1 Feel Flow - Slow Magic 2 Good Time - Brazilian Girls 3 Blue Meanies - Opossom 4 Sixteen Minutes - Belleruche 5 In The Wake - Tristesse Contemporaine 6 Anything New - Bibio 7 Candid De La Calle - Apparat 8 Ever With Us - Bodies Of Water 9 We Are Trees - Sunrise Sunset 10 Samba Noir - Toco
Parlando con Graeme Thomson nel 2006, Paul Buchanan ha espresso la sua idea sul miracolo quotidiano della musica: "Essere in grado di ascoltare la musica e poter parlare agli altri attraverso la musica è come essere in grado di camminare a mezz'aria. Mi rattrista che la musica sia stata trasformata in un prodotto low-cost, dentro un supermercato. È come se il miracolo sia stato trasformato in un brand. Sono molto amareggiato." "Ogni disco deve essere confrontato con il silenzio - il silenzio è perfetto, cosa ci puoi aggiungere?".
Nel suo primo disco in otto anni, il primo disco solista della sua carriera – senza considerare che i Blue Nile fossero effettivamente diventati un progetto solista verso la metà degli anni ‘90 - Buchanan spinge la canzone pop al limite di quel silenzio perfetto.
Mid Air è una raccolta di 13 ballate e uno strumentale, registrate alle 3:30 a.m. dell'anima, nella cella della ‘tower of song’, pochi piani sopra dove Leonard Cohen sta eternamente registrando ‘Songs From A Room’, Sinatra sta componendo “Where Are you?” e Tom Waits sta lavorando su “Small Change”.
Nasce appena sopra il mormorio e il respiro, sul rumore del treno della notte, del gong dell'orologio cittadino, sulla sirena del porto. Scontato dire che sia magnifico. Anche i fans più devoti hanno dovuto ammettere che “Peace At Last” (1996) e High (2004) avevano dei difetti, delle lungaggini.
Ma questo è un disco quasi perfetto, che nella sua grande modestia Buchanan definisce come "record-ette", e assomiglia ai loro immacolati albums degli anni ’80: “A Walk Across The Rooftops” e “Hats”. Non è una partenza da zero, un nuovo stile o genere, ma è più simile a un perfezionamento e all’elaborazione di possibilità latenti nella musica precedente.
In un certo senso, Mid Air rivisita la ricca sorgente di "Easter Parade", brano di ‘Rooftops’, e ne esplora lo spazio musicale ed emotivo, come se si trattasse di un nuovo oceano in cui avventurarsi.
"Easter Parade", infatti, è sempre stata percepita come la prima nel progetto di una ideale torch song da inseguire, che Buchanan porta avanti nel corso degli anni, attraverso il primo classico B-side "Regret" ("it’s 3:30 and i’m thinking of you…")," From A Night Train" da ‘Hats’ e “Family Life” da ‘Peace At Least’. Mid Air raduna 14 variazioni enigmatiche su questo mood, solo pianoforte, voce, qualche pallido raggio lunare di orchestrazione, che miracolosamente non è mai monotono o noioso.
Ciò è dovuto in parte alla brevità delle canzoni (nessuna dura più di tre minuti) e all’essenzialità dei testi ‘neon-haiku’ di Buchanan.
La lista della title track, "the buttons on your collar, the colour of your hair", è quella degli ingredienti di un incantesimo per evocare la presenza di qualcuno, mentre " Wedding Party" è una manciata di istantanee: “tears in the car park”, “a long walk in the wrong dress" “i was drunk when i danced with the bride”.
Sembrano vite rapprese nella disillusione e nella sconfitta, ma questo spleen è anche l’irresistibile suggestione e fascino del canto di Buchanan.
Da un paese noto per la sua furia e la spavalderia (dal sublime - Billy Mackenzie - al ridicolo - Jim Kerr), Buchanan si rivela invece un’anima combattuta e sensibile che al massimo mormora "yeah..." chiudendo la canzone finale, "After Dark".
C'è un eco consapevole della ‘tinsel town’ del suo debutto, e anche se è stato detto come l'album sia in parte l’elaborazione del lutto per la morte di un amico, non si può fare a meno di ascoltarlo anche come il canto di accomiato dalla sua vecchia band.
Se avete letto la biografia di Allan Brown, "Nileism: The Strange Course of the Blue Nile", saprete già del modo inaspettato in cui la band, e prima ancora compagni di scuola e amici universitari, che sono cresciuti e vivono ancora nella stesso chilometro quadrato di Glasgow, si sia inspiegabilmente disunita. E sebbene voi preghiate che si riveli prematuro, la band non poteva sperare in un epitaffio migliore di Mid Air.
Due domande a Paul Buchanan Stai inseguendo la canzone ideale in ‘Mid Air’? Ti ci stai avvicinando a questo proposito? “Questa è una buona domanda. In parte sì, in parte no. "Easter Parade" ci è andata molto vicino. Ma la parte più rilassante di questo disco è che non è stato programmato, pensato a tavolino. Stai sempre a suonare gli stessi accordi e al contempo cercando comunque cose diverse. Ho riletto ‘Summer Of Love’ di George Martin (produttore definito come il "quinto Beatles" ndr) di recente, e sono ritornato ancora su quella citazione di Lennon, di come lui abbia scritto solo due canzoni vere e proprie, "Help!" e "Strawberry Fields Forever". Si può dissentire, ma si capisce che cosa intendesse dire.”
Pochi anni fa hai detto che aspiravi a scrivere canzoni ridicolmente ottimiste. Le stai salvando per il prossimo album? "Very good! Le sto risparmiando per il prossimo album, yeah! Il nostro primo singolo, "I Love This Life", è stato il punto di partenza. Senza che suoni come l'Odissea, sarebbe bello poter concludere con lo stesso ottimismo ridicolo. L'unica differenza può essere che tu hai la purezza e forse la perdi per strada, ma ciò non significa che non puoi valutare l’esperienza e decidere di essere ottimista, nonostante tutte le prove contrarie. Non so se faremo un altro disco, ma sarebbe un buon posto dove andare. C'è un volontà di innocenza in Mid Air che è almeno in parte il cammino per recuperarla.”
(recensione e intervista a cura di Stephen Troussè, tratta da Uncut Magazine, June 2012) Traduzione: Luca Tanchis
Elementi pop di storia # 04: Generation Kill, di David Simon, Ed Burns, Evan Wright 'Generation Kill' racconta le memorie irachene del giornalista del Rolling Stone Ewan Wright che, durante i primi mesi dell'invasione in Iraq nel 2003, ottenne il permesso di essere affiancato al primo battaglione di ricognizione dei marines. Tutta la serie è sceneggiata da David Simon e Ed Burns, autore di un capolavoro assoluto dei serial tv come 'The Wire', e anch'essa è prodotta dall'emittente televisiva HBO. E' un racconto orizzontale, scarno ed essenziale. Come la fotografia desaturata, niente aderisce allo 'spettacolo' della guerra, sia la messa in scena degli eventi bellici che le reazioni emotive dei protagonisti sfiorano il minimalismo (tra gli attori un bravissimo Alexander Skarsgard, visto anche in 'Melancholia' di Von Trier).
Non c'è nessun eroe, il mattatore assoluto è una ricerca di senso continua, un girare a vuoto nell'angoscia che sfocia spesso in surreale comicità grazie alle mosse dell'apparato in comando, generali e ufficiali in carriera. Stupenda ed emblematica la puntata finale, la settima, che si chiude sulla musica di Johnny Cash, 'The man comes around'. "Hear the trumpets, hear the pipers / One hundred million angels singing/ Multitudes are marching to the big kettledrum/ Voices calling and voices crying/ Some are born and some are dying/ It's Alpha and Omega's kingdom come".
Di tutti gli sforzi, di tutti i sacrifici e di tutte le assurdità perpetrate rimane solo un enorme senso di colpa e di inutilità, l'amarezza, il tarlo di non essere più la potenza che esporta giustizia.
Elementi pop di storia #3: The Pacific, di Steven Spielberg, Tom Hanks, Gary Goetzman
'The Pacific' e 'Generation Kill', due serie televisive come uno studio bellico sulla volontà di onnipotenza espansionistica a stelle e strisce, ma anche due stili di narrazione nettamente differenti, metafora di una partenza ruggente e giustificabile a prima vista, e di un approdo svuotato da qualsivoglia urgenza democratica e morale.
The Pacific è una serie ambientata nel '42 che racconta la presa del Pacifico, dallo sbarco di Guadacanal (come 'The thin red line' di Malick) fino a Iwo Jima (teatro delle bandiere e delle lettere di Eastwood). Prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, insieme al network HBO, non nasconde nulla della poetica spielberghiana, il mostruoso dispiegamento tecnico, l'esposizione spudorata dell'invincibilità americana con nemici schiacciati e uccisi come formiche (solo al nono episodio si intravede una rapida parvenza di umanizzazione dei giapponesi con una esplicita citazione di 'Full Metal Jacket'), la sacra famiglia statunitense che a casa aspetta e produce, come anello mitologico che tutto tiene. Anche il commento sonoro di Hans Zimmer è senza freni, un miele epico che cola quasi ininterrottamente per tutti i dieci episodi. Non è tanto il messaggio (che potrebbe anche interessare relativamente), ma è il linguaggio visivo senza ambiguità, tecnicamente irresistibile nel disseminare esaltazione verso simboli che sembrano sposare e giustificare politiche imperialiste piuttosto 'invasive'. Un prodotto commerciale perfetto, si dirà, ma considerando Spielberg uno dei grandi del nostro tempo, viene da chiedersi quando mai si abbandonerà a un fare più libero, più vicino a A.I. - Intelligenza artificiale o L'impero del sole che a opere venate di committenze patriottiche o genetiche.
Penultima avventura davanti (e dietro) l’odiata macchina da
presa, Salomè è probabilmente (oltre al diavolo) il sunto della poetica
cinematografica iconoclasta e furente di Carmelo Bene. L’incontenibile (e
incontentabile) genio salentino, infatti, dopo spudorate rivoluzioni teatrali,
nel 1968 inaugura un lustro a 35 millimetri con l’oltraggioso Nostra Signora
dei turchi (Leone d’argento alla Mostra di Venezia), per poi proseguire, con
altri tre splendidi titoli, la sua opera di disfacimento filmico fino al
requiem di Un Amleto di meno nel 1973.
Cinque anni di sciopero da palcoscenico
per dedicarsi esclusivamente a una crociata contro la religione cinema, un
culto tanto odiato quanto adulato (Buster Keaton e Joao César Monteiro su
tutti), ma che, grazie a Salomè, è così funereo da risultare fecondissimo. Il
film infatti è permeato (volutamente o meno) di una forza artistica e creatrice
che solo la magia della celluloide è in grado di partorire (con i dovuti
genitori) e l’illusionista Carmelo riesce a saldare, in un’unica potentissima
lega kitsch, disaccordi e contraddizioni, volgarità e sublime, misticismo e
carnalità. Salomè (come d’abitudine, figlia di precedenti parti teatrali) è lo
sposalizio della teatrale esuberanza del Barocco (leccese) e dello schiaffo
immorale della Pop Art, la danza dei sette veli musicata da Strauss, ma anche
le languide, lacrimose note delle canzonette popolari (Rosamunda, Vipera,
Valzer spensierato), la tragedia costante e annunciata che all’improvviso si
acquieta nello sberleffo cattolico (Cristo ha canini da vampiro degni di Bela
Lugosi). Un equilibrio rarissimo che si riflette in specchi opposti, anche
grazie alla magnetica fisicità di Bene che straripa a ogni inquadratura pur
conservando un essenza quasi impalpabile ed eterea (Erode non è che il simbolo
del paganesimo in totale dissoluzione). In Salomè l’orgia non si nutre
solamente del malriuscito party del tetrarca, ma si impossessa della macchina
da presa generando una baldoria registica capace di ben 4500 inquadrature, di
un cacofonico concerto di voci stridule, di acrilici impazziti che esasperano
gli occhi e di primissimi piani di corpi condannati al cupio dissolvi. Anche le
scenografie (realizzate dall’artista Gino Marotta) sono un baccanale visivo
senza precedenti: la corte di Erode è una sorta di isola galleggiante e sempre
in movimento, piena di palme coloratissime, di tavolate lussureggianti, di
uomini e donne adornati di fiori (di plastica).
Lo stupore visivo è reso ancora
più sconvolgente dall’aggiunta (sui corpi, sugli oggetti e sui costumi) di
tessere luminose in grado di creare una sorta di “effetto mosaico” (grazie
all’uso dello scotchlite, un materiale rifrangente che, opportunamente
illuminato, crea un effetto di acrilica bellezza).
Nell’antico delirio barocco,
il cast è squisitamente in sintonia con la modernità dell’epoca grazie alla
scheletrica musa (afroamericana/warholiana) Donyale Luna (la principessa
Salomè) e all’abbagliante carnalità delI’iconissima Veruschka (Myrrhina).
Entrambe ammaliano le orbite impazzite di un Carmelo/Erode quasi sempre turgido
e nudo fino alla redenzione finale, che pare tramutano in creatura mistica e
celestiale quando ormai la negazione della matrice divina Beniana può rivelarsi
solo pura blasfemia.
(testo di Cecilia Ermini, estratto dal settimanale FilmTV, 11 marzo 2012)
La volta che Steve Mc Queen aprì le porte della sua casa californiana per un servizio esclusivo.
Nella Primavera del 1963 Steve Mc Queen ospitò il fotografo John Dominis del Life Magazine nella sua villa di Palm Springs. Tre settimane e più di quaranta rullini più tardi, Dominis poteva vantare un impareggiabile scorcio sulla vita del multipremiato attore, dopo aver passato del tempo con la sua famiglia, essersi accampato con i suoi amici ed aver partecipato ad indiavolate corse automobilistiche intorno ad Hollywood. Dominis catturò centinaia di immagini intime, delle vere icone oggi, di cui solo una manciata furono allora pubblicate. Ecco una selezione di quelle che non apparirono sul settimanale-culto.
1 Last Night - Daikon 2 Maliblue - Darius 3 I'm His Girl - Friends 4 Golden Chains - ALB & The Shoes (Alex Gopher Remix) 5 Over - Casa Del Mirto 6 Conflict of a Man - Erimaj 7 Move Love - The Robert Glasper Experiment feat. King 8 Lover's Carving - Bibio 9 Houstatlantavegas - Sonnymoon 10 The Cigarette Duet - Princess Chelsea