- The Chemical Brothers - The Boxer (DFA Version)
- Hot Chip - Look After Me
- David Sylvian & Robert Fripp - Darshan (The Road to Graceland)
- Holger Czukay - Persian Love
- Tosca - Dave Dudley
- Kings of Convenience - The Eternal (Joy Division cover)
- Moon Duo - In The Trees
- Michael Franks - If I Could Make September Stay
- Eyvind Kang - Asa Tru
- Bill Frisell - What The World Needs Now Is Love
- Eyvind Kang & Mike Patton - I Am The Dead
- Joe Goddard - All I Know
- Dexter Gordon - Darn That Dream
- Kip Hanrahan - The September Dawn Shows Itself To Elizabeth
- Kouyaté & Neerman - Djanfa Magni
- Sufjan Stevens - Futile Devices (Live on Soundcheck)
- Seelenluft - Walking Around The Biotope
- Burt Bacharach - Where Did It Go?
- Erik Truffaz & Murcof - Al Mediodia
- Stefano Arnaldi / Alessio Vlad - Titoli Di Coda (L'assedio OST)
giovedì 21 giugno 2012
Il Trenino Della Notte, playlist umbratile
martedì 19 giugno 2012
Rubicon - Not every conspiracy is a theory, di Matteo Bittanti
La visione di Rubicon produce gli stessi effetti di dissonanza cognitiva che sperimento ogni volta che mi imbatto in un articolo di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera. Grasso racconta una realtà televisiva rimasta concettualmente ed esteticamente ferma agli anni Settanta, primi anni Ottanta. Una realtà virtuale, un mondo parallelo in cui le rivoluzioni tecnologiche delle ultime tre decadi (dai videoregistratori ai telefoni cellulari, da Google Tv a YouTube, da Hufu a Netftix) non hanno mai avuto luogo. In questo “bizarro world” – un’aberrazione anacronistica - i talk show, Bruno Vespa, Pippo Baudo, i telegiornali e il Festival di Sanremo, Grande Fratello e X-Factor vengono discussi come se fossero eventi televisivi “importanti”.
In altre parole, la genialità di Grasso consiste nel pretendere che esista davvero un pubblico per questa sottospecie di programmi. Il mondo come volontà e rappresentazione. Creata da Jason Horwitch e prodotta da Henry Bromell per il network AMC (lo stesso di Mad Men per intenderci), Rubicon applica una simile strategia retorica - l’istituzione di una realtà parallela, verosimile, ma del tutto virtuale perché anacronistica - per reinventare un genere che ha trovato in 24 il suo paradigma. Sulla carta, Rubicon parrebbe un mero clone della saga interpretata/prodotta da Kiefer Sutherland: una fittizia agenzia antiterroristica l’API, acronimo di American Policy Institute) si adopera per sventare attentati catastrofi sfruttando il talento investigativo di un gruppo di brillanti analisti guidati dal sobrio Will Travers (James Badge Dale, perturbante somiglianza con l’insegnante Will Schuester, paladino di Glee). Le similitudini, tuttavia, terminano qui.
Per cominciare, ci troviamo a New York e non a Los Angeles. Notte e giorno, soprattutto sul piano architettonico. A L.A. nessuno cammina. A New York nessuno guida. Questo crea dinamiche narrative radicalmente differenti. In secondo luogo, se la CTU è il nirvana dell’high tech, l’API colpisce per la quasi totale assenza di tecnologia. Persino la presenza di computer è sporadica. Le uniche workstations (peraltro inaccessibili agli agenti dell’API e confinate nel piano interrato) sono usate da un tecnico-vate (come negli anni Cinquanta/ Sessanta/Settanta). Gli uffici sono stracolmi di carta e di libri. I detective leggono ancora i quotidiani di cellulosa. Le fotografie non sono digitali, ma stampate su pellicola. Al posto di Google Earth ci sono i mappamondi. I cellulari esistono, ma vengono usati solo per conversare. Non solo: le comunicazioni più importanti si svolgono attraverso apparecchi a filo e cabine pubbliche. Il sistema operativo della polverosa biblioteca dell’API è L’MS-DOS e l’ultimo aggiornamento risale al 1987 (!). Gli agenti ricevono ogni giorno corposi plichi di fotocopie e report dell’intelligence (CIA, FBI, NSA...) che studiano religiosamente. Come dicevo prima: anni Settanta, quasi Ottanta. Ma le divergenze con 24 non finiscono qui. Il ritmo della saga di Jack Bauer è travolgente. I personaggi non si fermano mai. Non dormono. Non mangiano. Il montaggio è frenetico, da cardiopalma. Lo split screen è multiplo e l’attenzione frantumata. Il senso di urgenza toglie il fiato. Per converso, l’incedere di Rubicon è lento, pachidermico. La suspense, come il diavolo, sta nei dettagli, negli accostamenti improbabili, nelle battute a prima vista innocenti, nei falsi sorrisi. La macchina da presa indugia a lungo su figure immobili, immerse nell’oscurità o in penombra, in totale silenzio. Spazi vuoti, angolazioni paranoiche. Se gli agenti della CTU scrutano le mille finestre che si spalancano in un’orgia di pop-up sui loro monitor, quelli dell’API osservano la baia di New York, il traffico, i grattacieli, in cerca di risposte che non arrivano. Tanto 24 quanto Rubicon presentano una logica narrativa tipicamente ludica, ma se il primo è un videogioco, il secondo è un rompicapo, un enigma da risolvere con carta e penna (non a caso, le parole crociate assolvono un ruolo fondamentale a livello narrativo, come si evince anche dai titoli). In 24 i dialoghi svolgono una funzione accessoria e ridondante, insieme fàtica e retorica («Dov’è Kim?!?», «Dannazione»), mentre in Rubicon sono impregnati di pathos e gravitas. Persino il titolo - che viene “spiegato” nella penultima puntata della prima serie - si richiama esplicitamente al passato classico invece che al presente postmoderno. Pur essendo ambientato ai giorni nostri, Rubicon è girato nello stile dei film cospirativi degli anni Settanta: Perché un assassinio di Pakula, La conversazione di Coppola, I tre giorni del condor di Pollack. Anche qui, ognuno è tragicamente solo nell’immenso vuoto che c’è. Nessuno si fida di nessuno. Niente è come sembra. Le epifanie sono il frutto di un lungo e attento studio (e c’è sempre l’arguzia e la perseveranza umana dietro alla soluzione del puzzle, mai un calcolatore). Le fasi di azione sono sporadiche e per questo memorabili. L’alter ego di Jack Bauer, Will Travers (un nome una profezia, traducibile come “attraverserà”: W/will traverses the Rubicon?), è calmo e pacato, afflitto da un senso di quieta disperazione legata alla perdita di moglie e figlia negli attentati dell’11 settembre. Ma la vera star dello show è il sublime Truxton Spangler (Michael Cristofer: sceneggiatore, regista, attore... un personaggio epico, sullo schermo e fuori), misterioso direttore dell’API, in apparenza affabile e cordiale, flemmatico e composto, ma in realtà letale e tagliente, burattinaio dalle mille risorse. Un uomo criptico, solitario, affossato nella poltrona di pelle, cartina dell’Europa alle spalle, tazzone di cereali, fumo nervoso, parlato biascicato. Rubicon è una serie originale, peculiare, diversa. Proprio per questo motivo temo per il suo futuro, specie in un’arena televisiva, quella statunitense, che salvo rare eccezioni (Mad Men innanzitutto) promuove l’omogeneità e le catene di fast food (quanti inutili spin-off di ‘CSI: Scena del crimine’ sono stati prodotti negli ultimi anni? Puro colesterolo cerebrale) invece del gourmet raffinato. Ben vengano i mondi paralleli e gli anacronismi televisivi. Da vedere e rivedere, in slow motion, con la tecnica del freeze frame. Instant cult.
sabato 16 giugno 2012
Do you know the way to... Paddy McAloon, Burt Bacharach e Steve McQueen, di Giampiero Vigorito
Video elaborato e caricato su Youtube per il compleanno di Giampiero Vigorito (6 Novembre),
uomo saggio e giornalista sensibile che ci aprì le porte di questo scrigno.
PREFAB SPROUT - "Steve McQueen" (Kitchenware 1985) di Giampiero Vigorito
Questo disco è troppo bello.. Troppo bello per sporcare i suoi suoni con qualche spicciolo di chiacchiera, troppo toccante per rischiare d’incrinare quella sottile lastra di benessere che copre ancora le nostre emozioni, troppo puro per accendere solo cinque stellette.
I Prefab Sprout sono degli angeli caduti. Li abbiamo raccolti, gli abbiamo stirato le ali un po’ spiegazzate, abbiamo atteso che riprendessero a vibrare. E subito, le prime sillabe, ci hanno prodotto un senso di vertigine che non riusciamo ancora a smaltire. Paddy McAloon è un genio. Un genio che canta come un bambino che, avendo da poco scoperto d’avere una voce soave, vocalizza immediatamente, con naturalezza, senza alcuna forzatura.
Prende il suo tempo, lo culla sulle ginocchia, dispensa una gioia profonda anche quando indugia su una parola o quando lo si scorge intento ad attizzare quella subito seguente. La sua voce si avvolge attorno a qualche linea di basso, morbida e profonda come delle impronte sulla neve fresca; alita contro un cristallo che sta per andare in frantumi e vi disegna sopra delle figure infantili. Poi si getta in ui momento su una chitarra come se si dovesse aggrappare ad una pertica che lo salvi dal precipizio, riprende il tono bruscamente e, infine, ricade in piedi con la grazia di una ballerina. Quello che ne viene fuori sono undici canzoni, undici stati d’animo, altrettante carezze portate da una mano a forma di cuore. Questo disco è troppo bello.
Un disco concepito e registrato in uno stato di grazia in cui si è assaporata la gioia dei grandi disegni partendo da quel gusto un po’ acre che ha la mina di un lapis tra le labbra. La sua bellezza è una promessa di felicità. Una moneta coniata di fresco che viene fatta circolare senza mai farsi prendere dalla smania di accumularne un gruzzolo da una parte. E la musica non poteva che rappresentare questa prodigalità di fondo: le idee che corrono veloci, gli strumenti che intagliano ad una ad una le corde del sentimento, la voce di Paddy MacAloon che mostra la pelle d’oca sotto la brezza vocale di Wendy Smith, gli arrangiamenti e la produzione di Thomas Dolby che riescono a trarre il massimo equilibrio dalle forme più alte.
Credo che «Steve McQueen» sia stato registrato su un cuscino d’aria, a metà strada tra la terra e il paradiso. E questa linea immaginaria che i Prefab Sprout hanno tracciato davanti a loro è la stessa che ci spezza ancora il cuore in due. In questo album non ci sono fiori nei fucili, nessun ideale romantico da sbandierare, nessuna posa per inscenare una commedia di falsi attori. Sarebbe facile trascurarlo con il pretesto che questa musica sviluppa la sua bellezza in profondità senza mai farla esplodere. Paddy McAloon preferisce la candida fantasia della propria immaginazione alle panoplie «conformi» del prototipo rock. C’è del narcisismo in lui, è certo, ma nessun compiacimento nei Prefab Sprout in questo modo così prezioso di esporre delle canzoni tanto belle quanto accessibili. Qui la musica si fa così; con i mezzi toni, il lirismo dilagante, gli ornamenti di chitarre e di tastiere, le scosse funk temperate dal folk panoramico, il jazz liquoroso diluito nel grande calice del pop. Pochi gruppi provocano attualmente tanti brividi come i Prefab Sprout.
Quando Paddy McAloon graffia con una sola unghia Lloyd Cole e Morissey, Steely Dan e Aztec Camera, lo fa con una strizzatina d’occhio divertito piuttosto che per un debito da saldare. Il suo gruppo non deve niente a nessuno se non a se stesso. Paddy McAloon non vuole essere un eroe alla moda o una di queste effigi in cemento per affamati di scariche elettriche. Egli è semplicemente un giovane drammaturgo moderno capace di estrarre anche dalla poesia più semplice le emozioni più alte e genuine. Quello che solo lui riesce a creare è quello spasmo cardiaco che trova nell’intelligenza la sua unica cassa di risonanza possibile. Qualcosa di ardente e di triste, di caldo e di emozionante, di bello, di troppo bello.
«Swoon» era un disco che faceva sognare, che produceva voluttà e tristezza in maniera confusa e per questo ancora più grande. Ora «Steve McQueen», con il suo ribellismo languoroso, il suo continuo vento che ti pizzica le guance mentre corri solitario su una vecchia Triumph è riuscito ad andare ancora oltre. Il suo messaggio implicito è che la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni; ma che viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza. Questo disco non è una rivoluzione, ma vedrete che si finirà per arrivarci.
Giampiero Vigorito (Rockstar, 1985)
🔵🔵🔵
«Vivo per scrivere, è l’attività più piacevole che conosca.
La possibilità di creare qualcosa dal nulla mi fa ancora venire i brividi. Se
non posso scrivere, ho attacchi di ansia e non riesco a rilassarmi. Credo sia
l’unica cosa che giustifichi la mia presenza sulla terra. È una nevrosi. Non
sarei capace di fare altro. Mi piacerebbe avere l’autosufficienza di quelle
persone che possono sedersi in pace a godersi una giornata tranquilla e
riflettere sulle cose. Dovrei essere picchiato per arrivare a quello stadio. Ma
sono felice così. Perché c’è sempre la possibilità che un giorno, attraverso
una combinazione di abilità e di fortuna, possa uscire fuori la sequenza di
accordi di una melodia che aggira l’intelligenza e colpisce il sistema nervoso.
La maggior parte dei critici musicali è fissata con l’analisi dei testi.
È del tutto fuorviante spezzare in due il brivido della scrittura e quello
della musica. La magia è al di là del puramente verbale. Con le parole potrebbe
significare una cosa, con la voce un’altra.
Una parola può avere un significato se si ascolta la voce di Leonard Cohen, ma
potrebbe suonare completamente diversa attraverso quella di Marvin Gaye o Paul
McCartney. Le canzoni come quelle di Bacharach sono una tregua per uscire dal
groviglio delle incomprensioni. Magari ti aiutano a capire che quell’attacco di
ansia serviva davvero a qualcosa».
(Il leader dei Prefab Sprout, che ha passato l’infanzia a fare il benzinaio e a spiegare la strada agli automobilisti, questa volta indica un’altra direzione.)
(tratto da: Burt Bacharach - The Book of Love, Nella vita e nei ricordi del più grande genio del pop, di Giampiero Vigorito, Coniglio editore 2008)
🔵🔵🔵
Giampiero Vigorito |
Giampiero Vigorito nasce a Roma il 6 novembre 1956 ed inizia la sua carriera giornalistica nel 1977, quando entra come collaboratore nella rivista musicale Popster, allora diretta da Carlo Massarini. Per molti anni, dal 1983 al 1994, ha condotto Stereonotte, il programma notturno di Radio Rai. Ha lavorato anche in network radiofonici come "Radio Kiss Kiss" e "Radio Città Futura".
Nel 1981 è stato coautore per "L'Enciclopedia del Rock" di Teti Editore, ha pubblicato il libro "Genesis" con la Gammalibri nel 1982 e ha collaborato a "La Grande Enciclopedia di Rockstar" del 1987.
Dal 1994 al 2001 ha diretto il mensile musicale Rockstar.
In televisione è stato ospite di "Quelli della Notte" e ha collaborato ai testi per i programmi di Renzo Arbore "DOC Offerta Speciale" e "International DOC Club".
Dal 2001 ha presentato sulle tre reti radiofoniche della Rai trasmissioni come "Radiouno Music Club", "Zona Cesarini", "Storyville", "Fuochi", "Baobab", "Prima del Giorno", "File Urbani" e, di recente, "Passsioni" e "Vite Che Non Sono La Tua". Nel 2012, in occasione delle Olimpiadi di Londra, ha scritto e condotto su Radio3 in 20 puntate il programma quotidiano "Leggende Olimpiche"; esperienza ripetuta due anni dopo con un ciclo di trasmissioni questa volta dedicato ai Mondiali di Calcio in Brasile intitolato "Leggende Mondiali". Anche nell'estate del 2016, a ridosso delle Olimpiadi di Rio, ha ripreso il suo format "Leggende Olimpiche" su Radio3 in un nuovo ciclo di 16 puntate.
Nel 2008 ha pubblicato per la Coniglio Editore il libro "Burt Bacharach - The Book of Love". Nel 2014 ha curato il libro "Xena Tango - Le Strade del Tango da Genova a Buenos Aires" all'interno di un progetto musicale realizzato da Roberta Alloisio, il bandoneonista argentino Walter Ríos e il premio Oscar Luis Bacalov, pubblicato dall'etichetta Compagnia Nuove Indye.
Dal 2013 è docente del Master in critica giornalistica (cinema, teatro, televisione, musica) dell'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico di Roma.
martedì 5 giugno 2012
In a beautiful place out of the country - Playlist di Alice
2 Eyen - Plaid
3 Amor Fati - Washed Out
4 You Put A Smell On Me - Matthew Dear
5 My Only Swerving - El Ten Eleven
6 Five Seconds - Twin Shadow
7 Lady Linda - Mux Mool
8 Futile Devices - Sufjan Stevens (Shigeto Remix)
9 Before I Move Off - Mount Kimbie
10 Dayvan Cowboy - Boards Of Canada
11 Vessel - Jon Hopkins (Four Tet Remix)
12 Feel Something - Holy Hother
venerdì 1 giugno 2012
La storia di Pablito, di Oliviero Beha
Guardavo la folla, i compagni, le bandiere dell’Italia sventolare ovunque, e dentro sentivo un fondo di amarezza. “Adesso dovete fermare il tempo, adesso.” mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito...
Paolo Rossi, alias Pablito
13 giugno - 11 luglio 1982. Sono i ventotto giorni che mi hanno consegnato alla storia, rendendomi immortale e sposando al mio nome uno dei ricordi più cari all’Italia e agli italiani, Li rivivo come se fosse adesso, con lo stesso valzer di emozioni. Con uno stato d’animo altalenante, paragonabile alla realtà di quegli istanti memorabili. Timoroso ma positivo, pronto a qualsiasi sacrificio pur di dimostrare agli altri quanto valessi, e soprattutto intenzionato a dire grazie con i fatti a chi ha creduto in me prima, durante e dopo i due anni devastanti e interminabili dì squalifica: Enzo Bearzot. E non l’ha fatto per simpatia, ma perché come nessun altro credeva che prima o poi sarei tornato il Pablito esploso con lui in Argentina nel Mondiale del 1978.
“Bearzot insiste a dispetto di chi vuole fuori squadra un Rossi ancora disorientato dalla lunga inattività ed aspetta. Sicuro lui solo, che prima o poi Rossi, rinfrancandosi, lo ripagherà di quel legame, che evidentemente non è fatto di cieca ostinazione ma di consapevole ragionamento e di radicata fiducia.” (Gino Palumbo, “Gazzetta dello Sport”, 1982)
A distanza di trent’anni guardo le cose con occhi diversi, più maturi, e con disincanto sorrido all’idea di aver dubitato delle mie capacità di calciatore e di uomo. Eppure, in certi momenti di profondo sconforto dovuti alla gravosa condanna del calcioscommesse, mi sembrava impossibile poter rigiocare a certi livelli.
A ventitré anni mi sentivo un calciatore finito, un talento inutile. Ero distrutto, talmente ferito da non avere più nemmeno la voglia di esultare per un pallone che terminava la sua corsa dritto in rete. Neanche se a buttarlo dentro fossi stato io. Tantomeno mi gratificava quella gente alla quale ero abituato, e affezionato, che continuava a stringermi la mano facendomi capire che credeva nella mia innocenza. All’improvviso l’universo che mi apparteneva, dove da tempo venivo considerato un semidio, mi si è rivoltato contro pugnalandomi alle spalle con un giudizio sbagliato e vigliacco.
Non ero riuscito a convincere i giudici della CAF — la commissione d’appello federale che sentenzia in via definitiva sulle imputazioni nei confronti delle decisioni assunte dal giudice sportivo nazionale in materia d’infrazioni disciplinari — sulla mia estraneità allo scandalo della partita Avellino - Perugia, nonostante il processo penale si fosse chiuso a mio favore perché “il fatto non costituiva reato”.
Per salvarmi dall’accusa di “illecito sportivo” avrei dovuto farmi coraggio e denunciare Mauro Della Martira, e prendermi sei mesi di squalifica solo per aver omesso quello che sapevo e che in molti conoscevano. Ma come si fa a denunciare un compagno di squadra? Il mio errore è stato tacere, cercare ingenuamente di proteggere Mauro. E mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con tre anni da scontare lontano dal campo di calcio, poi ridotti a due dopo il mio ricorso in appello. Centoquattro settimane di vuoto totale, settecentotrenta giorni di prostrazione. Un lungo, tormentato, odiato esilio, isolato da quell’ambiente nel quale ero cresciuto e dove avevo appena terminato lo svezzamento. Mi sembrava irreale, incredibile, inammissibile. Non poteva essere accaduto proprio a me. Mi sentivo il personaggio perseguitato di un film di fantascienza. Il capro espiatorio di una vicenda tristemente folle, vittima ideale di una decisione dissennata. È stato l’incubo perfetto, quell’incontro di Avellino. Era il 30 dicembre del 1979, l’ultima partita dell’anno da aggiudicarsi e poi tutti a casa. Le circostanze hanno invece voluto che finisse sul 2 a 2, con una mia doppietta, e il gol del pari a un minuto dallo scadere, in mischia nell’area piccola. il mio giardino personale. Per l’accusa una serie di concomitanze diaboliche.
Pensavo di venirne fuori svegliandomi una mattina e scoprendo che si trattava di una banale allucinazione, di uno stupido errore. Come quando ti muore una persona cara e speri che il giorno seguente la realtà sia diversa. Ma come quando perdi un tuo affetto non andò così, e non mi rimase altra scelta che iniziare a elaborare il lutto. Un dolore lacerante, dalle ferite croniche. Soprattutto se conosci la verità e ti viene negata. Ho meditato per settimane sulla possibilità di lasciare l’Italia e smettere. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente.
L’ho detto e ridetto nel tempo, e mi ripeto ancora oggi, come se fosse l’ennesima confessione a cuore aperto. dopo aver interamente scontato la mia pena: quella partita allo stadio Partenio si giocò regolarmente. Non c’è stata nessuna combine, nessun accordo fra le due squadre o fra i giocatori. Io segnai due volte, mi capitava spesso. Con il Perugia in quella stagione avevo realizzato tredici reti in ventotto gare e il Mondiale fu La conferma della mia facilità al gol. Era il mio ruolo, il mio compito. Nessuno mi favorì nel mettere tra i pali quelle due palle. Nessuno parlò mai di soldi. Oltre ai compensi dovuti, non ho mai preso un centesimo in più, né dal calcio, né dai millantatori che lo circondano.
Mauro Della Martira, il giorno prima della partita, mi presentò solo un tizio strano, tale Massimo Cruciani, commerciante all’ingrosso di ortofrutta che tramite Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante nella capitale rifornito dallo stesso Cruciani, era entrato in contatto con personaggi che lo avevano convinto a scommettere su alcune partite di serie A. Secondo loro, combinate. Tabellini alla mano, però, non tutti i risultati “prospettati” si verificarono e Cruciani perdette una consistente somma di denaro, tanto da denunciare il fatto alla Procura della Repubblica di Roma sostenendo di essere stato truffato. Ne seguirono condanne a fiume, la mia compresa.
Ma per quanto mi riguarda, Cruciani, durante una brevissima conversazione nella hall dell’albergo di Vietri sul Mare (dove mi trovavo in ritiro con la squadra), mi fece sapere, tramite Mauro, di essersi sentito con i calciatori dell’Avellino, i quali avrebbero voluto pareggiare contro il Perugia, dove giocavo all’epoca da quando il presidente Franco D’Attoma — persona di stile, della quale conservo un ottimo ricordo — mi aveva ingaggiato in prestito dal Vicenza — appena retrocesso in B —, per settecento milioni di lire. Il contratto era stato perfezionato a Follonica, nella tenuta di Valmora di Giussy Farina, tra quest’ultimo e D’Attoma in persona.
C’era stato anche un colloquio telefonico con Corrado Ferlaino, che mi voleva al Napoli. Declinai l’offerta, spiegandogli che desideravo andare in una squadra costruita per vincere. Erano legittime ambizioni di un giovane giocatore nel pieno della sua marcia. Non potevo rischiare di finire la carriera senza conquistare qualcosa di significativo. Il mio rifiuto fu vissuto dai napoletani come un atteggiamento snobistico, mi scrissero di tutto, accusandomi di essere razzista. Me ne dispiace ancora, ma avevo chiesto a Ferlaino una squadra che potesse competere in campionato e nelle coppe internazionali: non me ne dette mai garanzia. Solo sei anni dopo, con l’avvento di Maradona, il Napoli cominciò a fare sul serio. Anche la Juventus intendeva riacquistarmi, dopo avermi perso alle buste con il Vicenza di Farina, ma i rapporti fra le due società erano ancora tesi. Milan e Inter non furono da meno nel pressing per assicurarsi le mie prestazioni, ma non se ne fece nulla per evitare di scatenare un’asta. Alla fine, l’opzione più gradita fu il prestito al Perugia. Farina trattò con D’Attoma, io acconsentii. La Juventus rimaneva il sogno.
Tornando a Cruciani, con la mediazione di Della Martira gli risposi che "un uomo da solo non può fare nulla, nemmeno con i miracoli!”. La sera ne parlammo con la squadra, interrompendo una divertente tombolata, ma nessuno prese in considerazione quella proposta che reputammo tutti contraria ai nostri principi etici e sportivi. Non avevamo bisogno di quel pareggio, non se ne fece nulla. In albergo riprendemmo le nostre sfide a tombola, a scacchi, a carte e a biliardino, senza dare più peso a ciò che era accaduto.
L’indomani la partita si svolse correttamente. Feci il mio dovere, ma quella conversazione per interposta persona mi costò molto cara. Il 27 aprile 1980 giocai la mia ultima partita, Juventus - Perugia, terminata sul 3 a 0. Poi l’amaro “confino”.
Provate a immaginare un giovane di ventitré anni, all’apice della sua carriera, corteggiato dalle squadre più forti e dagli sponsor di ogni settore, alle prese con un torbido faccendiere. Cosa mi avrebbe potuto dare in più di quello che già possedevo? Non mi mancava il successo, non mi mancavano i soldi, non mi mancava la popolarità. Avevo il mondo nelle mie mani e una carriera in ascesa. Solo un pazzo avrebbe buttato una vita invidiabile per niente. Purtroppo non sono stato creduto, o magari, essendo uno dei giocatori più in vista all’epoca, sono stato “usato” come esempio di punizione eccellente . Cinque anni dopo Cruciani confermò le mie convinzioni ammettendo che fui tirato in ballo solo perché ero un simbolo. Anche per questo, mi piacerebbe ancora oggi conoscere le motivazioni che portarono i giudici sportivi a condannarmi, non avendo in mano nessuna prova che dimostrasse la mia colpevolezza. Cosa cambierebbe? Chi potrebbe ripagare me e la mia famiglia del dolore subito e delle lacrime versate?
Per un minuto e mezzo di chiacchierata sono stato derubato di due anni di carriera nel periodo di maggior splendore, quando dagli addetti ai lavori del mondo del calcio venivo considerato un astro nascente. All’improvviso mi apparve tutto assurdo, perfino quello sport che avevo amato fin da bambino e per il quale avevo lasciato presto la mia casa e la mia famiglia. Ero alla deriva.
Paolo Rossi era innocente. Pagò con due anni di squalifica le accuse di tre testimoni falsi e l’eccesso di zelo dei giudici sportivi che, colpendo lui, un intoccabile per di più con l’aria da bravo ragazzo, poterono dimostrare di non avere guardato in faccia nessuno e di avere un solo obiettivo, la salvezza dello sport più popolare, il calcio.
Lo sostiene Fabrizio Corti, impiegato del comune di Roma, assessorato alla Nettezza urbana. Chi è Corti? Il portaborse, l’uomo ombra, il factotum di altri due personaggi romani un po’ più noti (per mesi, nel 1980, tennero le prime pagine dei giornali): Massimo Cruciani, fruttivendolo, e Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante. Trinca e Cruciani furono i due accusatori principali nel processo che provocò un terremoto nel mondo del calcio. E Corti fu sempre accanto a loro, come testimone e anche come detenuto, quando tutti e tre finirono in galera. Un testimone straordinario, dunque...
“Corrado De Biase mi chiese più volte: ‘È proprio sicuro che Rossi abbia preso i soldi?’. Io risposi sì, senza fare una piega. Contro Paolo Rossi non c’era uno straccio di prova, solo la testimonianza mia, di Trinca e di Cruciani. Ma Trinca e io abbiamo avuto la colpa di dare retta a Cruciani, d’averlo appoggiato contro Paolo Rossi.”
Cruciani, pochi anni dopo, ha scagionato Paolo Rossi. Troppo tardi.
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