leeuwin, tre volte il Capo di Buona Speranza, tre volte il Pacifico, tre volte l’indiano, cinque volte l’Atlantico. Fu un solitario per elezione. Nè l’amore nè i vantaggi di una vita comoda poterono allontanare da lui il sentimento della solitudine. D’altra parte, la coscienza che egli aveva del suo isolamento e della qualità di esso, lo spinse a tenersi in contatto con gli altri e a cercare sempre nuovi amici. Sembra un paradosso, e non lo fu. La Polinesia, con i suoi mille atolli, divenne il suo mondo per oltre 15 anni; li incontrò Ileana dalla quale ebbe un figlio, Stéphan. 
Moitessier pubblicò il suo terzo libro, La lunga rotta, il racconto delle sue più profonde scelte umane che lo videro schierarsi con passione sui grandi temi del disarmo nucleare e dell’ecologia. Nel 1982, al Messico, un ciclone investì Joshua, il suo “bell’uccello dei Capi”: sarà sostituito dal cutter in acciaio Tamata con il quale ritorna a Tahiti. Riprende a scrivere. Nel 1989 apprende di 
avere un tumore alla prostata e Veronique, la sua nuova fiamma, gli offre un’alternativa, una casa a Parigi dove lavorare; scriverà "Tamata
e l’Alleanza". 

Bernard Moitessier è morto, dopo una lunga malattia, a Parigi il 16 giugno 1994, all’età di 69 anni.



(Francesco Di Franco, prefazione "Un Vagabondo Dei Mari Del Sud", Editore Mursia)



Intervista a Françoise Moitessier 

A prima vista, sembra impossibile che questa donna, minuta e apparentemente fragile com’è, abbia potuto navigare da sola per quasi 15mila miglia. Ma basta guardare negli occhi Françoise Moitessier per capire che non solo lo ha fatto, ma che se le primavere passate e i dolori alle ginocchia non glielo impedissero, ripartirebbe seduta stante. L’abbiamo incontrata a Lerici, in occasione della presentazione del suo libro 60.000 miglia a vela, io Bernard e il Mare (Mursia editore) e ci ha letteralmente stregato con i suoi occhi che sprizzavano vitalità e il suo sorriso disarmante.

Lei è stata una delle poche persone, e sicuramente la prima donna, ad aver navigato con Bernard Moitessier. È stato difficile?

All’inizio è stata durissima, Bernard era convinto che io fossi il suo alter ego, che potessi spedare un’ancora che pesava cinque chili più di me. Non teneva minimamente in considerazione il fatto che io non avevo mai messo piede su una barca. E, soprattutto, era abituato a navigare da solo, e io ero in più.

Molti l’hanno criticata perché, partendo con Bernard, lasciò in Francia i suoi tre figli. Cosa risponde?

È stata una scelta estremamente difficile. Avevamo modificato la barca per ricavare una cabina per i bambini, ma io non volevo obbligarli a fare la vita da bohémien che avevo scelto. Se lo avessi fatto, se non li avessi lasciati in Francia perché potessero andare a scuola, non avrebbero avuto più nessuna possibilità di scelta. Invece oggi mio figlio fa il medico a Tolone, mentre mia figlia è un po’ più bohémienne, ma è stata una sua scelta. Anche Bernard ha insistito perché non venissero. Era un uomo molto intelligente ma, da grande, ha molto rimpianto di non essere andato a scuola. Si sentiva diverso dagli altri, più ignorante. «Se vengono con noi non andranno mai più a scuola», mi disse, «ci raggiungeranno durante le vacanze». E io, per conto mio, ero troppo innamorata per prendere anche solo in considerazione l’idea di non partire insieme a Bernard. 

Nel libro lei scrive di non farsi illusioni, che una donna a bordo è sempre l’ultima ruota del carro. Ma è davvero così? 

Qualcosa sta cambiando, perché sono sempre di più le donne che navigano, ma allora una donna a bordo era un evento eccezionale. Ti identificavano come la cambusiera, niente di più. Invece sono partita come la moglie dello skipper e poi sono diventata il co-skipper e quando Bernard dormiva ero in grado di badare alla barca da sola. Ma all’inizio è stata durissima. 

Aveva paura?

Sì, una paura da matti.

Era diversa l’idea di navigazione che avevate?

No, l’idea di navigazione era uguale. Anche io quando sono tornata da Capo Horn ho avuto grandi difficoltà ad adattarmi alla vita di terra. La nostra era proprio una differenza caratteriale. Io ero più responsabile, e anche se ero lontana mi sono sempre occupata della mia famiglia e mi sono fermata quand’è stato necessario. A Bernard interessava solo navigare, non si sarebbe mai fermato. 

Il libro che ha scritto è decisamente più allegro nella seconda parte, quella in cui lei naviga da sola. Come mai?

Beh, è naturale, per me è stata una gioia straordinaria navigare con Croix Blanc. Certo decidere di partire da sola è stato difficilissimo. Mi chiedevo sempre come farò senza Bernard. E invece non ho avuto nessun problema, avevo navigato molto e bene e questo mi è servito. Ma decidere di partire è stato ugualmente difficile. 

Anche il rapporto con le persone sembra diverso.

Per me la barca era un modo affascinante di conoscere il mondo, non c’è mai stato niente che mi abbia entusiasmato tanto quanto i viaggi. Ma Bernard non voleva mai abbandonare la barca, non si fidava di nessuno e non era interessato ai posti in cui sbarcava. Era davvero insopportabile. Io invece arrivavo, lasciavo la barca in custodia a un ragazzetto del porto e andavo alla scoperta del paese. Davo confidenza alla gente, mi fidavo e così ho conosciuto persone magnifiche che abitano dall’altra parte del mondo e con cui sono ancora in contatto.

Giuliana Fratnik

sabato 5 gennaio 2013

2012 Summed Up (Single Tracks Awards)






1  - La Forêt - Lescop (Lescop)
2  - O Deus Que Devasta Mas Também Cura - Lucas Santtana (O Deus Que 
3  - Tessellate - Alt-J (An Awsome Wave)        Devasta Mas Também Cura)
4  - Unfold - The XX (Coexist)
5  - Crack Rock - Frank Ocean (Channel Orange)
6  - Subirusdoistiozin - Criolo (No Na Orelha)
7  - Smalltalk - Ultraista (Ultraista)
8  - Move Love - The Robert Glasper Experiment (Black Radio)
9  - Cyan - Kindness (World, You Need A Change Of Mind)
10 - MR Meeble - Star Power (Nostalgic For Now)
11 - Myth - Beach House (Bloom)
12 - Tough Love - Sailor & I (Tough Love EP)
13 - 16 Minutes - Belleruche (Rollerchain)
14 - I'm His Girl - Friends (Manifest!)
15 - Blue Meanies - Opossom (Electric Hawaii)
16 - Oblivion - Grimes (Visions)
17 - In The Wake - Tristesse Contemporaine (Tristesse Contemporaine)
18 - Catherine - Saint Michel (I Love Japan)
19 - Stay - Zenzile (Electric Soul)
20 - You'll See - Baden Baden (Coline)

venerdì 4 gennaio 2013

La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov / Un saggio di Giorgio Manganelli



No, non so giocare a scacchi; sono goffo con le parole incrociate che non siano di insultante povertà («capitale del Portogallo»); e i rebus sono per me, appunto, dei rebus; aggiungerò — la mia onestà critica è patologica — che non so nulla delle farfalle, che provo nei loro confronti un vago sentimento di ammirazione, di inferiorità, di irritazione. Non sono limitazioni da poco, ed è probabile che siano radicalmente negative per un lettore di Nabokov, grande specialista di scacchi e amoroso di lepidotteri, se le farfalle sono lepidotteri, e anzi scopritore di una razza che ha eternamente consacrato con il suo nome un poco operistico di nobile russo.

Di Vladimir Nabokov, di Pietroburgo, morto nel 1977 a Montreux — un luogo molto nabokoviano per decedere — viene ora ristampato un breve, squisito romanzo: La vera vita di Sebastian Knight. 

Il libro apparve in inglese nel 1941; e già appartiene a quella serie che Nabokov non ritradusse, rifacendoli, dal russo: infatti Nabokov, come il solito Conrad, e il meno consueto Ruffini (qualcuno deve aver pur letto il risorgimentale Lorenzo Benoni), è un perfetto, raffinato, del tutto agiato scrittore in inglese, lingua imparata su grammatiche e da governanti. 

Ho parlato di scacchi e farfalle; e poiché questi temi, direttamente e indirettamente, appaiono in tutti i libri di Nabokov, penso che la ricorrenza di quelle eleganti, assurde, fragili immagini abbia molti e allusivi significati: tra incubo e visione. Ma in primo luogo vorrei indugiare su questa Vera vita: e sono certo che scacchi e farfalle troveranno il modo di venirci incontro. Poiché Nabokov è interessato non tanto alla narrazione, quanto al programma, al disegno del romanzo, la sua macchina, dovremo in primo luogo occuparci di questa. Una definizione decorosa di questa macchina potrebbe essere: complicata e inutile. 

I due aggettivi vanno goduti in coppia: infatti, non è impossibile, con un ragionevole spreco di talento, costruire una macchina complicata né mancano persone cui l’inutilità è una seconda natura. Ma qui il complicato e l’inutile si sposano, ed è un matrimonio insieme d’amore e di interesse; per amore, naturalmente, intendo piuttosto libidine che languore: niente «cuore». 
Il libro ha un tema che, oggi, può sembrare lievemente audace: il fratellastro di Sebastian Knight, geniale scrittore morto in giovane età, tenta di scriverne la vita; in teoria, il libro dovrebbe essere una biografia immaginaria: non lo è. E l’autobiografia del fratellastro durante i suoi tentativi di trovare materiale per questa Vera vita. Per conseguire questi risultati egli dovrà fare delle «mosse» — ecco gli scacchi. Cercherà, come un lento, peritoso e lucido giocatore, di cogliere gli indizi, sempre minimi, spesso ingannevoli; e le sue mosse risulteranno sterili, futili. 

In un passo del suo saggio Gogol, Nabokov aveva dichiarato la sua devozione alla fantasia «futile»; la pura fantasia che si muove in un vuoto, e non attinge né inventa significati. Essa è futile come un ozioso segno tracciato nell’aria; ma sterile significa qualcosa d’altro — anche questa parola è di Nabokov. Lo sterile è il non motivato, il gratuito, il frigido, l’esatto; sterile è la mossa degli scacchi che autodistrugge il proprio movimento di volta, come il libro si consegna al nulla, man mano che ne volgiamo le pagine. C’è nella sterilità una ferma volontà di non collaborare alla vita, al confuso e torbido intrico di significati che ne tiene assieme la mole disordinata; ma la sterilità non è morte, piuttosto una squisita e feroce astuzia per appartarsi. 

Per ricostruire quella Vera vita il fratellastro esegue alcuni tentativi: ha degli incontri, trova degli oggetti, e dovunque crede di riconoscere una indicazione definitiva, che non può esistere. In primo luogo lo stesso Sebastian Knight è estremamente elusivo; non lascia testi che non siano definitivi, l’unico esempio sopravvissuto di una pagina non definitiva reca, assieme, tutte le possibili varianti di una frase, senza cancellazioni; non parla mai di letteratura — e saggiamente, giacché parlarne con « gli altri » significa ammettere di essere vivo, ed è una ammissione pericolosa, per uno scrittore; le lettere che lascia nello scrittoio alla sua morte sono annotate, «da bruciare»; ed è proprio bruciando quelle lettere che il fratellastro coglie su di un foglio, che rapido si accartoccia e svanisce, poche parole; ma sono parole di donna, e scritte in russo. Ironicamente, il nulla, lo sterile, esegue una mossa inutile e consegna un indizio futile. 

Sebastian Knight è stato un solitario: e le persone che l’hanno conosciuto, amici di collegio, un losco segretario, una donna, non ne hanno più che sfiorato l’esistenza, la sua inutilità casuale ed eroica. Gli amici hanno ricordi irrilevanti, forse inesatti; il segretario, che sta a sua volta scrivendo una Vita di Knight, raccoglie aneddoti che sono la prova di una sistematica beffa che lo scrittore esercitò ai danni del segretario. Così, Sebastian un giorno gli racconta, appena velato, l’Amleto di Shakespeare come una dolorosa, traumatica memoria della sua adolescenza. Una donna certamente l’ha amato; ma protetta da un matrimonio, ed ancor più dalla morte imminente — morte di parto, vittoria della sterilità —, esclusa dalla miopia, la distrazione, il disorientamento, non può dire nulla, non sa più nulla, ha veramente consegnato al nulla il profilo dell’uomo amato; e la misteriosa autrice di quella frase russa, cercata accanitamente, porta il fratellastro a incontrare una donna frivola, leggera, fantastica, che riesce per qualche tempo a fingersi l’amica della «donna» di Sebastian Knight. 

Restano, dunque, i libri di cui Knight è autore; specie uno, Oggetti smarriti, che è « largamente autobiografico». Ma poiché è un romanzo, anche i ricordi sopravvivono come finzione; perdono vita e acquistano inutilità. Dunque, la forma del romanzo è questa, un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia; di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, e anzi l’unica vera «notizia» è che Sebastian, scrittore, ha scritto dei libri. 

Qui il gioco si complica: di ciascun libro viene data qualche informazione; talora si racconta la trama e almeno una, del romanzo Successo, è talmente affascinante da porci la domanda perché mai Nabokov non abbia scritto quel libro, invece di riassumerlo. Oltre ai riassunti, ci sono le citazioni, ampie e significative, dalle quali si nota che Sebastian scrive una prosa colorata, mentre quella del fratellastro è un poco più dimessa, e quella di Nabokov è più gelida; e un poco dell’ingegnoso gelo di Nabokov si insinua dovunque. 
S’è detto che la donna che sembra più prossima alla «verità» è in realtà un puro inganno; e dove il gusto drammatico per il doppio, lo scambio, la mistificazione definitivamente trionfa è nel racconto della morte di Sebastian Knight. Avvisato da un laconico telegramma, il fratellastro parte per...; è già in viaggio quando si accorge di non rammentare il nome della località; sarà il disegno di una scacchiera a rammentargli quel nome, St-Damier; quando arriva, viene lasciato entrare a trascorrere alcune ore in una stanza buia, dove un uomo addormentato respira faticosamente; è un momento di delicata, aurorale speranza. Quell’uomo è vivo. Ma hanno sbagliato stanza: quel malato ha in comune con Knight solo la « K » iniziale, è la sua controfigura sulle soglie dell’Ade; mentre il fratellastro vegliava la controfigura che lentamente ritornava alla vita, Sebastian giaceva già morto in una stanza della clinica. 


Non è un finale patetico; anche Knight è stato cancellato, perduto, resisterà la sua notturna immagine speculare, l’anima sosia che si è salvata, pronta a ulteriori inganni. 
Questo libro breve e «leggero » — pare avere la consistenza ingannevole del sughero — è in realtà un libro astutamente ambizioso; il suo obiettivo a me sembra quello di costruire un tessuto di parole — mi ripugna chiamarlo «romanzo» — attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale, indefinibile. Questa assenza contiene, inoltre, un ulteriore gioco, quasi un pun, una astuzia verbale. La vita di Sebastian Knight, quella «vera», è perduta, perché nessun indizio porta al centro; lo scrittore è una larva, una immagine simile a quelle che si colgono prima del precipizio del sonno. Ma vi è dell’altro: lo scrittore non possiede il tempo come serie; il tempo è un luogo matematico nel quale si raccoglie tutto ciò che altri chiamerebbe «il mondo». 

« Per Sebastian » scrive «non era mai il 1914, il 1920, o il 1936 — era sempre l’anno 1». «Non credo nel tempo» aveva scritto in Parla, memoria; e nello stesso libro aveva annotato: « Lo scienziato vede tutto ciò che accade in un unico punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un unico punto del tempo». In quanto scrittore, la sua Vera vita è istantanea, non ha data, né un prima né un dopo, « l’anima è solo un modo di essere — non uno stato costante,» scrive nelle ultime pagine della Vera vita: «ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni». Dunque, non v’è altro modo di scoprire la «vera vita» di Sebastian Knight, uomo-punto di tempo, che penetrare in quel luogo senza misura. 
«La mascherata volge alla fine», leggiamo nelle ultime righe. Nabokov, scegliendo la sterilità, e l’inutilità, ha scelto anche il travestimento, la mistificazione, l’errore, il fantasmatico, e di qui, e solo di qui, escono alcune delle sue pagine memorabili, come Invito a una decapitazione, capolavoro di rara, inquietante ambiguità; e vorrei, come gioco incidentale, rievocare una bizzarra e freddamente angosciosa invenzione nabokoviana: che i morti, le loro ombre e fantasmi, siano travestimenti, consolatori e beffardi inganni, emotive somiglianze indecifrabili nel costante buio. 

Vorrei concludere tornando ai temi emblematici degli scacchi e delle farfalle; sempre in Parla, memoria, si incanta a descrivere questa arte, «bella, complessa e sterile» , dalla qualità poetico-matematica, fonte di letizia faticosa e astratta; la scacchiera è un « campo magnetico, un sistema di forze, di abissi, un firmamento stellato». E imparentato, questo gioco, ad altre bizzarrie creative: dalla cartografia medita di mari perigliosi, alla lucida e demente costruzione di «incredibili romanzi», irti di regole vessatorie e arbitrarie, e deliberati incubi. 
Le farfalle: lo scrittore è affascinato da due qualità supreme: la mistificazione — la «mascherata» — e l’eccesso; le due qualità si mescolano; per mentirsi altra cosa, o insetto o foglia, la farfalla si trasforma; ma il gusto della metamorfosi è sfrenato, barocco, del tutto privo di rapporto con la ragionevole astuzia al servizio della sopravvivenza; la farfalla non è solo un prezioso inganno, è esuberanza e lusso; è «inutilità». «Scopersi nella natura le gioie non utilitarie dell’arte. Entrambe erano una forma di magia, un intricato gioco di incantesimo e di inganno». E confrontando diapositive e microscopio, annota: «Nell’equilibrio delle grandezze del mondo pare esservi un punto cui si perviene rimpicciolendo quello che è grande, e ampliando ciò che è piccolo; ed è un punto intrinsecamente artistico». 

Mi accorgo di aver scritto di Vladimir Nabokov senza aver mai nominato Lolita, il romanzo erotico per cui egli è socialmente, storicamente, «l’autore di Lolita». Visto nella prospettiva dell’inutile, dello sterile, del travestimento, Lolita, capolavoro di «veleni retorici» (vedi la prefazione di Disperazione), diventa un libro stranamente deforme, un’ardua anamorfosi. Come tutti i libri di Nabokov, non ha messaggi, né idee: « non sono un cane » aveva scritto una volta «che corre da voi scodinzolando, con una verità in bocca».

Giorgio Manganelli, postfazione a La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992

     

Sebastian Knight è un giovane scrittore nato in Russia e successivamente trasferitosi in Inghilterra (lo stesso percorso linguistico di Nabokov). Muore precocemente lasciando alcuni romanzi, racconti e qualche lettera. Il fratellastro, V., decide di scriverne la 'Vera' vita. Ma tutte le piste e le traccie sono ambigue, doppie; la ricerca gira a vuoto attorno alla perversa sensazione che l'autore di 'Successo' sia uno, nessuno e centomila. Questa è una delle pagine più belle, V. disquisisce sul fantomatico romanzo 'Oggetti smarriti': le lettere ritrovate nel disastro aereo sono magnifici esempi del linguaggio figurato nabokoviano.
(LT)


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"Oggetti smarriti, che Sebastian aveva iniziato proprio in quel periodo, pare una specie di sosta nel suo viaggio letterario di esplorazione: una pausa in cui si tirano le somme, si contano le cose e le anime perdute per strada, si fa il punto geografico; i sonagli di cavalli dissellati che pascolano nel buio; il bagliore del fuoco del bivacco; la volta stellata. 

In questo libro c’è un breve capitolo in cui si parla di un disastro aereo (il pilota e tutti i passeggeri, tranne uno, erano rimasti uccisi); il superstite, un inglese piuttosto anziano, fu ritrovato da un contadino a una certa distanza dal luogo della sciagura. Era seduto su un sasso, tutto raggomitolato — l’immagine stessa del dolore e dell’infelicità. «Una brutta ferita?» domandò il contadino. «No,» rispose l’inglese «mal di denti. Ce l’ho da quando sono partito». In un campo venne ritrovata una mezza dozzina di lettere, sparse qua e là: tutto ciò che restava del sacco della posta aerea. Due erano lettere d’affari, molto importanti; una terza era indirizzata a una donna ma cominciava così: «Egregio Mr. Mortimer, in risposta alla sua del 6 corrente... » e riguardava un’ordinazione; una quarta conteneva gli auguri per un compleanno; una quinta era la lettera di una spia con il suo ferreo segreto celato in mezzo a un mucchio di chiacchiere; e l’ultima era una busta, indirizzata a un’azienda commerciale, che conteneva la lettera sbagliata, una lettera d’amore. 

«Questo ti farà soffrire, mio povero amore. Il nostro picnic è finito; la strada è buia, piena di buche, e sull’auto il bambino più piccolo comincia a sentirsi male. Un povero sciocco ti direbbe: devi essere coraggiosa. Ma qualunque cosa io possa dirti per farti animo o consolarti sarà come una minestrina insipida — tu sai quello che voglio dire. Tu l’hai sempre capito. La vita con te è stata incantevole — e quando dico “incantevole” intendo canti e voli e viole, e quella morbida, rosea “v” nel mezzo, e quelle sillabe sulle quali si curvava indugiando la tua lingua. La nostra vita insieme è stata allitterativa, e quando penso a tutte le piccole cose destinate a morire, ora che non le possiamo più condividere, sento come se fossimo morti anche noi. E forse lo siamo. Vedi, quanto più grande era la nostra felicità, tanto più sfumavano i suoi bordi, come se i contorni si sciogliessero, e ormai essa si è dissolta del tutto. Non ho smesso di amarti; ma qualcosa è morto in me, e nella nebbia non riesco a vederti... Questa è tutta poesia. Io ti sto mentendo. Vigliacco. Niente è più vile di un poeta che mena il can per l’aia. Credo tu abbia intuito come stanno le cose: la solita dannata formuletta, “un’altra donna”. Con lei sono disperatamente infelice — ecco, questo almeno è vero. E penso non ci sia molto altro da aggiungere su questo lato della vicenda»

«Non posso fare a meno di pensare che nell’amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o ci si perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c’è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all’amore. L’amicizia non ha mai l’aspetto di una condanna. Perché, cosa succede? Non ho smesso di amarti, ma poiché non posso continuare a baciare il tuo caro, pallido volto, dobbiamo lasciarci, dobbiamo lasciarci. E perché? Perché l’amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona. Non è il caso di parlare degli harem: io sto parlando della danza, non della ginnastica. O si può forse immaginare un portentoso turco che ami ognuna delle sue quattrocento mogli come io amo te? Quando dico “due”, ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l’amore, a quanto pare, è l’esponente migliore di questa unicità»

«Addio, mio povero amore. Non ti dimenticherò mai e non metterò mai un’altra al tuo posto. Sarebbe assurdo da parte mia cercare di, persuaderti che tu eri l’amore puro e che quest’altra passione è solo una commedia della carne. Tutto è carne e tutto è purezza. Ma una cosa è certa: con te sono stato felice, e ora sono infelice con un’altra. E così la vita andrà avanti. Continuerò a scherzare con i colleghi d’ufficio, a godermi le mie cene (fin quando non mi verrà la dispepsia), a leggere romanzi e a scrivere versi, a tener d’occhio il listino della Borsa — e in generale a comportarmi come mi sono sempre comportato. 
Ma questo non significa che sarò felice senza di te... Ogni piccola cosa che mi riporterà il ricordo di te — l’occhiata di disapprovazione per i mobili delle stanze dove tu hai riordinato i cuscini e parlato con l’attizzatoio, ogni piccola cosa che abbiamo scoperto insieme — mi parrà sempre la metà di una conchiglia, la metà di una moneta, di cui tu custodisci l’altra metà. Addio. Vattene, vattene. Non scrivere. Sposa Charlie o un altro qualsiasi brav’uomo con una pipa tra i denti. Dimenticami per ora, ma ricordami dopo, quando l’amaro sarà dimenticato. Questa macchia non è dovuta a una lacrima. Mi si è rotta la stilografica, e sto usando una lurida penna in questa lurida camera d’albergo. Fa un caldo terribile, e non sono riuscito a concludere l’affare che avrei dovuto portare “a una soluzione soddisfacente”, come dice quell’imbecille di Mortimer. Credo tu abbia un paio di libri miei ma non è importante. Per favore, non scrivere. L. ». 

Se togliamo da questa lettera fittizia tutto ciò che riguarda specificamente il suo presunto autore, credo che in essa vi sia molto di quello che Sebastian può aver provato per Clare, o magari averle scritto. Aveva la curiosa abitudine di attribuire ai suoi personaggi, anche ai più grotteschi, questa o quella idea o impressione o desiderio con cui lui stesso poteva essersi baloccato. La lettera del suo eroe può anche essere stata una sorta di codice in cui esprimeva alcune verità circa i suoi rapporti con Clare. Ma non mi viene in mente il nome di un altro scrittore che abbia fatto uso della propria arte in maniera così sconcertante — sconcertante per me, che potrei voler vedere, dietro lo scrittore, l’uomo vero. E' difficile distinguere la luce di verità personale in mezzo allo scintillio di una natura immaginosa, ma quello che è ancora più difficile da capire è il fatto stupefacente che un uomo che sta scrivendo di sentimenti provati davvero in quegli stessi istanti possa aver avuto il potere di creare simultaneamente — e proprio ispirandosi alle cose che lo turbavano — un personaggio fittizio e vagamente assurdo."

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992, Traduzione di Germana Cantoni De Rossi)